Le elezioni politiche del 19-20 maggio 1968 certificarono il fallimento del centro-sinistra

Al rientro dalle ferie estive, lo sguardo della politica era puntato sulle elezioni che si sarebbero tenute in primavera [1968]. La Dc stava preparando il X Congresso che avrebbe avuto luogo a fine novembre a Milano e nel quale sarebbe stata delineata la nuova struttura del partito, non più divisa tra le quattro correnti che avevano caratterizzato il Congresso di Roma del 1964.
Ad ottobre, due furono le tematiche attorno alle quali si concentrò l’attenzione della Dc: la revisione del Concordato tra Stato e Vaticano risalente ai Patti Lateranensi del 1929 e la questione meridionale. Per quanto riguarda il primo dei due punti, il 4 ottobre si aprì alla Camera il dibattito al quale Moro prese parte il giorno successivo. Egli, dopo aver menzionato il dialogo “elevato ed appassionato” al quale aveva partecipato durante l’Assemblea Costituente tra il 1946 ed il 1947, affermò la necessità di “una comune valutazione dello Stato e della Chiesa circa l’opportunità di una procedura di revisione” del Concordato nei termini della “mozione Zaccagnini-Ferri-La Malfa” <188, ponendo la questione di fiducia ed ottenendo l’approvazione del Parlamento con 304 voti favorevoli e 204 contrari. In merito alla questione meridionale, il 7 ottobre Moro prese parte al convegno della Dc sul Mezzogiorno, nel quale trattò il tema in modo approfondito. Il suo intervento ruotò attorno a cinque punti: innanzitutto egli presentò la nuova situazione economica del Paese, che, tornata ad una nuova fase espansiva, avrebbe permesso di investire finalmente delle importanti
risorse nell’agricoltura, nelle infrastrutture e nei contributi alle imprese private; dopodiché, Moro manifestò la necessità di fermare il flusso migratorio che da anni stava svuotando il Sud Italia della forza lavoro, la quale era stata diretta tutta verso le industrie del Nord; il terzo punto riguardava la Comunità economica europea, la quale, nel suo disegno lungimirante, non poteva far sì che il Sud si trasformasse in una riserva da cui il Nord potesse attingere a seconda delle esigenze “accentuando ulteriormente il carattere di marginalità che il meridione già risente nei confronti della struttura produttiva del nostro Paese”; Moro fece poi un richiamo agli imprenditori del Mezzogiorno,
invitandoli a lavorare affinché anche al Sud emergesse una classe imprenditoriale e ponendo l’accento sull’importanza della “formazione del capitale umano”; il Presidente del Consiglio concluse il suo intervento parlando di quello che considerava il fiore all’occhiello del suo centrosinistra, ovvero la programmazione economica, nella quale – disse Moro – “sono indicate le aspirazioni, le speranze del popolo italiano e soprattutto ne sono stabilite, con la maggiore possibile precisione, tenuto conto della novità di quest’esperienza, le compatibilità e gli strumenti di impegno pubblico e privato e di operante solidarietà” <189.
