Il rastrellamento nazista in val Chisone a maggio 1944

Parti delle bande “Sergio” e “Nicoletta”, rifugiatesi a monte di Forno di Coazze, sono accampate, come visto, nell’alpeggio del Sellery inferiore e nella villa Sertorio. In particolare la banda “Sergio”, che, in occasione della grande cerimonia di benedizione della bandiera svoltasi il giorno di Pasqua al colletto del Forno, era giunta a toccare le trecentotrentasette unità (Testimonianza di Amilcare Aluffi che nell’occasione aveva incarico di preparare il pranzo, raccolta dall’autore a Collegno nel dicembre 2003), si riparte in una serie di distaccamenti sistemati in diverse località.
Tra questi, proprio la sera del 9 maggio 1944, il plotone dei Monferrini, composto dai cugini Battista e Giuseppe Reggio, Amilcare Aluffi, Remo e Natalino “Cavour” Cavallotto, Filippo Gagliardi e Guglielmo “Piuvà” Bertorello, sale al Palè per dare il cambio al plotone degli Orbassanesi nel tenere sotto controllo l’area dei lanci. Nelle vicinanze si situa anche il plotone dei Rivaltesi comandato da Orazio “Verde” Gastaldi e composto, tra gli altri, da Bruno Pautasso, Ugo Baudino, Mario Galetto, Giovanni e Ugo Marocco, Giorgio e Pietro Marconetto, Andrea Moine, Terenzio Nepote, Angelo Ronco, e l’astigiano Pietro “Macella” Mosso.
L’attacco è atteso dal fondovalle e ogni collegamento è concepito sulla base di tale supposizione. In chiave difensiva le bande hanno predisposto il minamento del ponte sul Sangonetto e una rete di sentinelle a fondovalle (il monferrino Alberto Zoppi della banda Sergio è di vedetta a Pontepietra, il rolettese Aldo Galetto è di guardia al cimitero di Coazze, il piossaschese Mario “Tarzan” Davide è incaricato di far saltare il ponte). Il comandante Sergio De Vitis si dispone probabilmente a ridosso del Forno per dirigere meglio le operazioni di difesa. Ritenendo che le montagne ancora innevate offrano sufficienti margini di protezione, non prendono particolari precauzioni alle spalle. Al colle della Roussa, spartiacque con la val Chisone, risulterebbe peraltro dislocato un drappello di 12 uomini con cui la sera prima vengono eseguite prove di segnalazioni con i razzi. Non è però chiaro a quale banda appartengano ma è probabile che essi facciano parte della banda “Sergio” e che in parte corrispondano ai caduti dell’eccidio di Pinasca (Testimonianza di Damiano Chiesa, presente il 9-10 maggio alla villa Sertorio, raccolta dall’autore in un colloquio telefonico in data 26 marzo 2004).
Proprio dove si trovano loro, s’annida l’insidia: nel corso della notte dalla val Chisone è infatti salito al colle della Roussa un ingente numero di soldati appartenenti al 617° battaglione dell’Est, formato da russi di varie nazionalità specializzati nella guerra in alta quota, che dall’alto, nel silenzio delle quattro del mattino, avrebbe sorpreso il distaccamento partigiano che non riesce a dare l’allarme, e piomba a valle seguendo il corso del Sangone. Muovendosi nel più rigoroso silenzio, superato alla base il colle S. Maurizio, i militari trovano le baite del Sellery inferiore con la banda “Sergio” alla loro sinistra e in basso la villa Sertorio con la banda “Nicoletta”: è perciò strategicamente verosimile che optino per un attacco simultaneo. In entrambi i casi la tattica pare consistere nello stanare i partigiani dal loro rifugio e colpirli mentre fuggono.
