L’altra Resistenza

Fonte: Schiavi di Hitler cit. infra

Il tempo è una voragine, anzi un buco nero che ingoia la storia: se miriamo al futuro dobbiamo bloccare la storia prima che giunga al punto di non ritorno!
Le storie scritte dai vincitori o dai vinti si contraddicono sempre, ma concordano nel disprezzo dei prigionieri, testimoni scomodi di verità imbarazzanti. Un soldato è mandato in guerra per vincere o morire da eroe, non per arrendersi e le disfatte vengono di solito imputate ai soldati, accusati di codardia e diserzione, mentre si assolvono “quelli delle poltrone”, comandanti e strateghi e non si saprà mai la verità sulle cifre e il trattamento dei prigionieri. Per non incoraggiare diserzioni, vale la regola che i prigionieri in mano nemica ”non devono star bene”, perciò i belligeranti non sollecitano mai troppo l’invio dei pacchi da casa, l’assistenza della Croce Rossa, il rimpatrio dei prigionieri e glissano, come il nemico, sulle Convenzioni di Ginevra, ma non è facile calcare la mano sulla sofferenza dei prigionieri senza angustiare le famiglie e dar corda ai disfattisti!
Come da copione, le nostre autorità accolsero in patria i prigionieri di Adua con un < Dovevate morire! >, quelli di Caporetto con 200.000 processi e persino gli IMI, che pur non erano prigionieri ma “volontari” nei Lager per lealtà, con un offensivo < Ma chi ve l’ha fatto fare? >. Stalin non perdonava i prigionieri e a fine guerra ne deportò, dalla Germania in Siberia, tre milioni dell’Armata Rossa appena liberati.
Dall’altra parte, prima della resa dei conti, i nazisti distrussero parte degli archivi dei prigionieri scampati alle distruzioni, ma non fecero in tempo, come ordinato da Himmler, a sterminare i prigionieri perché non testimoniassero i loro crimini!
La nostra resistenza all’estero, sul campo e nei Lager, fu colpevolmente affossata nel dopoguerra dal disinteresse dello Stato italiano e della massa “neutra” dei 16 milioni di “attendisti” del ‘43-‘45, poi dalla “guerra fredda” che dissuadeva dal dir male dei tedeschi e infine dal silenzio dei reduci incompresi e beffati: è una storia dolente, che la gente, i media, l’editoria e la scuola non vollero recepire e ci misero mezzo secolo a riscoprire Cefalonia. E Lero? E l’epopea balcanica dell’invitta ”Garibaldi”? E tante, tante altre storie rimosse che fine hanno fatto?
Ecco alcune voragini della storia degli IMI.
1) – Il calvario e la resistenza degli IMI, vista allora da dentro i reticolati e ora da inquadrare nel mondo di fuori e dei 24 milioni di “schiavi di Hitler”. Purtroppo gli archivi istituzionali italiani e tedeschi, scampati alle distruzioni belliche non volute o volute, troppo spesso sono sconosciuti, lacunosi e inagibili; poi mancò a fine guerra, con memoria fresca e abbondanza di reduci, un’esauriente raccolta delle fonti, con effetto di cancellare fatti e strapazzare la storia in un caos di cifre a spanne, contraddittorie e di contenuto indefinito.
2) – Si parla degli IMI, ma s’ignora che c’erano anche dei nostri KGF, prigionieri senza tutela, coatti in battaglioni lavoratori “ausiliari” al servizio della Wehrmacht, nelle immediate retrovie dei fronti italiano, balcanico e russo. Erano i ”badogliani” resistenti della prima ora, sopraffatti dai tedeschi dopo resistenza nelle Ionie, Egeo, Grecia, Balcani, Roma, ecc. e non assassinati come a Cefalonia. Il loro status era indefinito: rigorosamente separati dagli IMI, erano di fatto KGF magari frammisti agli “ausiliari” volontari e a volte schedati per la propaganda nelle FF.AA. della RSI! Molti, catturati ai fronti e considerati collaboratori dei tedeschi, subirono una seconda prigionia sotto Stalin o sotto Tito!
3) – La sorte dei renitenti e dei ritardatari della “leva Graziani”, inquadrati in ”battaglioni di disciplina” di lavoratori militarizzati della RSI sotto controllo tedesco, impiegati ai fronti, in Italia e poi in Germania ma di fatto KGF e sfregiati con le stellette badogliane, picco e pala, perché ritenuti indegni di fregiarsi dei gladi repubblichini e d’impugnare le armi! Poi, dopo la guerra, saranno ingiustamente reietti da tutti, ”badogliani” per i fascisti e “ragazzi di Salò” per gli antifascisti e dovranno effettuare un secondo servizio militare!
