Se, infatti, in piena guerra gli operai sono insostituibili, nel dopoguerra questo elemento di vantaggio non c’è più

Sentiamo ancora una volta dalle parole di un protagonista delle lotte dell’autunno ’50, il già citato Fabrizio Onofri, il sentimento che prevalse all’indomani della sconfitta bracciantile [in Lombardia]: “quell’ultimo sciopero aveva segnato la brusca fine di un’illusione, l’illusione che si potesse piegare l’Agraria e il governo degli agrari […], e che si potesse “passare”. […] Le masse sentirono che quella speranza era caduta. Rimasero ancora in gran parte attaccate alle loro organizzazioni, ma senza più la tenacia e la combattività degli anni precedenti. La grande speranza s’era accovacciata in fondo alla mortificazione”. <458
Da lì a poco, nel 1951, sarebbe iniziato il grande esodo dalle campagne lombarde verso Milano, Brescia e la Lombardia settentrionale. Se la prima modernizzazione capitalistica del 1880 aveva quindi determinato la comparsa del bracciantato e del corpo salariato nelle campagne, quella del secondo dopoguerra porta invece alla sua drastica riduzione e trasformazione.
È in parte in problema che devono affrontare anche i lavoratori industriali, i quali avevano mancato di considerare una differenza centrale rispetto al ciclo conflittuale del ’43-’45: se, infatti, in piena guerra gli operai sono insostituibili, nel dopoguerra questo elemento di vantaggio non c’è più; in secondo luogo, la ristrutturazione economico-produttiva e la politica finanziaria dei governi unitari e di quelli democristiani sconfigge la politica del conflitto operaia e i piani di ricostruzione presentati dal sindacato. Disoccupazione e precarietà privano cioè il conflitto della sua stessa possibilità di realizzazione: i lavoratori. La rottura dell’unità sindacale a seguito dei moti del luglio ’48 (con la nascita della Libera CCGIL – LCGIL, che assume il nome CISL dal 1950), da parte della minoranza cattolica e laica, priva il movimento operaio dello strumento unitario di lotta, ponendo le premesse per la sua frammentazione anche a livello di base e non solo di vertice. I patti separati e le sconfitte della CGIL nelle elezioni per le commissioni interne ridurranno drasticamente il potere contrattuale della sinistra sindacale, marginalizzando per lungo tempo ogni opzione conflittuale. Infine, come già ricordato a proposito del mondo bracciantile, bisogna considerare anche l’elemento della repressione che incide profondamente nella disponibilità al conflitto di buona parte del corpo lavoratori: “Secondo una relazione incompleta, negli anni 1948-49 e nella prima metà del 1950 sono caduti, uccisi in conflitto con le forze di polizia, oppure da squadre di agrari o fascisti, 62 lavoratori, di cui 48 comunisti. Il bilancio comprende inoltre 3.162 lavoratori feriti, di cui 2.367; 92.169 lavoratori di cui 73.780 comunisti sono stati arrestati e rinviati a giudizio; 19.306 lavoratori, di cui 15.429 comunisti, sono stati condannati a pene varie”. <459
Mentre nel milanese, dal 1949 al 1953, gli arrestati in relazione a conflitti di lavoro sono 21.000, i processati 53.000 e i condannati 24.000. <460
Dal punto di vista strettamente sindacale gli anni successivi aiuteranno a chiarire, cifre alla mano, la dimensione della sconfitta dei lavoratori nel ’48-’50 in quello che è stato il cuore dello scontro sul dualismo di poteri, Milano:
“tra il 1949 e il 1950 chiuderanno 81 fabbriche con la perdita di diciassettemila posti di lavoro e altre 197 ridurranno le proprie dimensioni con la perdita di altri ventimila impieghi. La crisi, inoltre, colpirà particolarmente la categoria più forte del sindacato milanese – i metallurgici – dove in appena quattro anni si perderanno venticinquemila posti di lavoro e chiuderanno i battenti fabbriche emblematiche come Isotta Fraschini, Caproni e Breda aeronautica. La ristrutturazione colpirà duramente le forze di sinistra nelle fabbriche, concentrando le riduzioni di personale tra i dirigenti comunisti e socialisti e i lavoratori più politicizzati, con simpatie a sinistra, in un tentativo di ‘normalizzare’ la situazione negli stabilimenti. La progressiva perdita di libertà dei lavoratori nelle fabbriche milanesi arriverà perfino a forme di controllo sulla vita privata degli stessi, che hanno portato gli studiosi a paragonarle al paternalismo industriale dell’Ottocento, nell’ambito nazionale di denunce intorno a una sorta di ‘soggezione neofeudale’ nei luoghi di lavoro”. <461
La restaurazione colpisce direttamente il cuore della conflittualità sociale, erodendo e cancellando proprio quel potere che la lotta di Liberazione aveva fatto conquistare a ceti sociali che per una stagione avevano creduto di poter uscire dalla condizione storica di subalternità, dove invece il partito moderato e il suo blocco di riferimento li hanno costretti a tornare.
“Le grandi fabbriche dell’Italia settentrionale sono al centro di uno scontro che oltrepassa largamente i confini sindacali; è in gioco il riassetto degli equilibri sociali più complessivi e, in particolare, il potere conquistato dagli operai nei primi anni del dopoguerra. Un potere che, almeno fino a tutto il 1948, ha permesso loro di condizionare le scelte delle politiche aziendali e le strategie di organizzazione produttiva e del lavoro. […] Gradualmente il ripristino delle gerarchie e della disciplina riesce ad imporsi, viene conquistato e strappato ‘palmo a palmo, giorno dopo giorno, mediante una sistematica operazione repressiva che aveva cura di sconfiggere l’opposizione interna con ogni mezzo, soprattutto mirando a propagare un timore salutare rispetto a qualsiasi atto o deliberato che recasse la sigla della direzione’ “. <462
La stagione dell’autonomia di classe, della politica del conflitto antagonista (in alcuni suoi tratti rivoluzionaria), si chiude dunque nel 1950. Da lì inizia il processo di normalizzazione della conflittualità sociale da parte di un sistema politico democratico-conservatore restaurato e il parallelo riadattamento del Pci nella nuova fase.
[NOTE]
458 F. Onofri, op. cit., pp. 50-51, cit. in G. Crainz, op. cit., p. 248
459 G. Galli, op. cit., pp. 188-89
460 L. Bertucelli, op. cit., Nazione operaia, p. 91
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017