A tal fine infatti vengono disposte le postazioni delle mitragliatrici. Entrambe le formazioni sono purtroppo colte nel sonno. La zona del Sellery inferiore, in particolare, ancor oggi priva di vegetazione, non lascia scampo ai partigiani. Inoltre nei canaloni vi è ancora la neve d’una recente nevicata. Non è ancora l’alba quando, colta di sorpresa, la sentinella riesce a malapena a dar l’allarme. La battaglia s’accende subito tragica e furiosa: stordito dalla confusione, il gruppo non riesce di punto in bianco a mettere in piedi una difesa collettiva. I due amici Sandro Magnone e Pietro “Vecio” Curzel schizzano fuori dalle baite per capire cosa succede ma i colpi saettano loro attorno sulle tante pietre sparse nel vallone. Pressoché circondato, il distaccamento si disunisce e viene così decimato, malgrado l’impegno profuso dai comandanti Pietro “Vecio” Curzel e Alessandro “Sandro” Magnone, colpito in fronte da una pallottola proprio mentre soccorre il rivolese Giuseppe Falzone non volendolo abbandonare, gravemente ferito e intrasportabile, nelle mani del nemico (sarà per questo insignito di medaglia d’argento al valor militare). Franco “Cannone” Morano ricorda d’aver udito l’ordine “Si salvi chi può”. Il gruppo della banda “Nicoletta” con Paolo Morena e Rino Gobbo si salva gettandosi in alto, verso il colle della Roussa (“Siamo usciti dalle baite del Sellery alla cieca; ci sentivamo accerchiati: io, con altri cinque, mi son buttato verso il colle della Roussa e mi è andata bene. Molti altri, invece, sono scesi verso il Forno e le mitraglie tedesche erano messe proprio per colpire in quella direzione. Un massacro”. (Testimonianza di Paolo Morena, riportata in Gianni Oliva “La Resistenza alle porte di Torino”, Milano, ed. Franco Angeli, 1989, pag. 195), mentre, istintivamente, la maggior parte dei compagni si butta in basso, verso Forno, proprio nella direzione in cui i nazisti hanno dislocato le postazioni di mitragliatrici: è un massacro. Rimasto ferito, dopo aver distrutto importanti documenti in suo possesso, il ventenne ottico torinese Giovanni “Gianni” Ogliani preferisce darsi la morte piuttosto che cadere prigioniero (sarà insignito di medaglia di bronzo al valor militare); anche il diciannovenne meccanico torinese Antonio Guelfo e il marinaio torinese di origine argentina Gaetano “Nino” Mancini, gravemente feriti nello scontro, accettano con serenità la morte preferendola alla cattura. In punto di morte il diciannovenne candiolese Giuseppe Avena e il diciannovenne bersagliere torinese d’origine veneta Giuseppe “Beppe” Prest, feriti anch’essi, lanciano ai compagni il proprio moschetto incitandoli a non arrendersi. Un gruppo tenta d’arretrare verso il Sellery superiore, portandosi in posizione dominante in località baracche Crot: il ventenne tenente torinese Helios Perlino, per proteggere la ritirata dei compagni, il ventiduenne meccanico torinese d’origine friulana Danilo “Dino” Fabbro e il ventiduenne mantovano Dalmazio Carretta, con la mitragliatrice apre il fuoco sugli assalitori che tentano di accerchiarli ma cade colpito a morte sull’arma (sarà insignito di medaglia di bronzo al valor militare) (cfr. racconto di Pietro “Vecio” Curzel, vicecomandante delle brigata “Sandro Magnone”, riportato in Luigi Assom – Bruno Ferreri, “La Resistenza in Val Sangone”, tesi di laurea, Università di Torino, facoltà di Scienze Politiche, A.A. 1984-1985, vol. 2, pag. 33).
A tutti questi caduti vanno aggiunti sei ignoti, la cui descrizione, tratta dal registro di smobilitazione della divisione autonoma “Sergio De Vitis”, risale verosimilmente al momento della riesumazione:
Ignoto n° 1: caduto in montagna durante il rastrellamento. Non possibile l’identificazione. Fisionomia irriconoscibile. Statura media. Vestito giubba nera lucente. Pantaloni grigioverde, calzettoni blu rivoltati che fasciano i pantaloni fermati con legacci. Scarpe militari in buono stato, maglia militare bianca rosa bella, berretta grigio chiaro spesso con visiera, cinghia di cuoio.
Ignoto n° 2: caduto in seguito a rastrellamento in montagna. Non possibile l’identificazione. Fisionomia irriconoscibile. Statura media. Vestito giubba, pantaloni, maglione, camicia, cinghia, calzettoni, scarpe, tutto alla militare. Divisa da carabiniere con bustina da carabiniere e pantaloni alla sciatore. Capelli rossicci, Mancano due denti sopra. In tasca un temperamatite blu.
Ignoto n° 3: caduto in seguito a rastrellamento. Non possibile l’identificazione. Fisionomia irriconoscibile. Statura alta, capelli lunghi ondulati rosso scuri, profilo rotondo. Vestito camicia, pantaloni, scarpe militari, calzettoni di lana grigia con calze fini di cotone bianco. Maglione bianco filettato, confezionato fine. Giubba grigia chiara rigata. Cinghia cuoio. Mancano due denti alla mandibola superiore e due all’inferiore.