4) – La storia intricata, confusa e lacunosa dei nostri militari sbandati in Grecia e nei Balcani, imboscati, prigionieri o combattenti anche in alternanza, sotto i tedeschi e militanze e prigionie nelle opposte fazioni partigiane nazionaliste e comuniste. Inesplicabilmente si ignora l’epopea della “Garibaldi”, unica divisione regia invitta all’estero e ignorata nella “guerra fredda” per aver combattuto a fianco del comunista Tito, dimenticando che anche gli anglo-americani allora erano alleati del comunista Stalin e che oltre il 60% dei nostri partigiani erano socialcomunisti!
5) – Le seconde prigionie sotto Stalin, di 12.000 KGF dei tedeschi (con oltre 1000 morti!) e di altri 15.000 sotto Tito (con 5000 morti!). Con la caduta del Muro di Berlino, si sono resi accessibili, e tradotti in italiano, gli elenchi dell’ NKVD/KGB dei prigionieri di Stalin, unitamente a uelli dell’ ARMIR, coi dati anagrafici e militari, di cattura e dei Gulag, dei rimpatriati e dei deceduti, e in riordino presso l’UNIRR (Ass. Naz. It. Reduci Russia) e parte, in copia, nel mio “Archivio IMI”. Le cifre e gli elenchi dei prigionieri di Tito si dovrebbero desumere al Min. Difesa, dagli elenchi dei rimpatriati nel 1946/47.
Sono alcuni temi di ricerca, tra i molti, che si potrebbero sviluppare con buona volontà, esplorando un prezioso patrimonio ignorato di milioni di dati, trascurati per ignavia, cattiva volontà, burocrazia e segreto d’ufficio, come ad esempio le 364.000 “schede IMI” della Wehrmacht, scoperte di recente a Berlino, le 120.000 domande d’indennizzo (inutili!) documentate di recente dagli “schiavi di Hitler” viventi all’OIM, le 180.000 “cartes de capture” inoltrate alla Croce Rossa nell’autunno 1943, i fogli matricolari, stati di servizio, interrogatori al rimpatrio, dossier, ecc., degli oltre 700.000 IMI e giacenti presso i Distretti (se non distrutti dopo 50 anni) o depositati all’Archivio di Stato, gli archivi amministrativi e storici del Min. Difesa e Min. Esteri, di “Onorcaduti”, delle Procure Militari, delle Armi, gli archivi delle Associazioni di reduci, (con diari e testimonianze), gli Archivi della RSI (presso Archivio di Stato), della Commissione KZ e delle Pensioni di Guerra e d’Invalidità (Min. Tesoro) e i relativi ricorsi alle Corti dei Conti, le anagrafi comunali, ecc.
Dal 15 settembre 2004 sarà accessibile il fondo “Uff. Informazioni Vaticano per i prtigionieri di guerra 1939-1947”, con 10 milioni di ricerche relative a oltre due milioni di prigionieri e dispersi, soprattutto in Germania e fra cui molti italiani.
E’ una marea di dati da informatizzare, preziosa per statistiche e ricostruzioni degli iter della deportazione, internamento, lavoro, “civilizzazione” opzioni, ecc., soprattutto dei soldati, ovviamente senza far nomi rispettando la privacy.
Più passa il tempo, più si riducono i testimoni validi e ”le carte” e sarà sempre più difficile o impossibile tamponare questi ”buchi neri” della storia!
Salviamo, finché in tempo, quel poco che ancora c’è di salvabile!
Claudio Sommaruga, Storia passata… non macina più!, Schiavi di Hitler

Alessandro Natta vince il concorso per accedere ai corsi universitari della Normale di Pisa (dal 1936 al 1941) ed entra in contatto con studenti e professori molti dei quali saranno tra i più prestigiosi intellettuali del nostro Paese.
Appena laureato, la guerra, il militare a Rodi, il ferimento, la prigionia in Germania a seguito delle vicende posteriori all’otto settembre.
L’esperienza tedesca gli fornirà materiali di riflessione contro il nazifascismo. Il suo contributo è importante e, quando le condizioni politiche glielo consentiranno, pubblica “L’altra Resistenza”. Un debito verso i tanti militari italiani che seppero opporsi ai nazisti e ai fascisti anche dentro il lager rifiutando allettamenti e blandizie.
