Il pensiero di Silvio Trentin è un pensiero vigoroso

Silvio Trentin con la figlia Franca – Fonte: Wikipedia

Silvio Trentin è meno noto di altri leader antifascisti del suo tempo.
Poche sono le biblioteche che conservano i suoi scritti; meno ancora lo sono i corsi universitari a lui dedicati. Già Norberto Bobbio e Giannantonio Paladini, i due autori che forse hanno maggiormente contribuito a diffondere il suo pensiero, si erano posti il problema senza riuscire a trovare una risposta persuasiva. Nemmeno la biografia di Frank Rosengarten, pubblicata in Italia nel 1980, è riuscita a rompere il velo. Del resto anche questa è una anomalia: i due studiosi che per primi si sono occupati del sandonatese, con lavori egregi, va detto, sono uno statunitense proveniente da New York, scomparso nel 2014, e uno svizzero, Hans Werner Tobler […]
Questa mancata notorietà è tanto più sorprendente se si considerano i tratti essenziali della personalità di Trentin. Innanzitutto la sua scelta di vita. Già nel 1926 ha scelto l’esilio, rinunciando alla docenza universitaria per non sottostare alla legge fascista che gli imponeva obblighi
inaccettabili nel comportamento e nell’esercizio dell’insegnamento. Soltanto Francesco Saverio Nitti e Gaetano Salvemini fecero la stessa cosa.
Alcuni anni dopo altri professori universitari, a dire il vero non molti, rifiutarono il giuramento fascista e dovettero abbandonare la cattedra.
È stata una scelta di vita pesante, che condusse Silvio prima a fare l’agricoltore, poi per parecchi anni l’operaio in una tipografia e infine il gestore della Librairie du Languedoc a Tolosa, la quale divenne uno dei centri più vivi dell’antifascismo non solo italiano, ma europeo. Trentin è probabilmente l’esponente più europeo dell’antifascismo italiano: non soltanto per la matrice culturale e per il suo pensiero chiaramente orientato alla costruzione degli Stati Uniti di Europa, ma soprattutto per le
sue relazioni a largo raggio, particolarmente con l’antifascismo francese e spagnolo, e per la sua partecipazione diretta e personale sia alla guerra di Spagna e successivamente alla lotta di Liberazione nel sudovest della Francia, con la costituzione del movimento partigiano Libérer e Fédérer.
Purtroppo muore presto, già nel marzo 1944, ma nei sei mesi in cui è in Italia ed è a capo della Resistenza veneta, ha modo di lasciare una feconda eredità, come hanno testimoniato Norberto Bobbio, Concetto Marchesi, Egidio Meneghetti, Leo Valiani, Emilio Lussu, e poi i giovani aderenti
al Partito d’Azione. Ricordo per tutti Alberto Giuriolo, che tradusse Libérer e Fédérer e fu poi assassinato dai nazifascisti, Mario Dal Pra, a cui consegnò la bozza di Stato, nazione, federalismo, ed Enrico Opocher, futuro rettore dell’Università di Padova. Anche Ugo La Malfa ha confessato di avere un debito di riconoscenza verso Trentin, non soltanto per le sue lezioni universitarie, ma per avergli fatto conoscere Giovanni Amendola.
C’è un tratto singolare che lo distingue e che va segnalato: Trentin è stato non soltanto un leader politico, uno dei maggiori esponenti di Giustizia e Libertà, ma un giurista-politico. Il diritto pubblico e amministrativo e in particolare il rapporto tra questo e la libertà della persona e l’autonomia degli organismi sociali sono stati la linfa del suo impegno politico.
Chi mi ha fatto conoscere Silvio Trentin è stata sua figlia Franca. Ero a Venezia da pochi mesi, come segretario regionale del PCI Veneto, e un giorno venne a casa mia con un pacco di libri. C’erano vari interventi su suo padre, di Bobbio, di Paladini e di altri, atti di convegni, e soprattutto due libri che quasi subito mi accinsi a leggere: Dieci anni di fascismo nel titolo del quale, curiosamente, nella traduzione dal francese della edizione italiana ad opera degli Editori Riuniti (1975) si smarrisce
la qualificazione di totalitario, e poi Stato nazione federalismo nella edizione oramai rara del 1945, curato da Dal Pra che lo aveva portato clandestinamente a Milano.
Mi colpirono molto. La sua analisi sul fascismo aveva aspetti sicuramente originali nella disanima puntuale e organica dei soprusi, legali e illegali, contro la libertà e contro i diritti dell’uomo. Anche l’uso del termine ‘totalitario’ mi sembrò nuovo per il tempo in cui il libro fu per la prima volta pubblicato (1936, l’anno del maggiore consenso al fascismo).
Ma più ancora mi impressionò favorevolmente la concezione federalista del suo pensiero e del nuovo ordine costituente da lui proposto, che è alla base di Stato nazione federalismo. Non era soltanto un federalismo istituzionale, e neppure soltanto territoriale, anche se ovviamente questa
dimensione esisteva, ma un federalismo che definii subito ‘strutturale’, che cercava cioè di costruire una partecipazione sociale e un equilibrio nuovo tra Stato e società e con la rappresentanza degli interessi del lavoro e della produzione.
Era presente in una certa misura l’influenza del federalismo integrale della tradizione francese, ma aveva qualcosa di diverso, specialmente nella visione della società caratterizzata dalla molteplicità
e quindi dal pluralismo.
Secondo me il pensiero di Silvio Trentin è un pensiero vigoroso che mantiene elementi di vitalità che tuttora possono essere dibattuti e studiati proficuamente per affrontare i tempi presenti. In particolare c’è un tema che è vivo oggi forse più di ieri: il rapporto tra lo Stato e la società
e in modo particolare tra lo Stato e la libertà della persona umana. Lo ha messo bene in luce Fulvio Cortese nei suoi lavori. I cardini della ricerca del pensatore sandonatese sono i seguenti: la persona umana viene prima della società e dello Stato e la libertà è inseparabile dalla persona […]
Il fascismo è l’opposto di quanto è giusto, perché lo Stato, accentrato, monocratico, totalitario, fagocita la società. Invece occorre dare vita allo Stato federale, in cui l’autonomia sia pienamente salvaguardata: sia quella della persona individuale, che quella delle varie istanze, professionali e territoriali, in cui si sviluppa l’attività umana e si articola la società.
Trovo questa idea di grande attualità e modernità. In quanto concepisce lo Stato e l’organizzazione pubblica come proiezione della società civile, o per lo meno come espressione mediata della società, e non viceversa.
Non c’è in Trentin nessuna ipostasi dello Stato e in generale del potere pubblico.
Giustamente Giannantonio Paladini ha definito questa concezione socialismo federalista. Trentin ci arriva con gradualità, soprattutto sulla base della storia e di quello che è stato definito lo ‘spirito degli anni Trenta’, cioè l’esperienza dei fronti popolari prima in Spagna e poi in Francia, la lotta al fascismo e al nazismo, l’affermarsi della rivoluzione sovietica. In modo particolare su un punto matura una ferma convinzione: il legame tra fascismo e la struttura capitalistica e dunque la necessità di una economia di tipo socialista come base per la costruzione di uno Stato federale
che sia pienamente democratico e garante della libertà personale. Con la consueta chiarezza Bobbio ha scritto: «Il suo pensiero si muoveva in due direzioni: sul terreno economico verso il collettivismo; sul terreno politico verso lo Stato pluralistico. Un concetto è l’antidoto dell’altro. Quel che vi era di minaccioso per la libertà individuale dal collettivismo doveva essere attenuato dal sistema delle autonomie; quel che vi era di iniquo nel sistema dell’economia liberale doveva essere superato dal
sistema collettivistico». In seguito Bobbio ha definito questa posizione come via intermedia o meglio terza via tra il capitalismo e il socialismo.