Tra il 23 ed il 26 novembre 1967 si tenne dunque a Milano il X Congresso della Democrazia cristiana. L’asse Rumor-Piccoli-Fanfani premette affinché la data fosse precedente alla tornata elettorale del 1968, rinviando così ogni confronto interno al post-elezioni. La Dc si presentava dunque all’appuntamento di fine novembre divisa in tre gruppi: la maggioranza, nella quale confluirono i dorotei, gli Amici di Moro, i fanfaniani e gli ex-centristi che facevano capo a Scelba; la sinistra, costituita dai basisti e dai sindacalisti; i pontieri, che, guidati da Paolo Emilio Taviani, si collocavano in una posizione intermedia tra la maggioranza e la sinistra democristiane. La nascita di una nuova corrente, assieme alla presenza all’interno del gruppo di maggioranza di personaggi “scomodi” quali Colombo, Moro e appunto Taviani, faceva venir meno il disegno pre-congressuale dei tre esponenti principali della maggioranza, i quali puntavano invece ad una nuova formula unitaria nella quale potessero confluire le diverse posizioni interne al partito. Il dibattito si aprì con la relazione introduttiva del segretario Rumor, il quale, sul piano internazionale “denunciò
l’indebolimento della solidarietà occidentale”, nella quale spiccavano temi come la guerra in Vietnam, l’indebolimento del processo di integrazione europea e il conflitto in Medio Oriente; sul piano interno prese le distanze dalla tendenza “a fare del centro-sinistra un tema più di schieramento che di programma” <190, criticando, seppur implicitamente, gli ultimi governi guidati da Moro. A seguire ci fu l’intervento degli esponenti della sinistra, rappresentati formalmente da Pastore e Bo, ma i cui veri leader erano Donat Cattin e Galloni. L’obiettivo della sinistra era quello di non cadere nell’isolamento all’interno del partito, tentando di ribaltare l’asse della maggioranza e sostituendolo
con uno che andasse “da Piccoli a Colombo, da Moro a Taviani per non parlare degli stessi fanfaniani”, che si opponesse ad una minoranza “cattolico-liberale” guidata dal maggior rappresentante della destra all’interno del partito, ossia Giulio Andreotti. Da parte del ministro degli Interni Taviani emerse una critica nei confronti della Dc, la quale si era trasformata “in un insieme di gruppi legati solo dalla compartecipazione al potere”. Egli sottolineava la pericolosità di una “divisione […] fra una maggioranza che congloba tutte le posizioni, dalla destra al centro-sinistra, e una minoranza di sinistra”, e affermava la necessità di una “tregua” fino alle elezioni dell’anno successivo, a cui sarebbe dovuta seguire “una nuova, organica, effettiva maggioranza, che enuclei una minoranza conservatrice, anche se forse non sarà più quella di prima” <191. L’ultimo intervento spettò a Moro in qualità di Presidente del Consiglio. Egli, nell’introdurre il suo discorso, fece un appello a tutti gli esponenti della Dc, invitandoli a “misurare i propri comportamenti” poiché sarebbe stato fondamentale dare un’immagine positiva del partito al di fuori del Congresso.
Successivamente, soffermandosi sui rapidi cambiamenti che stavano attraversando la società, sottolineò la necessità di dimostrarsi attenti ai nuovi bisogni del Paese, mediante “l’unità, la fermezza, l’interna coerenza”, in modo tale da riuscire a garantire in futuro “un modo di essere più alto e più degno nella vita umana e sociale”, frenato negli ultimi tempi da uno “sviluppo economico insufficiente”. Relativamente al mondo cattolico, proseguendo il discorso che era nato durante il Concilio Vaticano II, affermò l’urgenza della “tutela dei valori morali e religiosi, il culto delle tradizioni, un’attenzione rivolta alle esigenze nazionali, ma senza alcun esclusivismo né preclusione ai più vasti orizzonti della vita internazionale, una schietta affermazione della libertà in tutte le sue forme, la fiducia nel progresso umano e nella elevazione del mondo del lavoro”. Moro sottolineò poi tutte “le difficoltà da superare”, rappresentate “da una realtà difficile da dominare, [da] una ricchezza insufficiente che occorre accrescere”, per cui nella successiva legislatura ci si sarebbe dovuti porre come obiettivo “un