Ignoto n° 4: statura media, costituzione robusta, età 24-25 anni, capelli e barba lunga nera, colorito bruno, faccia leggermente ovale. Vestito camiciotto blu, calzoni borghesi grigio scuri, mutandine rigate, maglione marrone, camicia chiara, cinghia di cuoio, scarponi borghesi in cattivo stato rossi con listino dietro e ganci. Due denti centrali superiori accavallati.
Ignoto n° 6: statura alta capelli neri. Tipo meridionale. Vestito giubba e pantaloni grigi rigati, camicia color celeste. Maglia lana bianca foggia bella. Al comando di brigata sono depositati i pezzi degli indumenti.
Ignoto n° 7: statura più che media. Capelli castani scuri, profilo ovale magro. Vestito con giubbetto giallo scuro con cintura e fibbia metallica, camicia rosso scura, pantaloni scuri, cinghia di cuoio, calze verdi, scarponi da montagna. Al comando di brigata sono depositati i pezzi di vestiti.(cfr. Registro di smobilitazione della 43a Divisione Autonoma “Sergio De Vitis”, presente all’Ecomuseo della Resistenza di Coazze. Per ciò che riguarda l’Ignoto n° 1, la descrizione presente in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/51, aggiunge: “Ucciso in combattimento al colle della Roussa”. Potrebbe essere identificato nel ventiseienne apprendista aviglianese Aldo Carnino. Per ciò che riguarda l’Ignoto n° 2, la descrizione presente in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/51, aggiunge: “Addosso fu trovato documenti portante Dassero Luigi, 2a compagnia Sanità Ospedale Militare Alessandria. Ucciso in combattimento al colle della Roussa (rocce di Clot)”. Per ciò che riguarda l’Ignoto n° 3, gli elenchi degli ignoti in val Sangone conservato in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/51, concordano nell’identificarlo nel ventunenne torinese d’origine francese Giovanni “Gianni” Sacco. Per ciò che riguarda l’ignoto n° 4 gli elenchi degli ignoti conservati in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/51, lo definiscono ucciso il primo al Colle della Roussa e, gli altri, alle Prese Ruffino, luoghi tra loro abbastanza distanti. Per ciò che riguarda l’Ignoto n° 6, gli elenchi degli ignoti conservati in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/51, lo identificano alternativamente nel ventunenne torinese Ugo Aragno e nel trentenne cremonese Ernesto Cochetti. Per ciò che riguarda l’Ignoto n° 7, gli elenchi degli ignoti conservati in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/51, concordano invece nell’identificarlo nel ventiduenne vinovese Giuseppe Mola).
Il ventiduenne candiolese Martino Aiassa, il diciottenne collegnese d’origine monferrina Mario Bricarello, il diciannovenne mantovano Nunzio Fiorini, il trentenne cumianese Eraldo Issoglio, i fratelli torinesi Romolo e Severino Perino, rispettivamente di ventuno e venti anni e il ventenne torinese Vittorino Pesando, che risultano dispersi, dovrebbero far parte del drappello situato al colle della Roussa, oppure riescono a risalire l’alta valle e a gettarsi sul versante della val Chisone.
Nei combattimenti della giornata risultano inoltre dispersi il ventunenne candiolese Michele Forno e il ventiduenne vinovese Giuseppe Mola come i torinesi Carlo Belletti (visto al colle della Roussa (cfr ISPR, Fondo Falzone, bobina 4/50, foglio notizie) e Teobaldo “Oberdan” Brusa Romagnoli (catturato sotto Forno (cfr ISPR, Fondo Falzone, bobina 4/50, foglio notizie), il rivaltese Ugo Marocco, il siciliano Salvatore Piticchio, il torinese d’origine canavesana Sergio Quattroccolo, il candiolese Vittorio Serra, il torinese d’origine cuneese Giuseppe Vaira e i mantovani Mario Guastalla, Giorgio Galeazzo e Attilio Mora che vengono catturati e portati alle Nuove. Con essi vi è anche il torinese d’origine romana Eugenio Guglielmi che sarà invece deportato in Germania. Il fratello di quest’ultimo, il ventunenne torinese di origine romana Giuseppe Guglielmi e il torinese Francesco Rolla, anch’essi finiti dispersi, saranno probabilmente catturati nei giorni immediatamente successivi e condotti nel carcere improvvisato nelle scuole di Coazze.