In verità Natta aveva tentato, quarant’anni prima della pubblicazione de “L’altra Resistenza” [A. Natta, L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, Einaudi, 1996], di sviluppare un ragionamento su codeste problematiche e ne fornisce testimonianza in un suo intervento a Firenze nel maggio 1991: “Ho scritto nel 1954, in vista del decennale della liberazione, un saggio che ebbe la disavventura di essere bocciato per la pubblicazione dalla casa editrice, a cui mi ero rivolto, che era poi quella del mio partito. Non ritengo che quel rifiuto fosse motivato dalle ragioni di opportunità politica, che potevano essere accampate nell’immediato dopoguerra. Si trattava, penso, di una valutazione critica sul libro, che in verità era cosa modesta. Ma oggi sono convinto che l’editore sbagliò, e soprattutto sbagliai io a non insistere, non so se per difetto o per eccesso di presunzione, perché quel lavoro – al di là della tesi di fondo che proponeva: la vicenda degli IMI come episodio della lotta generale contro il nazifascismo – sollecitava una ricerca, uno studio sul processo che spinse i soldati e gli ufficiali prigionieri dell’esercito tedesco, in grandissima maggioranza a una sfida con il Reich tedesco e la Repubblica Sociale” <5.
5 Da atti del convegno internazionale di studi storici su “Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945) fra sterminio e sfruttamento” (Firenze, 23-24 maggio 1991), promosso dalla federazione di Firenze dell’Associazione nazionale ex internati, con la collaborazione dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana e con il patrocinio del Dipartimento di storia dell’Università degli studi di Firenze. Casa Editrice Le Lettere – Firenze
Giuseppe Mauro Torelli (deputato nel 1983), Natta: l’intellettuale, il politico in PAGINE NUOVE DEL PONENTE, n° 2, luglio-agosto 2006

La vicenda che riguarda i carabinieri romani ha inizio il 6 ottobre 1943, giorno in cui viene emesso l’ordine di disarmo dei carabinieri, ordine firmato da Rodolfo Graziani.
[…]
Il viaggio dei carabinieri romani è il viaggio degli ebrei del ghetto di Roma, di quelli toscani e non. È il viaggio dei deportati politici, dei partigiani, di tanti cittadini comuni destinati al sistema concentrazionario nazista.
È il viaggio della disperazione verso la tragedia, è il viaggio in cui si manifestano quegli elementi che conducono e condurranno alla spersonalizzazione di ogni singolo individuo destinato alla crudeltà dei campi di concentramento e di sterminio.
È il viaggio della disumanizzazione in vagoni piombati, pigiati l’uno contro l’altro senza neppure distendere i corpi in una posizione adeguata o comunque sopportabile. È un viaggio verso l’ignoto che, a causa dei bombardamenti e dei transiti interrotti, durerà per giorni e diventerà ogni giorno di più di un calvario per l’angustia dello spazio, l’aria inquinata, l’afa. Ogni tanto le porte dei vagoni vengono aperte per dare sfogo ai loro bisogni lungamente trattenuti tanto che qualcuno dovrà aprire a mo’ di vaso la gavetta o qualche barattolo vuoto se non gettare le mutande al momento in cui si aprono i portelloni.
All’arrivo sono sospinti all’interno del campo recintato da doppio filo spinato, ammassati in fetide baracche prive di pavimento e illuminazione <5.
Così come avvenuto per gli altri deportati anche i carabinieri sono oggetto di un processo di spersonalizzazione a cominciare dal numero di matricola inciso su una piastrina di riconoscimento passando per la perquisizione della propria persona e dei propri effetti, infine erano sottoposti al bagno, alla disinfezione personale e degli abiti, prima di essere assegnati alle baracche <6.
Una volta all’interno del lager la quotidianità è scandita dalla fame, dal freddo, dall’assenza di assistenza sanitaria, dagli appelli che si ripetevano più volte qualora la conta non tornava. Per coloro che erano avviati al lavoro coatto la sveglia era all’alba e una volta effettuato l’appello venivano condotti nei luoghi di impiego (industrie minerarie e pesanti) dove lavoravano dodici ore al giorno per sei giorni, orario che si estendeva fino alle 18 ore in caso di punizioni o di esigenze particolari.
Fin dai primi giorni furono messe in atto manovre, gesti, azioni più o meno minatori affinché anche gli stessi carabinieri così come avvenuto o stava avvenendo per gli altri internati militari, aderissero alle formazioni delle SS tedesche ma la stragrande maggioranza resistette fino all’ultimo e non si lasciò adescare neppure dalle menzogne con le quali cercarono di ingannare non solo l’Arma ma anche i militari nel suo insieme.