ritmo armonico da stabilire tra crescente ricchezza e crescente progresso in termini di libertà, eguaglianza e partecipazione”. Il Presidente del Consiglio fece un accenno anche al problema rappresentato dalla nascita dei primi fenomeni di contestazione giovanile ed operaia nel Paese, che sarebbero stati solo un’anticipazione del 1968, e che egli presentava come “gli anticipatori ed i garanti dell’avvenire, coloro che possono e debbono anticipare i tempi, alimentare gli ideali, mostrare nella loro impazienza la realtà nuova che sarà la loro concreta realtà di domani”, asserendo però che “il processo di evoluzione in Italia e nel mondo [aveva raggiunto] ormai un ritmo vertiginoso” <192. Nell’ultima parte della sua relazione, Moro si dedicò all’ambito più propriamente politico, dando grande spazio all’esito positivo dell’accordo con i socialisti. Egli sottolineò più volte il fatto che il centro-sinistra fosse scaturito da una scelta “profondamente libera” della Dc, avvenuta superando ogni diversità ed ideologia nel “comune amore per la libertà e [nel]la certezza del legame indissolubile che stringe appunto la libertà al moto ascensionale di una società democratica”. Tuttavia, egli ci tenne a rimarcare come il compito assegnato al centro-sinistra fosse “troppo grave perché lo si possa immaginare tutto già adempiuto […] In realtà dobbiamo meglio comprendere e meglio valorizzare l’intesa raggiunta, della quale siamo ben lungi dall’avere approfondito tutto il significato e scoperta tutta la ricchezza”. Rispetto alla possibilità di altre formule che potessero sostituirsi a quella di centro-sinistra, Moro fece riferimento al Partito liberale, giudicando impossibile un ritorno al centrismo: “non si può immaginare che sia adatto per gli anni ’70 quel che non è stato ritenuto idoneo per gli anni ’60” <193. Infine, egli parlò della responsabilità della Dc per lo sviluppo democratico del Paese e di quello che era stato il suo compito in quegli anni: “si è trattato di difendere e, in certa misura ancora si tratta, di difendere e consolidare le istituzioni ma anche di farlo passare nel costume, di farne sostanza della vita politica e quasi intangibile presupposto di essa” <194. Relativamente all’intervento di Moro, Baget Bozzo e Tassani hanno osservato che: “Il discorso di Moro impone ancora una volta al congresso la sua statura: il brillante pragmatismo di Fanfani è ridimensionato nel suo strumentalismo intrapartitico, l’economicismo di Colombo diviene settorialismo, Rumor e Piccoli depongono uno scettro dell’egemonia che avrebbero voluto brandire in congresso. Alle sinistre pare evocato il segno del possibile “rimescolamento delle carte” postcongressuale […] e il senso dell’azione politica di centro-sinistra che apre squarci e nuove possibilità di rapporto con la stessa opposizione. Alla fine dell’intervento, a notte inoltrata, in Moro è applaudito il legittimo leader di una coalizione governativa in cui l’apporto democratico-cristiano è garantito dallo stesso leader. Questa è almeno l’immagine che Moro riesce pubblicamente a dare di sé: essa non corrisponde a verità, poiché le logiche post-congressuali di partito non saranno poi controllabili, né si avvieranno in quella direzione auspicata dalle sinistre democristiane” <195.
L’esito del voto congressuale vide la vittoria della lista di maggioranza, che raggiunse il 64,2% dei voti (78 seggi, di cui 34 ai dorotei, 21 ai fanfaniani, 14 ai morotei e 9 agli ex-centristi), mentre la sinistra ottenne il 23,8% (28 seggi) e i pontieri di Taviani raggiunsero il 12% (14 seggi).
L’ultimo appuntamento del 1967 fu il Consiglio nazionale della Dc che si riunì il 16 dicembre per eleggere il segretario politico, il presidente e la direzione nazionale. Rumor fu riconfermato segretario con 138 voti a favore, 35 schede bianche ed un astenuto, mentre Scelba mantenne il suo ruolo di presidente del partito. La scelta della continuità pre-elettorale fu evidenziata anche dalle riconferme dei due vicesegretari Piccoli e Forlani, mentre per quanto riguarda la direzione nazionale, furono eletti 3 membri della lista di Taviani, 6 della sinistra e 18 della lista di maggioranza.
