Tuttora rimangono aperti molti interrogativi sul caso Moro

La frattura, sempre più marcata, che si creò tra il Pci e quel ceto giovanile urbano e universitario che gli aveva dato un appoggio cruciale nelle elezioni del giugno ’76 portò molti giovani del movimento del ’77 a intraprendere la militanza terroristica. L’appoggio acritico dato al governo per il rinnovo della legge Reale sull’ordine pubblico, contro la quale il Pci aveva votato nel ’75, fu, secondo Ginsborg, uno dei più gravi errori di Berlinguer. <91 Così la politica dei comunisti, i quali volevano prevenire l’estendersi della violenza, creò un terreno più fertile per i terroristi <92. Il 27 maggio 1976 cominciò il processo al “nucleo storico” delle Brigate Rosse in cui erano coinvolti Renato Curcio, Prospero Gallinari, Franceschini e altri brigatisti. L’8 giugno 1976 a Genova un gruppo armato uccise in un attentato il procuratore generale Francesco Coco, reo di essersi rifiutato nel ’74 di firmare la scarcerazione dei detenuti che le BR chiedevano in cambio della liberazione di Sossi.
La nuova fase dell’attività delle Brigate Rosse fu soprannominata “strategia dell’annientamento”: venivano annunciate azioni indiscriminate, miranti a colpire professionisti e “servi dello Stato”, con l’obiettivo di terrorizzare interi settori delle classi dominanti, in modo da impedire il regolare funzionamento dello Stato <93. Oltre la Dc, anche il Pci, accusato di “socialdemocrazia”, era vittima delle BR.
Per rispondere al processo al “nucleo storico” le BR decisero di “processare lo Stato”, che dal loro punto di vista era rappresentato dalla Dc. Il 16 marzo 1978, nello stesso giorno in cui Andreotti avrebbe dovuto presentare alla Camera il suo nuovo governo, nella cui maggioranza erano presenti anche i comunisti, Moro e la sua scorta caddero in un’imboscata in via Fani: i poliziotti della scorta e l’autista vennero uccisi, Moro fu rapito e tenuto in ostaggio fino al 9 maggio. Moro rimarrà prigioniero dei terroristi per 45 giorni, in un appartamento in via Montalcini 8. Dalla cosiddetta “prigione del popolo” scrisse a mano un centinaio di lettere e quattrocento pagine di un memoriale, in risposta alle domande dei suoi carcerieri.
Nel comunicato delle BR del 16 marzo 1978, Moro viene descritto come un tiranno, rappresentante di un partito che da trent’anni opprime il popolo italiano. Il documento recita: “chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi è stato il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di quel regime democristiano che da trent’anni opprime il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro paese, dalle politiche sanguinarie degli anni ’50, alla svolta del “centro-sinistra” fino ai giorni nostri con l’accordo a sei ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste” <94.
[…] Tuttora rimangono aperti molti interrogativi sul caso Moro. Il governo scelse una strategia chiamata “linea della fermezza”, ossia di non accettare nessun dialogo con le BR, al fine di non concedere loro alcuna legittimità istituzionale. La fermezza era voluta soprattutto dal Pci e, seppure per qualche periodo con profondo travaglio, anche dalla Dc. Il Pci durante questa vicenda cominciò a riconoscersi nelle istituzioni di quello Stato tante volte rifiutato come “borghese e capitalista” e a difendere politici democristiani tante volte duramente criticati perché responsabili di malgoverno. <95
Questo delitto evidenziò come nessun altro la gravità del fenomeno terroristico, ma contemporaneamente avviò una progressiva presa di distanze dall’area eversiva da parte di quanti avevano coltivato fin allora ambigue solidarietà. <96
Secondo Giovagnoli la “linea della fermezza” nascondeva una debolezza delle istituzioni e della politica. Fu una risposta difensiva all’azione brigatista, adottata nella convinzione che segni di cedimento potessero indurre corpi dello Sato a prendere le distanze dalla classe politica o favorire l’esplosione di una guerra civile. <97
Il rapimento e l’assassinio di Moro possono quindi essere interpretati come una sconfitta dello Stato, considerando anche i limiti delle BR emersi in seguito. Varie fonti riportano l’inefficienza dello Stato nell’operazione di ritrovamento di Moro, e ancora oggi pesano i sospetti di un inquinamento di prove ad opera di servizi segreti, organizzazioni come la loggia massonica P2 di Licio Gelli, oppure interferenze straniere. <98 La vicenda di Gelli e della P2, la loggia nata nel secondo dopoguerra e accusata di connivenza con i servizi segreti deviati e con i gruppi eversivi di estrema destra, è ancora oggi controversa e misteriosa. Lo scandalo nazionale conseguente alla scoperta delle liste della P2, avvenuto in seguito nel 1981, fu drammatico, considerando le personalità importanti della Repubblica italiana coinvolte. La relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta dalla deputata Tina Anselmi, afferma che “la Loggia P2 attraverso il suo capo o i suoi esponenti… si collega più volte con gruppi e organizzazioni eversive, incitandoli, favorendoli nei loro propositi criminosi, con un azione che mirava ad inserirsi in quelle aree secondo un disegno politico proprio, da non identificare con le finalità, più o meno esplicite, che quelle forze e quei gruppi ponevano al loro operato” <99.