Emblematici in questo senso sono le parole di Francesco Gallo catturato dai tedeschi in Dalmazia nel corso di un aspro combattimento, chiuso nel campo di internamento di Dobrata presso Cattaro (Montenegro), il maresciallo si rifiutò sempre di lavorare per i tedeschi e poi di arruolarsi nelle forze germaniche o in quelle della RSI. Egli era solito dire: «Giuramento se ne fa uno solo ed io l’ho già fatto, sono carabiniere ed appartengo all’Arma». Morirà di tifo e alla fine del conflitto mondiale sarà conferita la medaglia alla memoria.
Ancor più eloquente è la lettera che ci ha lasciato il capitano di artiglieria Giuseppe De Toni e che di seguito ne riportiamo alcuni passi:
«[…] Nessuno potrà comprendere, forse, quello che noi abbiamo compreso […] tu non hai sentito e subito il frustino sulla schiena, sul viso […] contro di te non sono stati aizzati i cani, non sei stato azzannato dai cani, tu non hai vissuto in queste baracche, e non per giorni ma per mesi, quarantacinque in sessantaquattro metri quadrati, tu non sai che cosa sia una perquisizione […] che cosa sia la conta. E non è tutto. Tu non hai visto lo spettacolo della deportazione dei civili in Polonia; tu non hai portato alla sepoltura i compagni morti, tu non hai visto i russi, non sai come siano trattati vivi o morti i russi: e noi da di un esercito già alleato […]. Noi non vogliamo restare qui come qualcuno insinua per vigliaccheria quasi imboscati. Siamo tutti ex combattenti, molti decorati, molti volontari […]. Noi non siamo degli attendisti come qualcuno ci chiama: noi non siamo qui per la speranza di una vittoria russa ed angloamericana […]. Noi siamo uomini, vogliamo essere uomini, e non siamo degli illusi, perché noi abbiamo visto, abbiamo vissuto un’esperienza che voi non avete […]» <7.
La vita degli internati non fu solo disgrazia e miseria ma anche strenua lotta per resistere alla sopraffazione fisica, psicologica e morale. Un ruolo importante lo giocò la fede religiosa ma anche le numerose iniziative culturali e ricreative che fiorirono, anche grazie alla presenza di alcune tra le migliori menti dell’intellighenzia e delle arti del tempo o del dopoguerra, che tennero conferenze e lezioni ed animarono le discussioni e i dibattiti politico – ideologici.
5 A.M. Casavola, 7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti, Roma, Studium, 2008, pp. 36-37.
6 Avagliano M., Palmieri M., Breve storia dell’internamento militare italiano. Dati, fatti e considerazioni, p. 38.
7 A.M. Casavola, 7 ottobre 1943, op. cit, pp. 64-65.
Filippo Mazzoni, 7 Ottobre 1943: la deportazione dei carabinieri romani, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Pistoia

Gli internati vengono rinchiusi nei Lager con scarsa assistenza e senza controlli igienici e sanitari, e a differenza dei prigionieri di guerra sono privi di tutele internazionali e sono obbligati arbitrariamente e unilateralmente al lavoro forzato.
Gli Internati Militari Italiani arrivano nel primo Lager di inserimento e qui vengono schedati e fotografati, inoltre viene loro assegnato un numero di prigioniero e la piastrina di metallo con lo stesso inciso. La cosiddetta Personalkarte contiene oltre ai dati anagrafici e alle impronte digitali, anche le informazioni sulle attitudini professionali, eventuali conoscenze linguistiche, ma soprattutto gli Arbeitskommando a cui vengono assegnati ed eventuali
malattie o infortuni <1.
La collocazione nei campi è generalmente in baracche sovraffollate, senza riscaldamento e senza igiene. Non sono rari i racconti di IMI che ci parlano del freddo (in inverno le temperature scendevano di molto sotto lo zero), dell’acqua che piove dentro, dei topi e dei pidocchi o delle pulci. Alcuni alloggi non hanno nemmeno la pavimentazione, ma terra battuta e è scontato sottolineare che i pagliericci, quando sono presenti, risultano assolutamente indecorosi, pieni di pulci e sporcizia perché molte volte utilizzati da altri prigionieri.
