Il rastrellamento nazifascista nella Valtrompia del 20 e 21 aprile 1945

Siamo alla vigilia della fase insurrezionale, che deve costituire la prova di maturazione della resistenza
armata in montagna e di credibilità per i gruppi antifascisti organizzati a livello urbano, ma i fascisti non lo sanno e si apprestano a sferrare un micidiale attacco ai ribelli del Sonclino partendo da varie direzioni: da Sarezzo, Gardone, Marcheno, perfino da Casto e soprattutto da Lumezzane, dove in località Fontana è stata posta la base logistica del movimento truppe, che costituiscono una specie di esercito privato del feudo lumezzanese. I partigiani garibaldini si dovranno pentire della scelta fatta. Lo schema rastrellativo è lo stesso adottato in altri casi ma è di maggiori proporzioni. Non può che essere stato, come per la strage di Bovegno, il famigerato criminale nazifascista Ferruccio Sorlini – unitamente alla Felgendarmeria tedesca di Brescia – a decidere di mobilitare e coordinare le ultime forze nazifasciste, avvalendosi delle informazioni raccolte tra noti figuranti d’illimitata fede fascista di Lumezzane, che fino all’ultimo hanno diretto la sorte del partito armato locale: il segretario politico Giorgio Mariutto, Gaetano Ghidini (segretario comunale), l‟industriale Basilio Gnutti (ex segretario politico), Giovanni Fantini e Alvise Gnutti quali componenti del direttorio della sezione, Pietro Caminada e G. Battista Pasotti nella funzione di sindaci della stessa. Lumezzane costituisce infatti la base principale dell’attacco antipartigiano.
Ma qualche informazione determinante è pervenuta anche da qualche spia fascista infiltrata tra i ribelli.
Ne fa fede la testimonianza di Lino Belleri, raccontata in Bruno, ragazzo partigiano, p. 80: “Poco prima del 19 aprile veniamo informati che in brigata c’è una spia, un tipo che era giunto da poco”. Si tratta di uno soprannominato “Francese” e abitante a Nuvolento, spiega Faro. Tito (Luigi Guitti)  ordina al suo vice di eliminarlo.
Verso le 9 di sera Bruno Gheda accompagna il sospetto verso la malghetta «Stallieri» e qui gli spara in
bocca. La spia stramazza al suolo ma Gheda non si premura d‟accertarsi d‟averla uccisa, dopodiché entra in malga a mangiare qualcosa. Più tardi esce con alcuni militari fuggiti da Botticino con l’intenzione di farsi aiutare a seppellire il “morto”, che invece si era dileguato attraverso la boscaglia fin giù nella valle del Lembrio, raggiungendo la caserma di Brozzo, poiché la pallottola gli era uscita di lato. L’episodio della spia è così sintetizzato da Faro, che introduce un elemento ulteriore e diverso, utile per comprendere anche la dinamica dell‟agguato del 18 settembre organizzato contro i russi: “La spia è rimasta 5 o 6 giorni in brigata.
Ha visto tutto, dove era il comando e le altre sedi. «Questa sera sentirai un colpo – mi hanno detto – Lo mandiamo in Svizzera anche questo qui». Quando dovevano spedirli in vacanza, li mandavano in Svizzera, ma sulla barella. Ho sentito un colpo solo. Poi una raffica. Quello là è scappato. Poi l’hanno ricoverato all‟ospedale militare di Nave, perché il colpo gli è andato fuori. Erano le 9 di sera, era buio. Morirà in tarda età, nel suo letto”.
In riferimento al complesso dei successivi avvenimenti della battaglia del Sonclino, rimandiamo alle
testimonianze di Lino Belleri riportate sul libro La resistenza a Gardone e in Valle Trompia, pp 18-22 e in Memorie resistenti, pp. 59-64; Bruno, ragazzo partigiano, pp. 79-85, nonché all’allegato al notiziario Red Line News n. 6 del maggio 2013 La battaglia del Sonclino, contenente documentazione fotografica di complemento. Nel presente studio ci limitiamo a riportare dettagli informativi aggiuntivi, raccolti anche dalla viva voce di Faro, che restituiscono attimi d’un affresco irripetibile, introducendo qualche riflessione personale, anche d‟ordine simbolico.