Nei primi tre mesi del 1968 il Parlamento fu impegnato nel dibattito relativo alle vicende del SIFAR del luglio 1964. Il caso si era aperto già nella primavera del 1967 quando, sulle pagine de L’Espresso, il settimanale guidato da Eugenio Scalfari, era apparso un articolo del giornalista Lino Jannuzzi intitolato “14 luglio 1964 complotto al Quirinale”. All’interno dell’articolo si leggeva dell’esistenza del “piano Solo” e della presenza di numerosissimi fascicoli, atti alla schedatura di migliaia di persone, i famosi “enucleandi”. Ciò aveva portato all’istituzione di due commissioni d’inchiesta: una interna ai carabinieri ed assegnata al vicecomandante dell’Arma, il generale Giorgio Manes, l’altra, parlamentare, nata per volontà del ministro della Difesa Tremelloni e presieduta dal generale Beolchini. I risultati delle indagini, in parte coperti dal segreto militare, avevano portato all’accusa del generale De Lorenzo, il quale, dopo essersi dimesso dalla carica di capo di Stato Maggiore dell’esercito, aveva denunciato Scalfari e Jannuzzi. La questione dunque, il 29 gennaio 1968 si spostò alla Camera, dove fu presentata una mozione da parte del deputato del Pci Roberto Anderlini, bocciata dalla maggioranza. Moro, il cui obiettivo era quello di non far ricadere la responsabilità della vicenda sull’ex presidente Segni e di conseguenza sulla Dc, intervenne in aula il 31 gennaio. Egli, tornando ai fatti del luglio del 1964 disse: “l’estate del ’64 fu il momento più difficile non solo nella storia del centro-sinistra, ma nella storia italiana degli ultimi vent’anni. Sono tuttavia convinto di aver agito […] anche allora, per il meglio anche se questo è costato” <196. Dopodiché criticò la stampa e i mezzi d’informazione, i quali avevano alimentato la fuoriuscita di “dettagliate ma fantasiose notizie […] del luglio 1964, senza che il governo, vincolato
dal doveroso rispetto di un procedimento in corso, potesse usare il mezzo di una dettagliata smentita” <197. Relativamente alla richiesta presentata dai comunisti, Moro concluse: “la richiesta appare difficilmente proponibile perché includente, nel rispetto, ove fosse possibile, dei delicati meccanismi dei servizi di sicurezza, o tale da aprire la via alla conoscenza del segreto (di Stato) da parte di chi non può accedervi ed al quale noi non potremmo, se non venendo meno al nostro dovere, aprire la via della conoscenza di cose per loro natura destinate a rimanere nella ristretta cerchia dei responsabili a ciò autorizzati dalla legge. […] Io credo quindi, quali che siano le opinioni personali
di ciascuno di noi che, anche con un obiettivo limitato, non ricorreranno gli estremi che ci sforzino ad una decisione che potrebbe risultare non necessaria, non opportuna e praticamente pericolosa. Ecco le ragioni per le quali il governo esprime parere contrario alle varie proposte di inchiesta parlamentare oggi in discussione. Esso dà come alternativa il suo rigoroso impegno a ricercare la verità con ogni mezzo a sua disposizione e poi voi giudicherete spero serenamente, ed avendo presente gli interessi del paese” <198.
La IV legislatura volgeva alla sua naturale scadenza con l’approvazione di due leggi: la legge elettorale regionale proporzionale, che normava l’elezione dei Consigli regionali nelle regioni italiane a statuto ordinario; e la legge Mariotti in materia di riforma ospedaliera, la quale introduceva gli enti ospedalieri. L’11 marzo 1968, il Presidente della Repubblica sciolse le Camere e indisse le elezioni per il 19-20 maggio. La sera stessa, Moro, pur riconoscendo il fatto che i suoi governi non avessero realizzato tutto ciò che egli stesso aveva illustrato il 7 dicembre 1963 in Parlamento, si mostrò ottimista nel suo intervento in televisione, nel quale disse: “non abbiamo spento il vigore creativo della vita sociale, quel tanto di nuovo che c’è sempre nella vita sociale, qualche volta indecifrabile in qualche misura, come la forza creativa che è nei giovani, i quali ci dicono che c’è qualche cosa di nuovo del quale tenere conto, qualche cosa di nuovo che è il lievito che crea la nuova storia” <199. Era chiaro il riferimento che Moro faceva all’ondata di protesta che era scoppiata in Italia a partire da gennaio, interessando numerosi atenei da Nord a Sud della penisola.
Il primo aprile, il Presidente del Consiglio aprì ufficialmente la campagna elettorale della Dc a Venezia, con un discorso che ruotava attorno a tre punti essenziali: in primo luogo, Moro avvertì del rischio di considerare le elezioni come “un avvenimento di ordinaria amministrazione”; in secondo luogo, parlò del rischio rappresentato dalla scheda bianca, la quale avrebbe potuto provocare dei problemi al sistema democratico e sottolineando che “da un siffatto atteggiamento negativo potrebbe emergere quel tanto di spirito di violenza che per ora, in misura ridotta, affiora non solo nel nostro paese ma nel mondo”; in terzo luogo, ripropose il tema della “contrapposizione della Democrazia cristiana al comunismo”. Moro concluse poi sottolineando i meriti della Dc: “ricordiamo la speranza offerta al paese, la libertà garantita, lo sforzo comune di mediazione sociale e politica, le istituzioni democratiche concepite come un canale attraverso il quale si sale nella vita sociale e attraverso il quale passeranno, come sono passati, nuovi ceti per una più alta giustizia” <200.