Solo con molta difficoltà si possono soddisfare le esigenze igieniche di base. In alcuni diari si parla di pochi grammi di sapone per lavarsi e per i vestiti, che nella maggior parte dei casi (per non dire nella totalità) non vengono mai cambiati in due anni.
La scarsità di indumenti e la loro inadeguatezza sono un altro serio problema per gli IMI: il pessimo abbigliamento influisce direttamente sullo stato di salute (basti pensare a coloro che vengono impiegati nella siderurgia dove spesso le ferite ai piedi sono dovute alla mancanza di scarpe adeguate; oppure nelle miniere). Questa situazione causa anche un aumento delle malattie, soprattutto durante i periodi freddi e in particolare per coloro che vengono inviati
a lavori all’aperto.
Nell’Archivio dell’ufficio del lavoro di Goslar, succursale Zellerfeld in data 19 ottobre 1944 si legge: «Gli indumenti degli italiani non sono adatti alle condizioni dell’Harz, tanto più che essi non ricevono nuovi capi di vestiario in cambio di quelli vecchi e logori. Nell’Oberharz, poi, l’impiego degli italiani appare inopportuno a causa del tempo. Non sono abituati al clima rigido di qui e soprattutto patiscono oltre misura le continue piogge».
Sempre nello stesso archivio: «In gennaio indumenti e calzature erano in pessime condizioni e molto logori. Ad aggravare la situazione c’era poi il fatto che gli IMI avevano venduto, barattato o si erano rubati a vicenda non solo scarpe in buono stato e biancheria intima, ma perfino l’ultima camicia» <2.
Altro problema grave è la fame: si scrive costantemente nei diari che cosa si mangia, è un pensiero fisso che diventa quasi un’ossessione.
Giorno e notte i prigionieri sono perseguitati dalla fame, si parla e si scrive di cibo, a volte si creano ricette o si viaggia con la fantasia ai manicaretti che preparava la mamma e la moglie quando era a casa. Nella prima fase della prigionia l’Internato è ancora attivo: cerca di barattare oggetti o vestiario in cambio di fagioli, pane o qualsiasi altra cosa commestibile.
Nel periodo in cui la fame diventa più grande, si cerca anche del cibo tra gli scarti della cucina del campo.
In questo stato domina ovviamente un’avidità sfrenata, ma anche la voglia di combattere per rientrare a casa, nonostante la situazione barbara e primitiva della vita nel campo.
Il cibo è l’arma più usata dai tedeschi per ricattare gli italiani e fare leva sulle adesioni.
A Beniaminowo è stato coniato il motto di coloro che resistono alle lusinghe degli aguzzini: “magri ma sani”.
1. Vedi: E. Kosthorst, B. Walter, Konzentrations und Strafgefangenenlager im Dritten Reich, vol. III, Droste Verlag 1983.
2. Rapporto sui militari italiani internati (squadra di lavoro 6024) impiegati presso la Volkswagen, Rothenfelde–Wolfsburg, gennaio–febbraio 1944.
Silvia Pascale, Sono rimasto nel Lager. Diario di Gastone Petraglia, Introduzione di Orlando Materassi. Con contributi di Luana Collacchioni Giorgio Petraglia Francesca Piaser, Aracne editrice, 2020

Il rimpatrio fu lungo e la prima sosta avveniva a Mittenwald, Innsbruck, Linz, dove gli ex Imi furono fermati perché la Croce Rossa americana volle sottoporli a visita medica. Poi avvenne il superamento del confine e vi fu un altro momento di felicità: “Non posso descrivere le scene quando siamo giunti al Brennero; ho visto scendere dai vagoni, dalle tradotte tutti un po’ malconci; siamo scesi tutti ad abbracciarci, a piangere, perché eravamo tornati in Italia dopo anni di prigionia e di guerra” <169.
A Bolzano un altoparlante diede il benvenuto ai rimpatriati e i contatti furono di grande sollievo, anche se non tutti percepirono il calore dell’accoglienza ricevuta.
Su iniziativa del CLN, vennero distribuiti generi alimentari e grazie anche alle istituzioni ecclesiastiche vi fu una serie di interventi a sostegno degli ex internati. I più bisognosi ricevettero vestiti e denaro. A Pescantina, nei pressi di Verona, i rimpatriati dovettero organizzarsi a seconda delle località di destinazione.
Da lì l’opera Pontificia provvide a smistarli in tutta l’Italia settentrionale.
Al loro rientro i rimpatriati trovarono il clima politico mutato, a causa soprattutto del rafforzamento delle sinistre e delle forze di ispirazione comunista, ma molti avevano idee monarchico-conservatrici, cosa che non favorì la loro integrazione sociale.