Lo spirito costituente di Trentin trova esplicazione nei due abbozzi costituzionali elaborati negli ultimi anni della sua vita, quello per la Francia e quello per l’Italia, analoghi, ma non identici. Le due bozze, al di là delle differenze, che tuttavia non sono significative, delineano un modello di Stato federale che cerca di combinare l’autonomia territoriale (i Comuni, le Province e soprattutto le Regioni) con la pluralità dei gruppi sociali e delle attività economiche e lavorative, in cui gli uomini
operano, si associamo, producono […]
Altra è la matrice culturale, come bene ha messo in luce Giovanni De Luna. Nell’ipotesi trentiniana il fine è la costruzione di uno Stato permeato dall’egemonia della società civile, in cui la partecipazione democratica e autonoma di massa è la linfa permanente dello Stato federale. Non lo Stato proletario e l’attuazione pratica del partito rivoluzionario, come parte e avanguardia della classe operaia.
Il progetto costituente di Trentin pecca senza dubbio di artificiosità e di macchinosità; in qualche punto è di difficile realizzazione pratica.
Si pensi, per esempio, alle sette camere professionali regionali che si devono unificare in un consiglio nazionale federale […]
La soluzione che è stata individuata dopo la Liberazione con la nuova Costituzione repubblicana probabilmente non avrebbe convinto pienamente Silvio Trentin. Non nei principi costitutivi, ma nella seconda parte del testo costituzionale, in quella ordinamentale, perché eccessiva e troppo estesa è l’egemonia dei partiti rispetto alla società.
Credo anch’io, come Angelo Ventura, che Trentin sia un personaggio ‘scomodo’. Scomoda era innanzitutto la sua innegabile sottovalutazione del ruolo dei partiti, e in particolare dei partiti di massa, come tramiti tra Stato e società. Scomoda anche la sua collocazione politica. In buoni
rapporti con i socialisti, condannava però senza esitazione il riformismo, considerato un ‘virus malefico’ nella lotta al nazifascismo. Ritenuto a ragione amico dei comunisti, ma critico nei confronti del loro tatticismo, in cui prevaleva la realpolitik, e della loro concezione giacobina e verticistica
dello Stato e del processo rivoluzionario. Sebbene pensasse che l’alleanza con l’Unione sovietica fosse indispensabile per battere il nazifascismo […]
Per quanto concerne il Partito d’Azione percepiva la distanza con gli ideali di Giustizia e Libertà; faceva parte dell’ala più radicale, avendo come progetto la lotta armata e la rivoluzione non solo democratica, ma socialista, al fine di sradicare il fascismo e il vecchio ordine e di edificare la nuova società delle libertà e degli eguali. Per alcuni versi era un eretico di sinistra, che tuttavia ha sempre saputo privilegiare l’unità, la più ampia possibile, nella lotta antifascista. Un eretico e un pensatore
originale e solitario. Per questo, credo, ha pagato un prezzo prima, durante la sua vita e dopo, con l’insufficiente ‘fortuna’ del suo messaggio politico e delle sue opere […]
Iginio Ariemma, Silvio Trentin, una personalità “scomoda” in (a cura di) Fulvio Cortese, Liberare e federare: l’eredità intellettuale di Silvio Trentin, Firenze University Press, 2016, (Carte, Studi e Opere – Centro Trentin di Venezia; 3)

Carlo VERRI, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939), Roma, XL Edizioni, 2011, 216 pp.

Tolosa, anni ‘30, libreria di Silvio Trentin (Archivio Centro Studi “Silvio Trentin” – Jesolo)

Giurista di fama, esule in Francia dal 1926 per la sua opposizione al regime fascista, tra i promotori del movimento Giustizia e Libertà e, successivamente, di Libérer et Fédérer, Silvio Trentin (San Donà di Piave, 11 novembre 1885–Monastier di Treviso, 12 marzo 1944) può essere considerato a buon diritto una delle figure preminenti dell’antifascismo italiano. La sua vita e la sua opera sono già state oggetto di vari studi, non soltanto in Italia. Nel corso degli anni Ottanta Norberto Bobbio, Giannantonio Paladini, Alessandro Pizzorusso e Moreno Guerrato hanno curato quattro ampie raccolte dei suoi scritti <1. Nel 1980 è uscita ad opera dello statunitense Frank Rosengarten una biografia su Trentin che copre l’intero arco della sua esistenza <2. Gli anni più recenti hanno visto, tra l’altro, la ripubblicazione del saggio trentiniano La crisi del diritto e dello Stato <3, un’analisi di Fulvio Cortese sul pensiero politico dell’antifascista veneto4 e l’uscita di due volumi a cura del Centro studi “Piero Gobetti” di Torino, nei quali viene presentato anche uno scritto inedito del 1944 <5. Sul versante della ricerca propriamente storica va segnalata la pubblicazione in Francia di un lavoro di Paul Arrighi, frutto di una Thèse de Doctorat <6.
Il libro di Verri, che rielabora una tesi sostenuta dall’autore per il conseguimento del dottorato in storia presso l’università “L’Orientale” di Napoli, si inserisce quindi in un quadro di ricerche già abbastanza folto. Eppure, è capace di aggiungere nuovi tasselli sia allo studio della personalità di Trentin, sia soprattutto alla comprensione del variegato mondo degli esuli antifascisti in Francia. Basandosi su un’attenta lettura dei periodici e su una documentazione proveniente da vari archivi personali ben integrata con fonti di polizia, l’autore ricostruisce in modo analitico – talvolta estremamente minuzioso – le relazioni intrattenute da Trentin tanto con gli altri dirigenti di GL quanto con i differenti gruppi antifascisti: dai comunisti ai repubblicani, dai socialisti agli anarchici. In questo modo Verri si inserisce in un filone di ricerca che prende in esame non più solo le varie formazioni politiche, ma le singole personalità degli antifascisti, le loro riflessioni sul fascismo e sulla sua diffusione su scala europea, i loro rapporti reciproci e soprattutto le difficoltà pratiche incontrate nella lotta, l’intima fragilità di persone spesso costrette a staccarsi dai loro affetti o a rinunciare, come avviene per Trentin, ad una ben avviata carriera di docente universitario in Italia per divenire manovale in una tipografia e poi libraio a Tolosa, nel sud della Francia <7.