Oltre a Franco “Cannone” Morano e al tenente Giuseppe Falzone, che, fingendosi morto, rimane nascosto nelle baite del Sellery, risultano feriti il casalese Franco “Cannone” Morano una prima volta di striscio alla schiena nel tentativo di recuperare la cassetta del pronto soccorso e poi all’avambraccio sinistro in uno scontro ravvicinato con un agilissimo nazista russo, l’orbassanese Dino Garbero alla spalla destra con perforazione del polmone, il villarbassanese
d’origine cuneese Paolo Marengo con la spalla frantumata, il torinese Bruno Rossi al braccio e alla gamba sinistra (Nel suo foglio notizie, compilato dopo la Liberazione, si legge: “Non ha potuto proseguire nella lotta causa le ferite”. Riportato in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/50), il beinaschese Fedele Re alla gamba sinistra con inabilità per quattro mesi, il cumianese Mario Signoretto alla gamba destra con rottura della tibia e inabilità permanente (Nel suo foglio notizie compilato dopo la Liberazione si legge “Temperamento alquanto timido ma di carattere forte. Ferito alle gambe resiste e si trascina per otto giorni per le montagne”. Riportato in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/50) e Teresio “Tremendo” Gallo alla schiena (cfr. Registro di smobilitazione della 43a Divisione Autonoma “Sergio De Vitis”, presente all’Ecomuseo della Resistenza di Coazze, e in ISPR, fondo Falzone, bobina 4/50).
La disparità in forze e armamento è tale che difficilmente i partigiani avrebbero potuto non soccombere. Nella confusione seguita all’improvviso attacco, ogni superstite cerca disperatamente d’aprirsi una strada verso la salvezza, chi arretrando tra i monti, chi sfondando l’accerchiamento. Sarebbe stato forse opportuno attuare prima una forma collettiva di difesa e di resistenza all’interno delle baite per poi, tutti assieme e in modo organizzato, tentare in seguito una sortita o uno sfondamento. Ma, come rileva Valdem Melato (Testimonianza di Valdem Melato raccolta dall’autore in un colloquio telefonico in data 22 marzo 2004), anch’egli al Sellery, così facendo, almeno qualcuno è riuscito a mettersi in salvo.
Per effetto dello sbandamento la montagna diviene un brulichìo di partigiani in cerca di scampo. Nel corso della giornata lo scontro cala d’intensità ma i partigiani sanno di non potersi muovere perché ogni loro gesto allo scoperto può essere mortale. Approfittando nel pomeriggio inoltrato d’una improvvisa nebbia, Pietro “Vecio” Curzel, Carlo Alluminio, Franco “Cannone” Morano e un quarto partigiano riescono a sottrarsi all’accerchiamento e a portarsi, a piedi, sulle alture che sovrastano Forno (Testimonianza di Franco “Cannone” Morano raccolta dall’autore a Casale Monferrato in data 16 marzo 2004). Dopo esser sfuggiti allo scontro del Sellery la sorte di Paolo Morena e di Rino Gobbo si divide: Paolo rimane con un compagno ferito ad un braccio mentre, con un altro compagno, Rino transita dai Picchi del Pagliaio per poi proseguire verso la valle di Susa facendo una breve sosta al Pian delle Cavalle, dove trovano circa una sessantina di partigiani sbandati. Si prendono solo un paio d’ore di sosta. Approfittando della notte camminano fino a raggiungere la valle Susa. In un vigneto sopra S. Giorio un’anziana signora li accoglie nella propria casupola: rimarranno lì per quattro o cinque giorni, prima di proseguire verso Almese e, di qui, verso la pianura (Testimonianza di Rino Gobbo raccolta dall’autore in un colloquio telefonico nel marzo 2004). Dopo ripetuti tentativi Sergio De Vitis e altri riescono a riparare nel vallone della Balma. Secondo Giulio Nicoletta, presumibilmente al momento dell’attacco a ridosso del Forno, Sergio De Vitis avrebbe fatto, forse per sottrarsi al rastrellamento, una puntata sino al col dell’Aquila rischiando d’essere intercettato da una pattuglia di rastrellatori tedeschi (Testimonianza di Giulio Nicoletta riportata da I.T.C.S. Blaise Pascal, “Memoria di villa Sertorio”, Giaveno, ITCS Pascal, 1998 (videocassetta).