Le elezioni politiche del 19-20 maggio 1968 certificarono il fallimento del centro-sinistra. La Democrazia cristiana aumentò di poco i propri consensi, passando dal 38,3% della tornata elettorale del 1963 al 39,1%, il Partito comunista continuò la sua progressione, raggiungendo il 26,9% (+1,6%), mentre il Partito socialista unificato subì un clamoroso tracollo, attestandosi al 14,5% e perdendo più del 4% rispetto al risultato raggiunto cinque anni prima dai due partiti divisi. L’esito disastroso delle urne travolse la formula di centro-sinistra e con essa il suo ideatore, Aldo Moro, a cui fu attribuita la colpa di quella pesante sconfitta. Come dirà Tamburrano, una, se non la principale causa della disfatta del centro-sinistra fu rappresentata dal fatto che tale formula era sopravvissuta “non per forza interna, ma per una debolezza esterna: la mancanza di alternative” <201.
In ultima analisi, usando le parole di Campanini: “I tumultuosi avvenimenti del 1968 […] avevano ormai accentuato la divaricazione fra coloro che, come Moro, intendevano trasformare la società attraverso una serie di pazienti e meditate innovazioni e coloro che ritenevano invece indispensabile un brusco processo di cambiamento, che spazzasse via i vecchi equilibri e ne instaurasse dei nuovi. Il profilarsi del fenomeno della violenza e il formarsi di gruppi eversivi di estrema sinistra fu in qualche modo il prezzo che la società italiana dovette pagare a queste impazienze riformatrici; e di questa violenza Moro – innovatore, ma solo nella pazienza della mediazione – finì per essere la vittima più illustre <202.
Il 5 giugno ebbe inizio la V legislatura con l’elezione dei presidenti delle due Camere, tra cui Fanfani, eletto a capo di Palazzo Madama, mentre il 19 giugno Rumor ricevette l’incarico di formare il governo. Tuttavia, a causa delle difficoltà nel ricostruire un nuovo governo che potesse contare sull’appoggio dei partiti che avevano costituito il centro-sinistra, il segretario della Dc rinunciò all’incarico. Il 24 giugno si tornò alla formula che nell’estate del 1963 aveva preceduto il I Governo Moro, con la nascita del II Governo Leone, il quale fu incaricato di guidare il Paese in una nuova fase di transizione.
Moro, rimasto in disparte per diversi mesi, farà risentire la sua voce al Consiglio nazionale della Dc del 21 novembre 1968, pronunciando la celebre frase: “tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai” <203.
[NOTE]
188 P. PANZARINO, Il centro-sinistra di Aldo Moro (1958-1968), presentazione di Agostino Giovagnoli, Marsilio, Venezia, 2014, p. 176.
189 Ivi, pp. 177-178.
190 A. GIOVAGNOLI, Il partito italiano. La democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Laterza, Roma, Bari, 1996, p. 126.
191 G. BAGET BOZZO, G. TASSANI, op. cit., pp. 271-272.
192 P. PANZARINO, op. cit., p. 179 e ss.
193 G. BAGET BOZZO, G. TASSANI, op. cit., pp. 276-277.
194 P. PANZARINO, op. cit., p. 181.
195 G. BAGET BOZZO, G. TASSANI, op. cit., p. 277.
196 Ivi, p. 288.
197 P. PANZARINO, op. cit., p. 185.
198 G. BAGET BOZZO, G. TASSANI, op. cit., pp. 289-290.
199 Ivi, p. 295.
200 P. PANZARINO, op. cit., p. 191.
201 G. TAMBURRANO, op. cit., p. 333.
202 G. CAMPANINI, Aldo Moro. Cultura e impegno politico, Edizioni Studium, Roma, 1992, p. 59.
203 P. PANZARINO, op. cit., p. 202.
Mirko Tursi, Aldo Moro e l’apertura a sinistra: dalla crisi del centrismo al centro-sinistra organico, Tesi di laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2017-2018