Quella particolarissima decisione
Racconta Faro: “Io non sarei rimasto lì. Ancor prima della battaglia avevo detto a Tito: «Guarda che non dobbiamo restare qui! Dobbiamo rimanere nei boschi». Tito mi ha risposto: «Sono stufo di scappare» e questo e quest‟altro, ma “soldato che fugge è buono per un‟altra volta”, si diceva allora”.
La sostanza di tale risposta è confermata dai ricordi di Lino Pedroni riportati sul libro Bruno, ragazzo
partigiano, p. 84: “Quindi Tito, quando al mattino presto, verso le cinque e mezzo, abbiamo visto le prime avanguardie dei fascisti e dei tedeschi, aveva già deciso dalla sera prima che li avremmo affrontati in una battaglia di posizione: «Compagni, questa volta non si fa più il “tocchi e fuggi”, proprio della guerriglia. E’ ora di finirla di scappare, devono scappare loro, stavolta. E’ giunto il momento di non fuggire e di affrontare i fascisti a viso aperto!»”. Questo atteggiamento di Tito può spiegare solo alcune delle cose recepite consciamente dai suoi uomini, non tutte, sulle quali ora noi possiamo ragionare più a fondo.
Dunque, già la sera prima le sentinelle garibaldine avevano notato in direzione est, a oltre un chilometro di distanza dalla vetta del Sonclino, lo straripante accampamento di tende dei militi della brigata nera autonoma “Marche” e del battaglione “San Marco” della X Mas elevate nella distesa prativa del «Casello», di proprietà dell‟ex podestà Simone Gnali, scrutando il fermento delle quali avevano avuto l‟impressione della più cupa normalità: brutto segno, la prova che le cose non stavano radicalmente cambiando.
Eppure il comando garibaldino aveva deciso che in caso d’attacco avrebbero resistito. Non si sarebbe trattato infatti di un rastrellamento a sé stante, come tanti altri, ma della battaglia finale per la libertà. Questa volta ci voleva una decisione garibaldina coraggiosa, coerente con la logica d‟assalto della brigata, che non poteva subire impunemente l’ennesimo attacco fascista senza rispondere in maniera adeguata. Per la prima volta si sentono liberi: liberi di decidere, di combattere, pronti a vivere o a morire.
Allora prevalse la volontà reattiva sulla ragione (non aveva più senso indietreggiare), favorendo la comune decisione di compiere un sacrificio d’amore per il nostro futuro, non per il loro presente. Ci volle infatti coraggio per sfidare l‟esercito fascista, numericamente superiore e bene armato, quasi una “mission impossible”, ma si trattò evidentemente d’un atto di eroismo più che di una sfida contro i nemici di sempre.
L’obiettivo stavolta non era vincere ma dimostrare di saper resistere, ritrovando l’unità nel combattimento e l’enorme carica vitale a suo tempo infusa dall’eroismo di Verginella, il cui cadavere esangue venne fatto ritrovare tre mesi prima proprio a Lumezzane. Una scelta discutibile – a posteriori – quella di accettare il combattimento, come se non avessero considerato l‟effetto trappola del rastrellamento, quasi una mossa imprudente dinanzi alla forza sproporzionata del blocco nero fascista. Ma non è stato così.
Tito, ragionevolmente ottimista sul successo in base ad alcuni parametri attuali (posizione, armamento, non mettendo nel conto il successivo concorrere di altre forze nemiche e gli imprevisti, come lo guarnimento della base alla «Piralonga» e l’incendio della montagna) decide di rimanere a combattere per dovere morale – contro ogni regola di tattica partigiana – come avevano fatto i 17 garibaldini a Cevo il 3 luglio del ’44, venuti per le onoranze funebri al compagno Luigi Monella caduto a Isola, ma fermatisi a contrastare l’attacco portato da una formazione di paracadutisti dell’aereonautica repubblicana e dei militi della Gnr di Brescia.