Ponendo al centro della sua ricerca la rete di relazioni personali intrattenute da Trentin, Verri non soltanto riesce a delineare alcuni aspetti della figura del giurista veneto finora non sufficientemente indagati ma evita anche di “monumentalizzare” il personaggio, di cadere – come avverte lui stesso nell’introduzione – nell’ «errore, assai diffuso in chi studia le vicende di un solo attore, di esaltarne soprattutto la peculiarità, l’unicità nei confronti di altre, in vero, di solito parimenti speciali» <8. Risulta funzionale a questo scopo la scelta di un periodo estremamente limitato su cui focalizzare l’attenzione, che gli permette tra l’altro di seguire un filo espositivo non solo cronologico ma anche “per problemi”. Lo studio, infatti, ricostruisce soltanto tre anni dell’attività di Trentin: dall’estate del 1936 a quella del 1939. Un triennio, quello che va dallo scoppio della guerra civile spagnola – e dalla conclusione dell’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe italiane cui è dedicato l’“antefatto” del libro – al patto germano-sovietico, senz’altro cruciale per gli antifascisti, che mette a dura prova i loro rapporti unitari e la fiducia nei confronti delle differenti potenze statali, spingendoli spesso a mutare opinioni e strategie. È in questo lasso di tempo che matura in Trentin quella revisione del suo pensiero, già avviatasi specialmente dopo la crisi economica del 1929 e l’ascesa di Hitler al potere nel 1933, che lo conduce dalle originarie posizioni liberaldemocratiche – il giurista veneto era stato eletto nel 1919 nelle file dell’Associazione socialdemocratica legata al combattentismo e nel 1923-1925 si era identificato «con l’opposizione costituzionale al fascismo guidata da Giovanni Amendola» <9 – ad un antifascismo fortemente connotato in senso classista e anticapitalista. Una svolta che contribuisce ad imprimere un carattere sempre più “socialisteggiante” a GL e a rendere Trentin uno degli interlocutori privilegiati sia dei comunisti sia di quegli esponenti socialisti e anarchici che rifiutano il modello sovietico e la prassi staliniana e mirano a contrastare “da sinistra” la politica dei fronti popolari e dell’alleanza con l’antifascismo borghese condotta a partire dal 1934-1935 dai partiti comunisti aderenti alla Terza Internazionale.
Il tema senz’altro più indagato nello studio è proprio la ricerca da parte di Trentin di una piattaforma unitaria tra i vari gruppi antifascisti che non sacrifichi la specificità rivoluzionaria di GL. Si tratta di una questione spesso dibattuta tra chi evidenzia l’inconciliabilità fra le tendenze antifasciste o la più o meno marcata subordinazione dei giellisti (e dei socialisti) ai comunisti e chi invece ritiene che, malgrado le differenze, prevalga la ricerca dell’unità sulla base di un comune progetto di rinnovamento non limitato alla “restaurazione” del liberalismo prefascista, ma volto, invece, alla costruzione di una democrazia basata sulla centralità del lavoro e su una maggiore eguaglianza sociale <10. L’autore propende esplicitamente per questa seconda ipotesi <11, il che non gli impedisce di presentare un quadro assai problematico delle relazioni interne alla comunità antifascista.
Come dimostra un carteggio fra Trentin e Ruggero Grieco dell’inizio del 1936 già esaminato da Verri in un saggio su «Italia contemporanea» <12, il giellista veneto è critico sin dall’inizio nei confronti della politica decisa dopo il VII Congresso del Comintern dell’estate 1935 dal Partito comunista, quando quest’ultimo, constatato il venir meno dell’ipotesi rivoluzionaria in seguito alla crisi del 1929 e al temporaneo consolidamento del regime fascista con la guerra di Etiopia, lancia le parole d’ordine dell’unità antifascista in nome della sola riconquista delle libertà democratiche – e non più del governo operaio e contadino – e, con il famoso «appello ai fratelli in camicia nera», tende la mano persino alla dissidenza fascista sulla base della ripresa delle rivendicazioni sociali presenti nell’originario fascismo “sansepolcrista” del 1919 <13. Mentre per il dirigente del PCd’I non esistono in quei frangenti le condizioni per una rivoluzione socialista ed è necessario pertanto trovare un punto d’accordo con tutte le forze dell’antifascismo (anche con quelle borghesi) e persino con quei fascisti “antiplutocratici” sempre più critici nei confronti della politica mussoliniana, secondo Trentin, invece, il fronte unico antifascista, se vuole evitare di cadere in una posizione sterile e attendista, non può che avere un carattere «programmaticamente proletario e antiriformista» <14 […]
NOTE
1 TRENTIN, Silvio, Dallo Statuto albertino al regime fascista, Venezia, Marsilio, 1983; ID., Politica e amministrazione. Scritti e discorsi 1919-1926, Venezia, Marsilio, 1984; ID., Antifascismo e rivoluzione. Scritti e discorsi 1927-1944, Venezia, Marsilio, 1985; ID., Federalismo e libertà. Scritti teorici 1935-1943, Venezia, Marsilio, 1987; ID., Diritto e democrazia. Scritti sul fascismo 1928-1937, Venezia, Marsilio, 1988.
2 ROSENGARTEN, Frank, Silvio Trentin dall’interventismo alla Resistenza, Milano, Feltrinelli, 1980.
3 TRENTIN, Silvio, La crisi del diritto e dello Stato, Roma, Gangemi, 2006. L’opera era stata pubblicata originariamente in Francia nel 1935.
4 CORTESE, Fulvio, Libertà individuale e organizzazione pubblica in Silvio Trentin, Milano, Franco Angeli, 2008.
5 MALANDRINO, Corrado, Silvio Trentin pensatore politico antifascista, rivoluzionario, federalista. Studi trentiniani, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2007; TRENTIN, Silvio, Le determinanti dialettiche e gli sbocchi ideologici ed istituzionali della rivoluzione antifascista [europea]. Saggio inedito del 1944, Manduria, Lacaita, 2007.
6 ARRIGHI, Paul, Silvio Trentin. Un européen en résistance (1919-1943), Porter sur Garonne, Loubatieres, 2007. Cfr. anche ID., Silvio Trentin en France, de l’antifascisme en Gascogne aux débuts de la Résistance à Toulouse, in GUERRATO, Moreno, L’antifascismo italiano tra le due guerre: alla ricerca di una nuova unità, Jesolo, Centro studi e ricerche Silvio Trentin, 2005, pp. 113-143.
7 Sull’importanza dell’approccio biografico in questo campo vedi le riflessioni di SALVATI, Mariuccia, «Una biografia di Camillo Berneri», in Lo Straniero, 57, marzo 2005, URL: < http://www.lostraniero.net/archivio-2005/50-marzo/423-una-biografia-di-camillo-berneri.html > [consultato il 19 novembre 2012].
8 VERRI, Carlo, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939), Roma, XL edizioni, 2011, p. 25.
9 ROSENGARTEN, Frank, op. cit., p. 80. Cfr. su questo periodo anche CISOTTO, Gianni A., «L’esperienza “radicale” di Silvio Trentin (le elezioni del 1919-1924)», in Annali della Fondazione Ugo La Malfa, XXIV, 2009, pp. 133-148.