Per quanto riguarda il caso Moro, invece “quello che la Commissione è in grado di affermare, facendo riferimento al patrimonio conoscitivo che le è proprio, è che, mentre si pone come dato sicuro l’interesse attivo e politicamente determinato delle relazioni che Gelli intratteneva con gli ambienti militari della Loggia, … per eventi e situazioni di ben minore portata rispetto a questo tragico evento, per contro, allo stato degli atti, non si hanno sicuri riscontri sul collegamento tra questo livello qualificato di rapporti e la vicenda in esame” <100.
Licio Gelli fu condannato nel 1995 con sentenza definitiva per calunnia aggravata dalla finalità di terrorismo per aver tentato di depistare le indagini sulla strage di Bologna del 1980, vicenda per cui è stato condannato a 10 anni, e per bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano (12 anni), in un affare che comprendeva Michele Sindona, mafiosi ed altri massoni.
La linea della fermezza è stata successivamente criticata, soprattutto in quei casi di sequestro di cittadini italiani per cui invece non è stata adottata. Allora, però, quella scelta fu sostanzialmente accettata da gran parte della società italiana, attraversata, durante i 45 giorni di sequestro, da una diffusa reazione morale contro il terrorismo che preparò un progressivo isolamento delle Brigate Rosse e altri gruppi analoghi. <101
Contrari alla linea della fermezza erano la famiglia e gli amici stretti del rapito, intellettuali cattolici come Mario Agnes, due storici dirigenti del Pci come Umberto Terracini e Lucio Lombardo Radice, Fanfani e il Presidente della Repubblica Leone per i democristiani e Craxi per i socialisti. In particolare, Craxi riteneva che lo Stato democratico godesse dell’appoggio convinto della popolazione e che un atto umanitario, come lo scambio di prigionieri, non avrebbe indebolito la democrazia, ma l’avrebbe rafforzata. Per i comunisti, al contrario, ogni arrendevolezza verso i terroristi li avrebbe incoraggiati ad ulteriori azioni dello stesso genere. <102 Inoltre con lo scambio di prigionieri le BR sarebbero state effettivamente riconosciute come una forza legittima di sinistra, quindi potenzialmente in grado di competere con il Pci in quell’area politica.
I critici della “linea della fermezza” sostengono ancora oggi che il governo avrebbe dovuto trattare con le BR, per poi colpirle con decisione una volta liberato il prigioniero.
È generalmente riconosciuto che la crisi del terrorismo italiano cominciò dall’omicidio di Moro; a posteriori, senza considerare presupposti morali, la linea della fermezza raggiunse il suo obiettivo: le BR, profondamente indebolitesi dopo l’omicidio di Moro, furono progressivamente sconfitte nel corso degli anni ’80.
Per fronteggiare la minaccia, fu approvata una legge che permetteva una notevole riduzione della pena ai “pentiti”, in cambio della loro collaborazione, e fu nominato a comandare l’offensiva antiterroristica il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel 1980 uno dei membri di maggior spicco delle BR, Patrizio Peci, dopo essere stato arrestato decise di collaborare con Dalla Chiesa; altri seguirono il suo esempio, contribuendo così a smantellare le colonne BR.