Quell’imprevedibile falla nella difesa
C’è però una falla nel fronte inferiore della difesa garibaldina, non tenuta inizialmente nel debito conto, considerato che l’attacco fascista partiva dall’alto. Così scrive Angelo (Lino) Belleri nella sua
testimonianza riportata sul libro La Resistenza a Gardone e in Valle Trompia, p. 19: “Verso Marcheno
avevamo un gruppo che dominava tutta la valle che sale da Rovedolo, ma, quasi per ironia della sorte,
questi avevano dovuto ritirarsi qualche giorno prima perché non c’era acqua; avevano bevuto quella di una cisterna che si trovava sotto il pavimento di una cascina. C’era dentro di tutto e hanno dovuto filtrarla con uno straccio, così hanno preso tutti la dissenteria. Quindi al momento dell’attacco non avevamo uomini in quella direzione, ce n’erano solo al Buco”.
Il racconto di Lino è fin troppo delicato rispetto alla realtà dell’accaduto, resa nota da Piera Sabattoli, figlia del partigiano di Sant’Eufemia Luigi, nome di battaglia Vendetta, che a 17 anni proprio lassù, alla cascina di Piralonga, era distaccato. Riassumiamo l’inconveniente, dalle enormi conseguenze.
Una sera, prima del rastrellamento, i partigiani avevano preparato la polenta utilizzando l’acqua della
cisterna, non della fonte Vandeno sgorgante appena sotto il prato dei «Grassi». Tra i riflessi del fuoco che illuminava a tratti il buio della stanzetta, avevano mescolato quel caos liquido e indistinto che il grande appetito non temeva. Quando si mangia si mangia. A un certo punto uno disse compiaciuto, pensando a delicati pezzi di coniglio o altra creatura da cortile: “Ma ci avete messo della carne nella polenta?”. “Come carne!” replicò il cuoco. Erano topi annegati nella cisterna! Praticamente era successo che quando era stata prelevata l’acqua ghiacciata, nell’oscurità quei topi li avevano scambiati per pezzi di ghiaccio, facendoli quindi bollire e mischiati alla farina. Una sorta di bomba nello stomaco.
Per i postumi gastrointestinali di quella miseranda cena, l’intero distaccamento garibaldino dovette
abbandonare la posizione e trasferirsi in val del Lembrio, per curarsi con l’aiuto dei Paterlini. Una vera
sfortuna, perché proprio da qui risaliranno i soldati tedeschi, ponendo fine poco sopra alla giovane vita del vicecomandante Gheda, costringendo poi alla ritirata l‟intera brigata partigiana.
Frammenti di battaglia. La morte di Gheda
Scrive Angelo Moreni nella sua relazione: “Il 19 dell’aprile alle ore 6 i tedeschi iniziano un rastrellamento con più di mille uomini, la nostra Brigata accetta il combattimento”. Eppure nei giorni immediatamente precedenti tutto apparentemente era tranquillo e proprio per quella mattina Tito aveva fissato un appuntamento al passo della «Cavada» di Lodrino con Libero Giacomelli e Angiolino Tanghetti che, una volta giunti, avvertono distintamente provenire dal lato opposto, sul Sonclino, i ritmici colpi d’una mitragliatrice e di un fucile S. Etienne, comprendendo come sia in corso una battaglia, ciò che spiega l‟assenza di Tito all’appuntamento. Quello stesso mattino il 15enne Rino Torcoli, staffetta di Nino Berna e di Tito, saputo del rastrellamento, s’avvia in fretta verso il Sonclino seguendo la “via antica” che dalla Pieve conduce alla località «Grassi», ma purtroppo prima di arrivare trova il sentiero occupato dai tedeschi saliti da Sarezzo. Non gli resta che tornare indietro, augurando in cuor suo la miglior sorte possibile agli amici partigiani impegnati nel combattimento.
Tre sono gli attacchi degli assalitori.