10 La prima impostazione viene fatta propria, tra gli altri, da Franco De Felice (cfr. DE FELICE, Franco, Introduzione in ID., Antifascismi e Resistenze, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1997, pp. 11-39) e da Marco Revelli e Giovanni De Luna (cfr. REVELLI, Marco, DE LUNA, Giovanni, Fascismo e antifascismo. Le idee, le identità, Firenze, La Nuova Italia, 1995, pp. 30-31): questi ultimi insistono sulle caratteristiche comuni ai vari antifascismi sostenendo che da essi si può far scaturire un vero e proprio paradigma antifascista fondato su una concezione “potenziata” della democrazia. Sono portati invece a sottolineare maggiormente le differenze tra i vari antifascismi, invece, Emilio Gentile (cfr. GENTILE, Emilio, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze, Le Monnier, 2000, p. 259 e pp. 276-278) o Leonardo Rapone, (cfr. RAPONE, Leonardo, L’antifascismo tra Italia ed Europa, in DE BERNARDI, Alberto, FERRARI, Paolo, Antifascismo e identità europea, Roma, Carocci, 2004, pp. 5-11): quest’ultimo distingue il piano dell’emotività, in cui può essere più forte l’unità antifascista, da quello della politica, nel quale riemergono inevitabilmente le divisioni tra comunisti, socialisti, anarchici, giellisti, repubblicani, cattolici, liberali ecc.
11 Cfr. VERRI, Carlo, op. cit., p. 25 e pp. 204-205. Vedi anche ID., «L’unità antifascista: un problema storiografico», in Annali della Fondazione Ugo La Malfa, XXV, 2010, pp. 317-333.
12 ID., «Trentin-Grieco. Un carteggio nel mezzo della guerra d’Etiopia», in Italia contemporanea, 246, 1/2006, pp. 95-120.
13 Sulla svolta rappresentata dal VII Congresso del Comintern e sulla politica dei Fronti popolari cfr. SPRIANO, Paolo, Storia del Partito comunista italiano, Vol. III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino, Einaudi, 1970; AGOSTI, Aldo, Togliatti Un uomo di frontiera, Torino, UTET, 2003 [ed. originaria Palmiro Togliatti, Torino, UTET, 1996], pp. 165-223. Per un punto di vista diverso, che prende in considerazione le posizioni dei trockisti, cfr. FRANCESCANGELI, Eros, L’incudine e il martello. Aspetti pubblici e privati del trockismo italiano tra antifascismo e antistalinismo (1929-1939), Perugia, Morlacchi, 2005, pp. 53-89.
14 Lettera di Silvio Trentin a Ruggero Grieco, Tolosa, 10 gennaio 1936, riportata in VERRI, Carlo, «Trentin-Grieco. Un carteggio nel mezzo della guerra d’Etiopia», cit., p. 110 (corsivo nel testo). Cfr. ID., Guerra e libertà, cit., pp. 38-43.
Luca Bufarale, «Carlo Verri, Guerra e libertà. Silvio Trentin e l’antifascismo italiano (1936-1939)», Diacronie, N° 12, 4 – 2012

San Donà di Piave, 1 settembre 1943, Silvio Trentin rientra in Italia dopo quasi vent’anni di esilio (Archivio Centro Studi “Silvio Trentin” – Jesolo)

L’attività di opposizione al fascismo più significativa di Silvio Trentin <1 si è svolta durante gli anni del suo esilio in Francia; non a caso, il suo fascicolo personale presso il Casellario politico centrale si va ingrossando a partire dal periodo immediatamente successivo il suo espatrio <2.
Esiste, comunque, una precedente militanza antifascista del personaggio, che data al primo dopoguerra e, più propriamente, come per la maggior parte degli esponenti di area democratica, va fatta risalire a dopo la marcia su Roma e la nascita del primo governo Mussolini <3.
L’attività politica di un democratico radicale Silvio Trentin, nel dopoguerra, si colloca in quell’area politica che rivendicava per i reduci il ruolo di attori protagonisti nel processo di rinnovamento e ricostruzione civile del paese, al di fuori dei vecchi partiti <4.
Aderisce all’Associazione democratica popolare di Venezia (Mario Marinoni, radicale, ne è leader).
Il progetto perseguito è di unire i vari gruppi della sinistra laica cittadina ispirati dagli ideali democratico-risorgimentali, per costituire la cosiddetta “terza forza”: l’alternativa politica di centro, fondata su una linea nettamente riformista e, quindi, su una più vasta intesa tra masse popolari e ceti medi.
Alle elezioni del ’19 Trentin diventa deputato, sostenuto, oltre che dalla sua formazione, da una coalizione comprendente i combattenti, i repubblicani e i fascisti; tutti, per il momento, accomunati dall’interventismo e da una generica aspirazione al rivolgimento generale dell’assetto politico-sociale ante-guerra <5.
L’esperienza di parlamentare ha termine con le elezioni nazionali del ’21, dove la democrazia sociale veneziana viene sconfitta e il suo esponente non viene riconfermato; ciò fa seguito alla débâcle subita alle amministrative dell’autunno 1920. Simili deludenti risultati sono dovuti al contesto generale di «radicalizzazione della lotta, che penalizza le forze intermedie»; inoltre, rispetto alla precedente consultazione generale, il gruppo si presenta da solo. Non vi è accordo con i repubblicani, né tanto meno con i fascisti, forza ormai di destra e, non a caso, collocatasi nel Blocco nazionale, dove Trentin e compagni si rifiutano di stare, per non rinunciare ai temi a loro cari: riforme politiche e sociali, pacificazione e ordine senza ricorso alla violenza.
Di fronte alla svolta reazionaria e antiproletaria del fascismo, all’inizio, il deputato veneto tace; comunque, il giornale demosociale di Venezia – «Il Popolo» – esprime nelle sue pagine tutta la sua contrarietà nei confronti dei sempre più espliciti atti di violenza contro gli avversari, della costante mobilitazione antisciopero e della subordinazione alle associazioni padronali. Non vi è – ovviamente – una adeguata comprensione del fenomeno, anche perché l’atteggiamento fascista si mantiene per parecchio tempo contraddittorio. Così, pur nutrendo sempre più apprensione per la sperata normalizzazione della vita pubblica nazionale, non è considerato in pericolo l’ordinamento costituzionale; il voltafaccia di Mussolini è interpretato come una risposta non giustificabile alle intemperanze dei rossi e, quindi, in quanto tale reversibile. Da qui proviene «l’equidistanza» mantenuta tra fascismo e socialismo. Verso quest’ultimo continua «la strategia del confronto», anche se vi è un avvicinamento, compiuto per lo più sotto la spinta delle battaglie di volta in volta portate avanti fianco a fianco, come quella contro le mire monopolistiche di Giuseppe Volpi sull’Arsenale di Venezia. Nell’aprile del ’21 Trentin si pronuncia in pubblico, categoricamente e senza equivoci, contro il fascismo e da lì in poi sarà intransigente nel rifiutare qualsiasi accordo con esso, individuandone ora la reale essenza repressiva. Eppure permangono ugualmente nella sua analisi errori e illusioni; nessuno tra il ’21 e il ’22 coglierà «l’esatta misura dell’avversario».
Venuto meno l’impegno romano, Trentin da una parte continua la sua attività in favore della ricostruzione del Veneto e delle bonifiche; dall’altra riprende l’insegnamento accademico: dal novembre del ’21 fino a metà del ’23 è docente di diritto amministrativo presso l’Università di Macerata. Ciò lo costringe a non occuparsi più come un tempo delle vicende politiche veneziane; sebbene dopo la morte di Marinoni nel febbraio ’22 lui sia da tutti riconosciuto come la guida del partito, più per influenza del suo pensiero che per un’effettiva funzione direttiva.