Come anticipato nel paragrafo precedente, Moro scrisse molti documenti durante la sua prigionia, sebbene la loro “validità morale” rimane controversa. La posizione che emerge dalle lettere a Cossiga e a Zaccagnini è che la salvezza dello Stato avrebbe potuto essere messa a repentaglio dalle cose che Moro sapeva e che avrebbe potuto rivelare ai terroristi di fronte a minacce di tortura <103. Particolarmente toccante è una delle lettere a Zaccagnini, dove Moro, esprimendo il suo dolore di fronte all’idea di perdere la sua famiglia, si scaglia contro i vertici della Dc: “Vi sono certamente problemi per il paese che io non voglio disconoscere, ma che possono trovare una soluzione equilibrata anche in termini di sicurezza, rispettando però quella ispirazione umanitaria, cristiana e democratica, alla quale si sono dimostrati sensibili Stati civilissimi in circostanze analoghe di fronte al problema della salvaguardia della vita umana
innocente. Infatti, di fronte a quelli del Paese ci sono problemi riguardanti la mia famiglia. Di questi problemi, terribili e angosciosi, non credo vi possiate liberare, anche di fronte alla Storia, con la facilità, con l’indifferenza, con il cinismo che avete manifestato nel corso di questi quaranta giorni di terribili sofferenze […] Possibile che siate tutti d’accordo nel volere la mia morte per una presunta ragion di Stato…? […] Lo dico chiaro: per parte mia non giustificherò nessuno. […] Pensaci soprattutto tu, Zaccagnini, massimo responsabile. Ricorda in questo momento… la tua straordinaria insistenza per avermi Presidente del Consiglio Nazionale, per avermi partecipe e corresponsabile nella fase nuova che si apriva e che si profilava difficilissima. Ricordi la mia fortissima resistenza, soprattutto per le ragioni di famiglia a tutti note. Poi mi piegai, come sempre, alla volontà del partito. Ed eccomi qui sul punto di morire, per averti detto sì. Tu hai dunque una responsabilità personalissima. Il tuo sì o il tuo no sono decisivi. Ma sai pure che se mi togli alla mia famiglia, l’hai voluto due volte. Questo peso non te lo scrollerai di dosso più” <104.
Il governo provò in tutti i modi a svalutare le lettere di Moro: il 4 aprile Andreotti definì le lettere di Moro “non moralmente autentiche”, mentre la nota che accompagna la lettera a Zaccagnini sul “Popolo” dichiarò che “la missiva non è moralmente a lui ascrivibile date le condizioni di assoluta coercizione nella quale simili documenti vengono scritti”. <105
È importante considerare che le lettere di Moro dovevano superare la censura delle Br, la quale interveniva sia sulla distribuzione delle lettere sia sulla loro composizione. A tale censura si aggiunse il tentativo di Moro di aggirarla, facendo uso di riferimenti impliciti e messaggi criptici.
Nella vicenda Moro si possono trovare vari problemi di filosofia morale e politica. In primo luogo, riguardo il terrorismo, ci si può chiedere se sia legittima una trattativa con i terroristi al fine di salvare ostaggi. In secondo luogo, riguardo la segretezza, se Moro fosse stato a rischio di divulgare segreti il cui disvelamento avrebbe potuto danneggiare lo Stato (e plausibilmente si trattava di informazioni riservate su vicende oscure della storia italiana di quegli anni), ci si potrebbe chiedere se sia giusto che ci siano segreti di Stato che sfuggano al controllo democratico dei cittadini, e che, ammesso che sia giusto mantenere il segreto, se informazioni del genere possano avere un valore tale da giustificare il sacrificio di vite umane. <106
Inoltre, ci si può chiedere se i diritti o doveri di un politico sono distinti rispetto a quelli dei cittadini e se la vita di Moro fosse una questione privata, dell’individuo (padre di famiglia, marito, collega) o una questione pubblica, perché Moro era un rappresentante dello Stato italiano e non poteva smettere di esserlo. <107
[NOTE]
91 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino 2006, p. 512
92 Ibid. p.513
93 Ibid. p.516
94 Sequestro Moro, Comunicato Br n. 1, in Dossier Brigate rosse 1976-1978 p. 293
95 A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, Laterza, Roma 2016, p 96
96 G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia contemporanea, Laterza, Roma, 2018, p.346
97 A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani, Laterza, Roma, 2016, p. 96
98 Ibid. p.97
99 T. Anselmi, Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2, Roma 11 luglio 1984, p.87
100 Ibid. p.104
101 A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino, Bologna, 2009, p. 39
102 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 2006, p. 518
103 Gianfranco Pellegrino, Etica pubblica, Luiss University Press, Roma 2015
104 Aldo Moro, Lettera al segretario della Dc Benigno Zaccagnini, Roma 20 aprile 1978, fogli 1,2,3,8,9
105 G. Pellegrino, Etica pubblica, Luiss University Press, Roma 2015
106 Ibid.
107 Ibid.
Simone Bellomo, Crisi e governi di unità nazionale nella storia d’Italia, Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2020-2021