Il primo attacco viene compiuto dall’esercito fascista e dai militi delle brigate nere di Lumezzane al primo albeggiare, tra le ore 5 e le 6, seguendo la direttrice del crinale del Sonclino, indirizzando le avanguardie verso la cascina «Campo di Gallo». Presso la vetta della montagna, dove è stata issata la bandiera rossa della brigata, gli occhi delle sentinelle garibaldine sono fissi da tempo sulla line up del del Sonclino, per controllare la direzione del movimento delle truppe nemiche. Purtroppo i sei partigiani acquartierati nella piccola cascina sono i primi ad essere catturati nel sonno e i lagunari, impregnati d’animalità, non ricorrono alla pietà. Hanno metodi crudelissimi e li applicano immediatamente. Quattro di costoro sono militari fuggiti dalla caserma di Botticino, mentre gli altri due, il 16enne Cesare Pattarini e Angelo Chiminelli, amicissimo di Lino Pedroni, sono garibaldini bresciani. Luigi Micheletti, presente alla battaglia, così ricorda la loro atroce fine in un articolo pubblicato sul «Giornale di Brescia» il 12.09.1990 titolato “Resistenza, storia da riscrivere”: “Quelli che si consegnarono furono torturati: cavati gli occhi, rotta la testa, strappati i testicoli. Lo documentano le fotografie – e ce le mostra – scattate dagli stessi militari della X Mas”. Questo è quello che di orribile è successo in alto.
In basso invece sta volgendo al termine un‟altra vicenda. “Alle 5 del mattino – scrive Lino negli appunti – eravamo di ritorno da un sopralluogo verso Ponte Zanano e ci ritrovammo nella chiesa di Sant’Emiliano quando abbiamo sentito le prime raffiche di mitraglia dal Sonclino. Allora su di corsa per raggiungere le postazioni. Prendiamo la mitraglia, la [Breda] 8/37 e la portiamo di fronte alla cascina del Sonclino e con l’aiuto di un sergente prelevato da Botticino 5 giorni prima prendiamo la mira per un capanno dopo la Corna del Sonclino dove vi erano accampati una ventina di fascisti [quelli che avevano sorpresoo i sei di «Campo di Gallo», ndr]. Spariamo una raffica di 20 colpi che colpisce in pieno il gruppo dei fascisti e per un po’ non si sono fatti più sentire”. A sparare con la mitragliatrice, oltre a Lino, rimarranno quasi tutto il giorno suo cugino Carlo, Spartaco Damonti e Antonio (Pedro) Pedretti, giunto in brigata il 10 marzo, reduce da una brutta ferita subita in un’azione partigiana in Liguria. Da quassù i fascisti non passeranno.
Il secondo attacco parte dal basso, verso le ore 9. Dalla valle Vandeno risalgono infatti le Ss dislocate a
Marcheno e i militi del capitano Bonometti di Gardone, mentre dalla valle di Sarezzo provengono una
cinquantina di militari tedeschi, solitamente impiegati nella sorveglianza delle officine d‟armi interne alle grotte di Noboli. Costoro, trovata sguarnita la postazione garibaldina alla cascina «Piralonga», occupano facilmente una piccola altura che guarda dritta verso il «Buco». Attestatisi, sparano contro gli occupanti con carabine a ripetizione Mauser, mirando alla finestrella della piccola struttura dove sono asserragliati i garibaldini. In questo momento – sono passate le 10 del mattino – qui vi sono, tra diversi altri, Tito e Bruno Gheda, Lino Belleri e Franco Antonelli.
E’ a questo punto che si verifica l’ennesimo scontro verbale tra Tito e Gheda, derivato da concitata
contingenza situazionale più che da autoritarismo decisionale. Il comandante lo aveva già criticato per la negligenza nell’uccisione della spia “che, a suo dire, aveva messo in pericolo la brigata” e adesso lo
rimprovera “perché non aveva tenuto quella posizione e gli aveva detto: – Vedom adess, te, gnaro, se te set bu de na a stanai!” (Bruno, ragazzo partigiano, p. 80).