Le continue sconfitte elettorali rendono evidente a tutti gli iscritti la cronica debolezza di cui soffre la loro formazione; si impone quindi l’esigenza di superare la sua condizione di isolamento. Era già nata la Federazione provinciale della Democrazia sociale nel veneziano; ora veniva tentata la stessa operazione su una base più estesa: al Congresso di Venezia del settembre del ’21, sorgeva la «Federazione Regionale di Democrazia Sociale», facilmente egemonizzata dalla sezione veneziana per l’esiguo numero degli altri soggetti e per la stretta comunanza ideologica. Contemporaneamente erano iniziati i contatti a livello nazionale, dove nel dibattito si confrontavano due tendenze: una puntava alla formazione di un vero partito organizzato e radicato sul territorio, ideologicamente omogeneo, a forte caratterizzazione progressista; quindi dotato di una rappresentanza al Parlamento ridotta di dimensioni, perché più definita. L’altra tendenza era per un’intesa più moderata e meno vincolante, più ampia, comprendente anche parte dei liberali: un «blocco» di forze differenti, funzionante unitariamente soprattutto al momento delle elezioni e alla Camera. A favore della prima soluzione era il gruppo veneto, in contatto con fazioni democratiche rivolte molto a sinistra a Milano e a Napoli; esso era contrario all’unione con i settori moderati, per paura di un indebolimento della spinta al rinnovamento e perché si sarebbe creato un ibrido dalla scarsa compattezza, disponibile probabilmente alle tradizionali pratiche trasformistiche. Inoltre – secondo tale posizione – il programma democratico si doveva realizzare nel paese e non in Parlamento, per conseguire un reale cambiamento che, al contrario, sarebbe stato solo apparente. Queste riserve erano maggiormente alimentate dalla circostanza per cui, a sostenere la seconda ipotesi era il gruppo parlamentare denominato Democrazia sociale, al cui interno vi erano pure elementi dai trascorsi conservatori e con clientele a base prevalentemente meridionale. Si trattava del raggruppamento più forte tra quelli sorti in seguito alla definitiva fine, avvenuta sempre nel 1921, del Partito radicale e, effettivamente, l’«etichetta di sinistra» celava «spiriti nazionalisti e autoritari» <6.
Lo guidava Giovanni Colonna di Cesarò: nobile siciliano, antico deputato antigiolittiano (dal 1909), figura rilevante nel panorama radicale, con la sua base elettorale principalmente nel messinese; durante la guerra si era trovato su posizioni nazionaliste ed era stato tra i promotori, dopo Caporetto, del Fascio parlamentare di difesa nazionale. Nel periodo successivo entrò nel gruppo parlamentare «Rinnovamento Nazionale», quando ormai, dopo le dimissioni di Gaetano Salvemini, aveva perso lo spirito originario; determinante nella caduta del governo Bonomi, verrà nominato ministro delle poste con Luigi Facta <7.
Lungo tutto il ’21 le due posizioni sono tra loro lontane, ma i tentativi di approccio da parte della pattuglia romana si fanno più insistenti e, al congresso di settembre, vi sono i primi segnali di cambiamento: Marinoni si pronuncia per la continuazione del dialogo, Giovanni Zironda – segretario regionale della Democrazia sociale – si mostra apertamente favorevole all’accordo. L’interlocutore, d’altra parte, si sposta sempre più sulle posizioni dei veneti, fino al suo completo allineamento con esse nel novembre; questi ultimi, così rassicurati, confluiranno al congresso nazionale a Roma di fine aprile ’22 – insieme a varie associazioni di altre regioni – nel partito della Democrazia sociale italiana, dotato di un gruppo parlamentare autonomo.
Trentin diffida dell’unione con Colonna di Cesarò, per i motivi sopra esposti non la vorrebbe; teme, poi, la propensione ai compromessi diffusa nell’assemblea nazionale e capisce che le sezioni demosociali locali non potranno far valere alla Camera la loro linea sulla volontà dei deputati, i quali devono solo in minima parte alle prime il fatto di essere stati eletti, soprattutto nel Sud.
Nonostante l’alleanza stretta, dal ’22 a Venezia prevale comunque l’indirizzo antimoderato del professore di diritto, che contempla – se occorre – pure l’aperto contrasto verso le scelte del referente nazionale. Inoltre si rafforza l’opposizione del movimento al fascismo e la polemica è diretta anche verso i governi, i quali non si oppongono con fermezza alla violenza montante. La soluzione al problema individuata dalla democrazia veneziana non appare però adeguata, in quanto, condividendo un’opinione assai comune in quei frangenti, non propone né leggi eccezionali, né lo stato d’assedio, né esecutivi essenzialmente antifascisti.
Essa pensa solo ad un governo di sinistra ben operante e imparziale, che garantisca la legalità e pacifichi il paese; con questo obiettivo è ora pronta alla collaborazione governativa con i socialisti, come Turati e Treves, disponibili a congiungere la salvaguardia delle libertà borghesi alla lotta per il socialismo.
Date tali premesse, l’esperimento di dar corpo ad un polo democratico progressista di dimensioni non trascurabili, attraverso l’accordo con le altre associazioni locali e la rappresentanza istituzionale, è destinato a fallire. Già a luglio del ’22 il progetto è compromesso perché quest’ultima, andando contro la linea stabilita nel congresso d’aprile, al momento della crisi del primo ministero Facta, fa decadere l’ipotesi Bonomi seguendo i giolittiani. Anche se il dissidio non si ricomporrà più, è troppo recente la nascita del partito per decidere di uscirne subito; il contrasto con Roma si allarga – ovviamente – di fronte alla scelta di Colonna, con altri tre membri della Democrazia sociale, di entrare nel governo Mussolini <8.
La piattaforma politica nazionale è così completamente disattesa; eppure, ancora una volta non si giunge alla rottura definitiva, poiché Trentin e compagni, pur negando ogni forma di loro collaborazione col fascismo, non vogliono allo stesso tempo boicottare pregiudizialmente il nuovo esecutivo, rimanendo ancora legati alla speranza della normalizzazione. Comunque la polemica resta viva: a dicembre la Democrazia sociale veneziana e, a stretto giro, tutte quelle della regione chiedono la convocazione di un congresso nazionale. Nel gruppo veneziano Zironda è ormai del tutto isolato: fautore di un rapporto «acritico e irreversibile» con di Cesarò, ha sempre enfatizzato gli aspetti in comune tra le due posizioni politiche e minimizzato le divergenze; ora approva la condotta dei vertici demosociali, vedendovi lo sforzo di cercare di separare il fascismo da nazionalisti e conservatori. In più, a gennaio 1923 da parte della sezione egemonizzata da Trentin, la critica smette di essere unicamente di principio e si estende al comportamento concreto della pattuglia ministeriale, la quale, entrata nel governo per condizionarlo e per trattare su un piano di uguaglianza, più volte ha ceduto e ha mantenuto un atteggiamento subalterno. Di fronte alle rassicurazioni degli organi centrali del partito, la protesta per il momento rientra; sino a quando di fronte all’assenza di una svolta, a maggio viene proposta la scissione da Roma, rimettendo la decisione finale a un’assise regionale convocata per settembre.