Per fermare l’avanzata della colonna tedesca che risale da Giaveno e impedirne l’accesso al vallone di Forno, il ventiduenne piossaschese Mario “Tarzan” Davide ha il compito d’accendere la miccia dell’esplosivo posizionato per far saltare il ponte di Sangonetto. Per un ritardo dovuto al mancato rientro delle squadre di guardia a Pontepietra, di cui fa parte il monferrino Alberto Zoppi, e a Coazze, di cui fa parte Aldo Galetto, o per la presenza di una spia che aiuta i nazifascisti a disinnescare l’esplosivo, l’operazione non riesce. Consapevole dell’importanza del suo compito, Mario Davide non si dà per vinto: si butta in acqua e riesce a far brillare comunque il ponte con i fiammiferi. Il crollo non ingente consente comunque ai carri armati nazisti di guadare il torrente. Allora Mario tenta ancora di bloccarne l’avanzata attaccando il carro capocolonna con bombe a mano e una bottiglia di benzina: nell’assalto rimane ferito. Riuscito ancora ad allontanarsi, nel tentativo di raggiungere i compagni, Mario sbaglia strada e viene intercettato in borgata Ruata dove finisce massacrato a colpi di moschetto in viso (cfr. Gruppo di ricerca sulla storia e sulla cultura locale di Piossasco (a cura di), “Diario di Mario Davide dopo l’8 settembre”, Torino, ed. Litografia Rotostampa Silvestri, 1982, pag. 64-65; Marina Fornello, “La Resistenza in val Sangone”, tesi di laurea, Università di Torino, facoltà di Legge, a.a. 1961-1962, pag. 71, con riferimento a “Il Partigiano Alpino” n° 2 anno 1, “La Riscossa italiana”, 6 giugno 1944, e Giuseppe Marabotto “Un prete in galera”, Cuneo, ed. Ghibaudo, 1953, pag. 268-269).
Altri cadono in altre zone: il quarantanovenne operaio santambrogese Paolo Gioana viene ucciso al Ciargiur (cfr. ISPR, Fondo Falzone, bobina 4/50, foglio notizie), il ventiseienne pavese Gino Avanza e il ventenne nichelatore torinese Vittorio “Tenore” Maraschi finiscono uccisi lungo il sentiero che sale alla Balma.
All’alba il gruppo dei Monferrini dislocato al Palé comincia a sentir riecheggiare colpi tra le montagne. Il capo distaccamento Battista “Gatto” Reggio decide di fare una puntata al comando della banda per prendere ordini. Quando rientra, riferisce ai compagni del massacro e, assieme ai compagni, decide di salire verso i Picchi del Pagliaio e poi ancora più su, verso il Rocciavrè. Da qui scendono all’alpeggio di Pian delle Cavalle dove trovano altri partigiani di varie bande sfuggiti al rastrellamento, tra cui Nicola Cumiano. Accendono un fuoco e a turno si riscaldano dal gelo esterno (Testimonianza di Amilcare Aluffi, raccolta dall’autore a Collegno nel dicembre 2003).
Il plotone dei Rivaltesi invece viene completamente sorpreso: si salvano Orazio “Verde” Gastaldi e Bruno Pautasso, mentre Ugo Baudino, Mario Galetto, Giovanni Marocco, Giorgio e Pietro Marconetto, Andrea Moine, Terenzio Nepote, Angelo Ronco e l’astigiano Pietro “Macella” Mosso, vengono catturati in blocco e portati alle Nuove.
Al termine della giornata la banda “Sergio” è completamente smembrata: venuto a mancare il comando, sono saltati tutti i collegamenti. Ognuno è costretto ad arrangiarsi da solo senza potersi fidare di nessuno e senza neppur riuscire a immaginare cosa potrebbe capitare sia l’indomani che da un momento all’altro. Nel pieno dell’assalto tedesco a Sergio De Vitis, sicuramente affranto per la morte di tanti compagni (A proposito dell’attenzione verso i propri partigiani, a Sergio De Vitis è attribuita una frase significativa: “Una mamma impiega 20 anni per fare del proprio bambino un uomo. Un’azione può quindi attendere qualche ora o qualche giorno per essere più sicura”), tocca l’ingrato compito di rinsaldare la formazione a cominciare dai pochi superstiti del Sellery e dai tanti sbandati sfuggiti alla cattura e di guidarli tutti insieme verso la salvezza.
Mauro Sonzini, Abbracciati per sempre, ed. Gribaudo, Savigliano (CN), 2004, pagg. 35-40 – trascrizione da ANPI Voghera