Considerato ora, cattura il diverbio da parte di due anime, due personaggi diversi, due storie altrettanto interessanti, entrambe dal finale amaro. Non sono due solitudini, ma due capi esperti, professionali, combattenti cresciuti nella guerriglia e nella durezza del carcere; due parti frammentate dal fascismo, riunite per creare una nuova coscienza della brigata, per portare un messaggio di libertà nel mondo.
Restano le parole, riflesso di quell‟attimo particolare, ma non erano quelle giuste, considerato l‟esito.
Un’altra angolazione di quel drammatico momento viene offerta dagli appunti di Lino Belleri, che mette in luce un particolare non secondario: l‟assenza difensiva di una delle due postazioni più in basso, Piralonga – l’altra, vicina, era quella di Stallieri – dove erano stati aggregati i militari fuggiti da Botticino, allontanatisi qualche giorno prima per mancanza d‟acqua: “Avevamo spostato il gruppo di Piralonga, dove si poteva dominare tutta la valle del Vandeno, perché mancava l’acqua. In questa zona sono avanzati i tedeschi provenienti da Marcheno, occupando la collinetta di fronte al Buco. Al che sentiamo Tito al comando che sgrida Gheda perché non aveva occupato la collina dove si sono appostati i tedeschi. Gheda risentito parte con il cecoslovacco nel tentativo di riconquistare la posizione. Il ceco si è fermato indietro mentre Gheda si avvicina alla posizione. I tedeschi l’hanno sentito arrivare, uno si alza un po’ e fa partire una raffica di mitra. Gheda si ripara dietro una pietra e prende una bomba a mano tedesca che aveva in dotazione. La svita poi la lancia dietro la collina poi si alza per sparare con il mitra. L’azione è stata fulminea. Non ha aspettato lo scoppio della bomba. Un tedesco è stato più veloce di lui, gli ha sparato una raffica in faccia. Gheda colpito in pieno cade all’indietro giù nel vuoto”.
Ci spiega Franco Antonelli, partecipe all’azione con il cecoslovacco Rodolfo Bestetti: “Dopo una
discussione tra di loro, Gheda è andato avanti a stanare i tedeschi, seguito da me e un altro. Raggiunta la base dell’altura, circa 10 metri sotto la postazione dei tedeschi, ha lanciato una bomba a mano. Poi si è alzato per sparargli contro ma loro sono stati più svelti e lo hanno colpito con una raffica. Lui è caduto all’indietro”.
Erano esattamente le 10,30. La perdita di Bruno è un duro colpo, ma di qui i nazifascisti non passeranno. Passato mezzogiorno, gli assalitori con un megafono invitano i partigiani ad arrendersi in cambio d’un piatto caldo di pastasciutta. Alto allora, come in un incantesimo, si leva il canto corale “Bandiera rossa”, a scandire la loro volontà ribelle e la frontiera di libertà.
Il terzo attacco, quello finale, inizia nel primo pomeriggio. “Poi – continua Lino – i tedeschi lanciano ancora bombe a mano così si è incendiata la montagna con il vento che soffiava verso di noi, spingeva il fumo verso di noi. Cosicché abbiamo dovuto ritirarci dalla posizione”. I resistenti si trovano infatti davanti qualcosa che non può essere controllato e destreggiarsi fra vari ostacoli è assai dura, se non impossibile. Alcuni, tra cui Lino, arretrano verso la cascina del Sonclino dove è più facile controllare quelli che tentano di accerchiarli risalendo dalla vallata.
La ritirata
Le munizioni sono in esaurimento. Verso le ore 15 “Tito lancia il segnale della ritirata, perché i tedeschi avanzavano dietro il fumo, fino al Buco, andando a chiudere la ritirata ad un gruppo di garibaldini sotto il Sonclino”. Si ammaina la bandiera, che Lino Pedroni provvede a nascondere sul petto. Stravolti dalla stanchezza, i partigiani si ritirano lungo due principali vie di fuga, con estrema velocità di movimento: scendendo a precipizio dalla «Tesa» verso il Lembrio la maggior parte – alcuni ssedendo sull‟erba fino a sbrecciarsi i pantaloni – guidati da Tito attraverso il bosco già pervaso da fuoco e fiamme; verso Alone partendo dalla cascina del Sonclino quelli più in alto, tra i quali appunto Faro e i fratelli Bardella, Spartaco Damonti e Lino Belleri, che sarà l‟ultimo partigiano ad abbandonare la base partigiana sotto la vetta, portando con sé i documenti della brigata.