La dirigenza demosociale, andato a vuoto ogni tentativo di ricomposizione dello strappo, espelle – poco prima che si tenga il convegno – i dissidenti lagunari, con l’effetto, però, di far schierare definitivamente dalla loro parte gli altri gruppi veneti; così la Democrazia sociale della regione diventa ufficialmente indipendente il 14 ottobre del ’23. La vicenda trova vasto spazio nelle pagine dei periodici democratici e Bonomi si mostra pubblicamente solidale con gli oppositori della linea filo-ministeriale; vengono inoltre presi contatti con le sezioni dissidenti lombarde e contemporaneamente si ribellano altri nuclei in Piemonte, Liguria, Campania e nel Meridione, dando vita a nuovi movimenti radical-riformisti.
Da parte sua, l’ex deputato di San Donà di Piave è tornato (diventa ora docente a Ca’ Foscari) ad essere sempre più presente in città, in tutti gli appuntamenti fondamentali tenutisi tra settembre e ottobre del ’23; egli agisce per recidere «ogni più sottile filo d’intesa con Colonna di Cesarò». Non a caso, la presenza del professore è segnalata in un telegramma del prefetto di Venezia al presidente del Consiglio, proprio a proposito del convegno della definitiva scissione; tale comunicazione del 16 ottobre nasce da una precisa richiesta di informazioni di Mussolini sui dissidenti demosociali, sui quali raccomandava di esercitare un vigilie controllo.
Ciò è segno di come dal ’23 l’attività del futuro esule e dei suoi compagni di militanza acquisti una ben definito profilo e, in quanto tale, trovi spazio via via crescente nelle carte del Ministero dell’Interno <9.
Trentin e Colonna di Cesarò nell’antifascismo
Da questo momento in poi i biografi di Trentin tacciono sui difficili rapporti intercorsi tra lui e Colonna di Cesarò, testimoniati anche da un’informativa inviata nel marzo del ’23 a Roma, da Iginio Magrini sul partito a Venezia, definito – a detta dello scrivente – dal nobile siciliano «la sua croce» <10. Il ministro delle poste, comunque, sarebbe di lì a poco (inizio febbraio ’24) passato all’opposizione, rassegnando le dimissioni, a quella data motivate non da divergenze di carattere politico-ideologico, bensì dal mancato accordo col fascismo su una lista di coalizione tra quest’ultimo e la Democrazia sociale, da presentare alle elezioni anticipate all’aprile del ’24. Mussolini non acconsentiva a patti stretti tra il Pnf e altre formazioni, ma solo alla candidatura personale di singoli soggetti non fascisti: l’esatto opposto delle pretese del suo alleato, il quale non voleva farsi semplicemente assorbire nel listone e perdere così i propri consensi; da qui la decisione di scendere in lizza da solo, che per la sua strumentalità suscitava parecchie diffidenze nel fronte antifascista <11. Nonostante tutto, tale sortita lo fa partecipare in qualche modo, in quei mesi, alla vivace ripresa dell’attività politica in campo democratico, per cui si va intessendo una rete di contatti sia al suo interno, sia tra questo e forze di altra matrice: è per di Cesarò – insieme a tanti costituzionali, liberali, democratici – l’inizio della lotta antifascista, stimolato dalle discussioni sul progetto di nuova legge elettorale. Sin dalla primavera del ’23, il parere contrario o favorevole sulla questione segna una prima divisione in antifascisti e fiancheggiatori, pur non determinando ancora uno schieramento definito e compatto: «nella fase che precede, accompagna e segue il voto» sul testo Acerbo si ha «la incubazione della secessione aventiniana» <12. Già nel giugno ’23 Amendola, riflettendo sugli scenari successivi all’approvazione della legge, scriveva che per Giolitti i liberali avrebbero dovuto presentarsi separatamente e, di seguito, si dimostrava interessato alle possibili mosse del leader della Democrazia sociale: anch’egli «pare che abbia voglia di fare lista a parte» <13; nell’agosto vi è pure uno scambio epistolare tra il deputato di Sarno e quello siciliano <14.
Dopo le dimissioni dal governo, invece, Enrico Presutti registrava come il passo di Colonna cambiasse un po’ la situazione: «i demosociali non verranno con noi e faranno lista autonoma»15. Ovviamente, a quella data, il gruppo amendoliano seguiva con maggior attenzione i fermenti che agitavano in senso apertamente antifascista ormai da mesi la base di quel partito e, soprattutto, le sezioni settentrionali, le più attive, la cui opposizione si colorava di una tinta spiccatamente sociale. Una volta staccatesi dalla dirigenza romana, queste componenti disperse avevano da subito manifestato il desiderio di riorganizzarsi in vista della costituzione di una nuova, vera e propria formazione politica. I primi ispiratori dell’iniziativa erano stati i Veneti, i quali a tale scopo si incontrarono a Milano con gli altri dissidenti, nei giorni dell’uscita dal governo del loro ex-leader nazionale: il 10 febbraio. Comune era l’aspirazione unitaria di Amendola e sodali, che contavano così di sfruttare l’avvenuta secessione per dar spessore, pure al Nord, al loro progetto di costruenda grande forza democratica; non a caso, tre di essi erano presenti al convegno milanese e il loro giornale – «il Mondo» – assicurava una larga pubblicità al movimento in atto <16.
Inoltre Trentin, da parte sua, si era sin dall’inizio pubblicamente schierato all’interno del dibattito sulla riforma elettorale, dando la sua adesione alla petizione promossa da Turati in difesa del sistema proporzionale allora in vigore:
Caro Turati, aderisco fervidamente all’azione in difesa della proporzionale che, in unione ad uomini democratici di ogni parte, stai per svolgere, mosso dalla tua fede che non soffre scoraggiamenti.
Il tuo devotissimo Trentin” <17
In generale, tra la fine del ’23 e l’inizio del ’24 si diffonde una «presa di coscienza unitaria» tra posizioni, esponenti della politica e del mondo culturale differenti (oltre ai nomi già citati: Bonomi, i turatiani socialisti unitari, Gobetti, popolari come Sturzo e altri). In un simile quadro si cerca anche di concretizzare alcune di queste idee, sotto la spinta esercitata dall’imminente scadenza elettorale, per tentare di ostacolare in qualche modo la prevedibile affermazione del listone.
Poche sono le realizzazioni e, nonostante le varie trattative su possibili ampie e inedite intese, alla fine, i partiti preparano autonomamente le proprie liste; le alleanze stipulate sono di dimensioni ristrette, tra forze tradizionalmente vicine e a carattere locale, prive di un’unica regia, di conseguenza variabili da contesto a contesto. Ciò accade nell’area democratico-costituzionale, dove la presentazione in molte circoscrizioni del simbolo della stella a cinque punte, non è frutto di una preliminare definizione di una piattaforma politica a livello nazionale da parte di vertici politici incaricati; bensì soltanto di una condivisa e generica affermazione antifascista. Vi sono di certo due personalità preminenti (Amendola e Bonomi, tra loro diffidenti) a cui si ricollegano molte di queste liste, ma non tutte.
Il mancato varo di un unico cartello elettorale tra socialisti unitari, social-riformisti, repubblicani e liberal-democratici, è dovuto – oltre che a divergenze personali – alla circostanza per cui in quel momento ancora troppe posizioni erano incerte e necessitavano di un chiarimento, in merito alla valutazione del fascismo e al conseguente atteggiamento da mantenere nei suoi confronti.