Non pochi avvertirono le sensazioni di esclusione e isolamento, scoprendo che molti dei compagni erano periti e anche il cattivo stato di salute influì pesantemente sul loro stato d’animo. Nel reinserimento nella vita lavorativa, gli ex internati si sentirono abbandonati a causa della disoccupazione, in quanto erano guardati con sospetto e timore dai datori di lavoro che temevano che fossero affetti da tubercolosi.
Al contrario, le formazioni partigiane godevano di un certo prestigio in qualche modo paragonabile a quello dei reduci della Prima guerra mondiale.
I reduci reagirono con rabbia nel vedere i privilegi accordati agli ex partigiani, tanto che manifestarono nell’agosto del 1945 a Venezia e a Torino, reclamando aiuti finanziari e materiali. D’altronde anche all’interno dei partiti antifascisti vi furono posizioni diverse verso gli ex deportati: alcuni li considerarono combattenti al servizio dei fascisti, collaborazionisti, sostenuti in questo anche dagli ex Alleati, i quali procedettero ad una classificazione tra gli ex prigionieri di guerra, detenuti nei campi di concentramento e i lavoratori stranieri. I militari internati furono classificati come ex alleati del nemico, con conseguenza negativa in relazione al versamento della paga arretrata. Le discussioni culminarono il 31 dicembre 1944 quando venne deciso che l’impiego degli IMI era avvenuto su base volontaria.
Il Consiglio dei ministri, del febbraio del 1946, sotto il governo Parri, fissò al 1 settembre 1944 la data che avrebbe diviso il periodo di lavoro coatto, in base al cambiamento di status, collocando gli ex internati sullo stesso piano di chi aveva scelto di far parte delle SS. Il Ministero della Guerra in particolare volle escludere i “collaborazionisti” delle SS o reparti della Repubblica sociale italiana <170.
In seguito nell’ottobre del 1946 la Commissione interministeriale competente promise una correzione, includendo nella categoria degli aventi diritto soldati e sottoufficiali, esclusi precedentemente da ogni pagamento in quanto erano stato avviati al lavoro coatto come prigionieri di guerra, obbligo che non aveva riguardato gli ufficiali.
Così gli internati, da felici di essere ritornati a casa, si sentirono esclusi e guardati con sospetto, senza ricevere alcun aiuto da parte del governo, che li trattava come se fossero stati collaborazionisti dei nazifascisti. Persino negli anni a seguire la «legge federale per il risarcimento delle vittime della persecuzione nazionalsocialista» approvata nel giugno del 1956, escluse da qualsiasi pagamento i lavoratori coatti <171.
Un accordo con la Repubblica federale tedesca, stipulato il 2 giugno 1961, prospettò il pagamento di una somma a titolo di indennizzo a gruppi di persone che avevano sofferto sotto il nazismo. Con la legge del 6 ottobre 1963 furono distribuiti 40 milioni di marchi per ebrei, partigiani, membri dei partiti messi fuori legge e perseguitati, e manodopera civile, tutti schiavizzati dai tedeschi.
Nel 1986 il Parlamento europeo adottò una risoluzione con cui sollecitava le industrie tedesche a risarcire gli ex lavoratori coatti.
Infine, nel maggio del 1996 la Corte costituzionale federale spianò la strada ad un inversione di rotta: i giudici sostennero la tesi che il diritto internazionale non escludeva per gli ex lavoratori coatti di procedere attraverso vie legali contro le ditte tedesche.
Nel febbraio 1999 fu creata la fondazione «Memoria, Responsabilità e Futuro» <172 che, nel dicembre dello stesso anno, giunse ad un accordo per stanziare una somma di dieci miliardi di marchi, a carico sia dello stato che delle imprese, per i sopravvissuti, ormai anziani e che avevano molte necessità materiali. Iniziò la sua attività nel 2000 e iniziò i pagamenti, dai quali però continuarono a rimanere esclusi i prigionieri di guerra.
Purtroppo agli ex IMI non è stato previsto sin’ora nessun risarcimento, in quanto considerati lavoratori civili.
169 Hammermann, Gli Internati militari italiani, p. 343.
170 Hammermann, Gli Internati militari italiani, p. 351.
171 Hammermann, Gli Internati militari italiani, cit. p. 353.
172 Ibidem, cit. p. 354
Edoardo Camatini, Prigionieri italiani dei nazisti dopo l’8 settembre 1943, Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, 2015