“Noi eravamo in alto, sotto la cima del Sonclino, dietro un roccia, colpita dai colpi di mitra o di moschetto o dalla 20 mm. Dalla pietra capivi a che distanza erano a sparare. Abbiamo resistito finoverso le tre del pomeriggio – spiega Faro – quando ci hanno detto di tagliare la corda. Io avevo il mio mitra e basta. Non c‟era niente da prendere e portare via. Nella ritirata Folgore era con me mentre Nello era con Tito [Nello, rimasto ferito, verrà curato alla casa dei Paterlini e da qui proseguirà verso San Gallo, rifugiandosi anch’egli presso i fratelli Bardella, nda]. Io sono andato a finire a San Gallo, scendendo dalla «cascina Sonclino» verso Alone. Bisognava stare molto attenti, perché quando passavi da lì, alla «Tesa Sguizzi», ti sparavano dall‟alto con la mitragliatrice 20 mm. Passavamo da lì accovacciati, uno alla volta. Più in basso, lungo la strada che saliva verso il paese, vedevamo i camion dei fascisti salire. Ci siamo nascosti decisi ad andare a San Gallo, perché con noi c‟erano i fratelli Bardella [Vittorio e Martino Ragnoli], di San Gallo. Qui siamo rimasti fino alla liberazione, con l‟ordine di sparare a qualsiasi fascista”.
Franco Zoli, che trasporta sulle spalle la mitragliatrice prelevata dalla vetta del Sonclino, inciampa poco prima di arrivare al distaccamento «Sguizzi» e cade malamente. E’ una fortuna, perché i due compagni che di poco lo precedono nella fuga, Battista Zecchini e Giuseppe Aiardi, vengono fulminati dalla mitraglia fascista un poco più avanti, sulla verticale che scende ad Alone.
Presso il cimitero di questo borgo montano saranno uccisi dai brigatisti neri arrivati fin quassù da Salò per bloccare la fuga dei ribelli tre giovani partigiani appena catturati: il 24enne cremonese Giuseppe Calaminí, il 23enne cecoslovacco Rodolfo Bestetti e il 24enne bagnolese Giovanni Gelmini.
Gli ultimi sei partigiani, militari fuggiti dalla caserma di Botticino e ancora in divisa grigioverde, saranno giustiziati l’indomani a Marcheno. Questo il resoconto descritto nel libro di Pietro Gerola Nella notte ci guidano le stelle, che spiega la dinamica del triste accadimento: “Scesi al Lembrio con Tito decidono di rientrare a Botticino e di consegnarsi al proprio comando facendo credere di essere stati prelevati a forza (…) Scendono verso la Parte e prendono la strada per Vandeno. Anche i tedeschi scendono da lì e in zona S. Alberto incontrano i 6 che vengono fatti prigionieri e li conducono all’albergo Bosio di Marcheno. Dopo l’interrogatorio sono trasferiti in una stanza del municipio, la gente trepida. Altri sette partigiani, guidati da Angelo Moreni [la sera stessa], decidono di liberarli ma avviene uno scontro a fuoco in cui perde la vita un ufficiale tedesco. I sei partigiani [l‟indomani] vengono fucilati per rappresaglia”.
Alla fine, il totale delle vittime partigiane del rastrellamento nazifascista assommerà a 18 morti. Resterà sconosciuta l‟entità delle perdite della parte nemica. Tuttavia questa vittoria nazifascista sarà la loro sconfitta, perché presto perderanno se stessi. I superstiti, raccoltisi attorno a Tito in località «Pineta» di Lodrino, si trasferiranno in località «Vezzale» di Irma, là dove la brigata era nata.
“Dopo il rastrellamento del Sonclino – racconta Lino – la brigata si ritira verso Irma. Qui ci ospitano le
famiglie del Gnela e la famiglia dello Zeni, le cui donne ci facevano da staffetta”.