Per esempio, nella sola parte democratica, fra i soggetti pur antifascisti e orientati verso l’ipotesi di un nuovo partito, vi erano delle forti remore ad intraprendere la strada dell’attiva e palese opposizione, perché si sentiva il bisogno di una più approfondita riflessione sui programmi e, inoltre, poiché di fronte alle evidenti divisioni interne al comune nemico ci si aspettava la sua lenta dissoluzione. Dunque, gli amendoliani si erano alleati solo con alcuni spezzoni liberali e con i fuorusciti della Democrazia sociale di Colonna di Cesarò. I risultati della consultazione nazionale del 6 aprile segnano, per le liste dell’opposizione costituzionale, un importante risultato nel Sud: per tutta la penisola otto eletti, nonostante il pesante clima di violenza instaurato dai fascisti; mentre si subisce una secca sconfitta nel Nord, dove non sale a Montecitorio neppure uno dei candidati <18.
Tra gli esclusi vi è pure Trentin, il quale con il suo nuovo partito della Democrazia sociale veneta aveva tentato di stringere un accordo per un fronte più ampio, non riuscendoci e – come gli altri competitori nel resto del paese – aveva affrontato la campagna elettorale più che altro per un dovere di testimonianza, tra molte intimidazioni. Così, le varie iniziative si erano dovute svolgere in luoghi chiusi, compreso l’appuntamento conclusivo tenuto il 1º aprile nella sede del gruppo in campo San Benedetto a Venezia, dove il candidato aveva pronunciato il suo ultimo discorso elettorale <19.
Colonna di Cesarò aveva invece ottenuto ben dieci deputati (in maggioranza siciliani, lui incluso) <20; forse anche per questo il professore di Ca’ Foscari fu spinto a riallacciare i rapporti con il primo, come appare dal seguente documento:
Carissimo, ieri ho cercato di comunicare con te telefonicamente per fissare un appuntamento ma non ti ho trovato in casa.
Avendo dovuto ieri sera stessa, in seguito ad un telegramma pervenutomi, ripartire per Venezia, mi fu giocoforza di rinunciare al proposito di vederti.
Ritornerò presto a Roma e spero che mi sia possibile starti un po’ assieme.
Sarebbe bene, però, che tu volessi predisporti a maggiore indulgenza!
Affettuosi saluti dal tuo Trentin” <21
La forza appena dimostrata nelle urne dal destinatario della missiva – qui si ipotizza – portava il mittente a riconsiderarlo tra i soggetti con cui si doveva far fronte comune contro il fascismo, se non si voleva continuare ad essere sconfitti: forte dell’esperienza in una piccola formazione isolata, è convinto che la lotta «senza truppa» o con gli effettivi divisi sia persa in partenza. Continua a credere, anche dopo le elezioni, alla breve durata del fascismo, sebbene sia diventato ora un potente avversario, però, più per mancanza dei suoi oppositori che grazie a se stesso. È fondamentale, quindi, «l’unità di intenti» per stringersi attorno al nocciolo di ideali comuni e per costituire una valida alternativa, mettendo in subordine le reciproche differenze di pensiero pur persistenti, per esempio, con il suo ex-leader nazionale, ma anche con lo stesso futuro capo dell’Aventino. Non a caso, le motivazioni ora avanzate per spiegare il comportamento trentiniano nei confronti del primo, sono state mutuate da quelle esposte per dar conto delle relazione sempre più stretta con il secondo.
Di certo, nella lettera, il tono assai confidenziale e informale non può mettere a tacere la difficoltà di trovare le basi per una rinnovata intesa, quando – alla fine – viene rivolto al duca l’invito a volersi predisporre «a maggiore indulgenza». Si tratta, comunque, di una testimonianza di come entrambi gli individui, di fronte al mutato contesto, siano disponibili a reincontrarsi politicamente, lasciando da parte gli attriti del passato; vi è quindi una conferma del quadro di febbrile attività che coinvolge tutto lo schieramento democratico nei giorni attorno alle elezioni, per trovare la sperata compattezza contro il fascismo. Inoltre, probabilmente, a questa ripresa di contatti tra i due non è estraneo un terzo personaggio: Amendola. Egli con i suoi collaboratori, sull’onda del successo elettorale nel Meridione, con tempestività si era lì dedicato a trasformare i comitati sorti in occasione della consultazione, nei primi nuclei di un partito politico che nel brevissimo periodo vedrà ufficialmente la luce: l’Unione meridionale, il 20 maggio. L’iniziativa riscuoterà da subito vasti consensi e avrà una certa eco sulla stampa; contemporaneamente il politico campano aveva seguito e, ad un tempo incoraggiato, simili processi aggregativi tra i democratici in via di compimento anche in altre località, di modo che al momento opportuno fossero già predisposte le basi regionali per dar vita all’agognato movimento unitario e nazionale. Ciò avveniva a Roma, in Sardegna, a Milano, Torino e pure a Venezia <22, sotto la guida di Trentin, il quale tra aprile e maggio si muove spesso e scambia informazioni e pareri con Amendola.
[…] Dopo tre giorni, in partenza da Roma, comunicava il suo dispiacere per non essersi potuti incontrare; gli ribadiva la sua «fede nel successo del movimento» da lui promosso, a patto di riuscir a organizzare e inquadrare da subito «le molte forze disperse e sfiduciate».
“I miei amici ed io, per quel poco che contiamo, faremo ogni sforzo perché il programma non fallisca”.
Dell’argomento aveva parlato a lungo con Bonomi, il quale gli sembrava «pronto ad ogni intesa»; in più al leader social-riformista aveva prospettato “la necessità di una chiarificazione di rapporti e di un coordinamento di propositi con Palazzo Giustiniani, dal momento che i nostri gruppi locali sentono sempre viva l’influenza delle direttive che da esso vengono dettate” <24.
Le ultime parole mostrano, anche per il Veneto, quanto gli ambienti nei quali l’Unione nazionale trovava seguaci, fossero contigui a quelli delle logge legate a Palazzo Giustiniani; la circostanza non deve stupire nemmeno nel caso specifico, poiché le élites borghesi progressiste, radicali e liberal-democratiche italiane sono sempre state tradizionalmente legate alla massoneria. Per esempio, oltre a molti noti amendoliani, lo stesso Colonna di Cesarò era «il più alto dignitario in Sicilia delle logge ferane» <25.
Se sotto elezioni la relazione politica con Amendola è ancora indeterminata, nel periodo immediatamente successivo tutti i documenti citati testimoniano l’avvenuto cambiamento: il loro autore è assolutamente convinto del progetto amendoliano e si dichiara disposto a collaborare per la sua riuscita. L’unico punto di dissenso è dovuto al manifestarsi della già nota intransigenza trentiniana, la quale ha in odio ogni compromesso trasformistico. Pare di conseguenza altamente probabile che, come per il colloquio con Bonomi, anche l’approccio di venti giorni dopo con di Cesarò fosse finalizzato da parte del politico veneto a far progredire la suddetta riorganizzazione del campo democratico. Inoltre, data la frequenza delle comunicazioni fra Trentin e il leader dell’Unione meridionale, non è difficile ipotizzare che quest’ultimo sia stato messo al corrente dal primo di quanto egli scriveva o diceva all’ex-ministro di Mussolini.