Così riassume il quadro della dolorosa vicenda Bruna Franceschini utilizzando le interviste effettuate la prima al lumezzanese Attilio Sala e la seconda al garibaldino Lino Pedroni, che aggiunge particolari inediti in merito al ritrovamento di alcuni cadaveri dei compagni:
“Il 22 aprile, tre giorni dopo la battaglia del Sonclino, Attilio è a casa (“baregae a mo coi prec”) e lo lasciano entrare nello sgabuzzino dove hanno portato i caduti di Campo Gallo, catturati e subito dopo finiti con un colpo alla testa. Capelli lunghi, sembrano i banditi uccisi dai piemontesi. Sono state le donne di Fontana, salite a far legna, a correre giù: “Ci sono i morti, abbandonati a terra!” Il parroco, don Tirelli, ha raccolto un po’ di uomini, che sono andati su con le scale da usare come barelle.
Hanno portato i sei cadaveri al cimitero di Pieve. Altri due li hanno trovati i cacciatori di Gazzolo, nel rocol de Sgues (roccolo Sguizzi). Per la loro identificazione arriva il dottor Palmieri e li fa misurare tutti. Ma è il Moreni della 122^ quello che si dà più da fare. (…) Erano sul Sonclino quando Radio Londra annunciò la liberazione di Bologna e Firenze, c’era grande eccitazione, odore di vittoria. Invece arrivò l’ultimo colpo di coda dei fascisti, super armati e numerosi. I partigiani, appiattiti contro gli spuntoni di roccia e in piccoli avallamenti, resistevano dalle sei del mattino quando l’incendio, appiccato per stanarli, li attanagliò. Decisero di ritirarsi, prima che i fascisti chiudessero il cerchio. Uno solo era caduto in combattimento: il vice comandante Bruno. Il migliore di tutti. All’altezza della fiducia che ispirava. Lino lo aveva visto morire davanti a sé, crivellato da una mitraglia. Un dolore atroce. Era anche un amico, oltre che un maestro. Inseguiti dai tonfi di mortaio, Lino, con la bandiera della 122ª brigata d’assalto Garibaldi ripiegata sotto la camicia e altri sette superstiti, si portarono al passo della Cavata. Poi in Vaghezza, per cercare di riorganizzarsi. I nazifascisti ne catturarono sedici. Otto furono fucilati sul posto: i loro corpi, abbandonati a terra, furono trovati dalle donne di Fontana, salite a prendere la legna. Gli altri brutalmente torturati prima di essere uccisi. Anche Cesare, un quattordicenne: lo trovarono sbudellato e senza occhi. Lino [Pedroni] pianse a dirotto, perché lo avevano affidato a lui. Un lavoro sporco, da brigate nere di Idro, quelle che non facevano mai prigionieri.
Questo il resoconto del rastrellamento documentato nell‟agenda noir della questura in data 20 e 21 aprile 1945.
Lumezzane. Azione di rastrellamento contro ribelli:
Reparti della Divisione “S. Marco” col concorso di elementi della G.N.R. e delle SS tedesche hanno iniziato nelle prime ore di ieri mattina una azione di rastrellamento nella Valtrompia in zona montana a Nord Est di Lumezzane contro gruppi imprecisati di ribelli. Fino alle ore 23,30 di ieri sera si avevano le seguenti notizie: ribelli uccisi n. 18; ribelli catturati n. 14. Da parte delle forze operanti, un caduto della “S. Marco” e quattro feriti di cui uno grave, di reparto imprecisato. Si attendono ulteriori notizie.
Lumezzane. Azione di rastrellamento contro ribelli: L’azione di rastrellamento iniziata il mattino del 19 corrente in zona montana di Lumezzane e di cui si è data notizia nel mattinale di ieri ha avuto termine. Sono stati complessivamente uccisi 26 ribelli e quattordici sono stati
catturati. Da parte delle forze operanti si lamentano un morto e cinque feriti.”
Isaia Mensi, Memoria di Tito, Luigi Guitti, ANPI Sezione di Botticino