Il rapido succedersi degli eventi della primavera-estate ’24, con il conseguente bisogno avvertito di essere assai più determinati nella lotta a venire, spinge Amendola e compagni a velocizzare il processo di costruzione del nuovo partito, il quale nasce – quindi – nel corso di quell’anno anche per lo svolgersi dei fatti successivi al delitto Matteotti.
[NOTE]
1. Intervento tenuto a Torino alla IV edizione del seminario “Giellismo e azionismo. Cantieri aperti”, organizzato dall’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea Giorgio Agosti (5-7 maggio 2008).
2. Era stato creato nell’ottobre del 1925; Gigliola Fioravanti, Silvio Trentin nelle carte dell’Archivio centrale dello stato, in Silvio Trentin e la Francia. Saggi e testimonianze, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 64, 66 e 68. Il fasc. si trova in Archivio centrale dello Stato (d’ora in poi Acs), Casellario politico centrale (d’ora in poi Cpc), b. 5206.
3. Simona Colarizi, I democratici all’opposizione. Giovanni Amendola e l’Unione nazionale (1922-1926), Bologna, il Mulino, 1973, p. 9.
4. Moreno Guerrato, Silvio Trentin un democratico all’opposizione, Milano, Vangelista, 1981, p. 27; Id., Prefazione, in S. Trentin, Politica e amministrazione. Scritti e discorsi. 1919-1926, Venezia, Marsilio, 1984, pp. XV, XVIII. Le notizie successive – in assenza di altre indicazioni – sono tratte indifferentemente da questi due libri.
5. Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 212-213, 221; Paolo Soddu, Ugo La Malfa. Il riformista moderno, Roma, Carocci, 2008, pp. 58-59; Ernesto Brunetta, Dalla grande guerra alla Repubblica, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino, Einaudi, 1984, pp. 937-938.
6. Alessandro Galante Garrone, I radicali in Italia (1849-1925), Milano, Garzanti, 1973, p. 399.
7. L. Agnello, Colonna di Cesarò, Giovanni Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 27, Roma, 1982, pp. 459-462; G. Sabbatucci, I combattenti, cit., p. 265. In più cfr. Giuseppe Barone, Egemonie urbane e potere locale (1882-1913) e Salvatore Lupo, L’utopia totalitaria del fascismo; in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia, a cura di Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo, Torino, Einaudi, 1987, ad nomen. Sul Partito radicale e sul Fascio parlamentare cfr. in Archivio di Stato di Palermo (d’ora in poi si ometterà tale indicazione), Archivio Colonna di Cesarò (d’ora in poi ACC), bb. 159, 160, 162, 164.
8. L. Agnello, Colonna, cit, p. 461; questi è ministro delle poste, Gabriello Carnazza capo del dicastero dei lavori pubblici, Bonardi e Lissia sottosegretari.
9. Doc. cit. in G. Fioravanti, Silvio Trentin, cit., p. 70.
10. Doc. cit. in S. Colarizi, I democratici, cit., pp. 83-84.
11. Ivi, p. 83; Francesco Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. 2, Dalla caduta della Destra al fascismo, Palermo, Sellerio, 1985, pp. 369-370; ACC, b. 158, fasc. contenente il breve carteggio con Mussolini tra il ’23 e ’24.
12. S. Colarizi, I democratici, cit., pp. 25, 27; Gaetano Arfè, L’Aventino, in Atti del convegno. Giovanni Amendola una vita per la democrazia. Napoli, 14-16 ottobre 1996. Salerno, 15 ottobre 1996, a cura di Maria Rosaria De Divitiis, Napoli, Arte tipografica, 1999, p. 72.
13. G. Amendola a F.S. Nitti, 19 giugno 1923, in G. Amendola, Carteggio 1923-1924, Manduria-Roma, Lacaita, 2006, p. 59. Il mittente e di Cesarò si conoscevano almeno dal 1908 (G. Amendola a Giovanni Papini, 7 febbraio 1908, in Eva Amendola Kühn, Vita con Giovanni Amendola, Firenze, Parenti, 1960, pp. 152-153), in seguito avevano avuto modo più volte di frequentarsi nella loro veste di uomini politici, cfr. G. Amendola a Luigi Albertini, 9 gennaio 1921, in G. Amendola, Carteggio 1919-1922, Manduria-Roma, Lacaita, 2003, pp. 331-332; ACC, b. 158, fasc. corrispondenza politica (d’ora in poi cor. pol.) ’19 e ’20, lettere scambiate tra i due.
14. Ivi, fasc. cor. pol. ’23.
15. E. Presutti a G. Amendola, [marzo 1924], in G. Amendola, Carteggio 1923-1924, cit., p. 271.
16. S. Colarizi, I democratici, cit., pp. 83, 85; M. Guerrato, Silvio Trentin, cit., pp. 184-185.
17. Amsterdam, Internationaal Institut voor sociale geschiedenis, Archivio Turati, b. 2 (19-30), fasc. 3, S. Trentin a F. Turati, Venezia, 29 aprile 1923, riferimento in Archivio Turati, inventario a cura di Antonio Dentoni-Litta, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, 1992, p. 54. Il documento inedito prova come tra i due si fosse già instaurata una qualche forma di intesa politica, o meglio, una comunanza di vedute, ovviamente resa possibile dal progressivo spostamento a sinistra di Trentin.
18. S. Colarizi, I democratici, cit., pp. 25-31, 33, 35-36, 41; Giampiero Carocci, Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano 1911-1925, Milano, Feltrinelli, 1956, pp. 169-170. 19. M. Guerrato, Silvio Trentin, cit., pp. 192-195; S. Trentin, Politica e amministrazione, cit. pp. 331-334.
20. L. Agnello, Colonna, cit., p. 461.
21. ACC, b. 158, fasc. cor. pol. ’24, S. Trentin a G. Colonna di Cesarò, Venezia, 24 maggio 1924.
22. M. Guerrato, Silvio Trentin, cit., pp. 186-187, 195; S. Colarizi, I democratici, cit., pp. 56-66.
23. S. Trentin a G. Amendola, 12 aprile 1924; in G. Amendola, Carteggio 1923-1924, cit., p. 291. Il primo rapporto epistolare tra i due, qui conosciuto, è del 27 dicembre 1923, quando Trentin esprime il suo sdegno per l’aggressione fascista subita in quei giorni dal deputato di Sarno; il suo tono fa pensare vi fosse già una certa consuetudine (ivi, p. 164).
24. S. Trentin a G. Amendola, 2 e 5 maggio 1924, ivi, pp. 312-315. Bonomi è invece a Venezia e va a colazione da Trentin almeno una volta nel ’25 (Vittorio Ronchi, Silvio Trentin. Ricordi e pensieri. 1911-1926, Treviso, Canova, 1975, p. 48).
25. S. Colarizi, I democratici, cit., pp. 103-107; G. Carocci, Giovanni Amendola, cit., p. 166; L. Agnello, Colonna, cit, p. 461.
Carlo Verri, Silvio Trentin e Giovanni Colonna di Cesarò. Note sull’antifascismo democratico degli anni Venti, Venetica, 20/2009