Ci chiamavano Libertà

Donatella Alfonso, Ci chiamavano Libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, Genova, De Ferrari
Nel tempo della postmemoria, il libro dimostra che è ancora possibile ascoltare la voce dei protagonisti della lotta di liberazione. L’a., recuperando le testimoni della Resistenza ligure, ci consegna un racconto corale di donne. Nelle storie, brevi tranches de vie, prevale la dimensione soggettiva e l’autorappresentazione, ambiti che storiche e storici in questi ultimi trent’anni hanno frequentato con profitto, alimentando con rinnovata complessità la storiografia sulla guerra e sulla Resistenza.
Di particolare interesse, nell’esperienza delle donne, è l’adesione all’antifascismo e la volontà di misurarsi con la sfera pubblica dell’Italia repubblicana. L’a. esalta la soggettività femminile con la forza del racconto orale e del vissuto individuale e fa emergere le ragioni della coscienza nell’agire quotidiano delle giovani, qualificando la scelta antifascista. La consapevolezza politica delle protagoniste, rileva Lidia Menapace nella prefazione, è evidenziata negli «spazi quotidiani, mescolati, tra le case», nella clandestinità con «astuzie e mascheramenti specifici che resero l’intero territorio politicizzato» (p. 9). Un agire politico che solo all’indomani della Liberazione, scrive l’a., quando molte passeranno alla militanza politica, condurrà alla piena consapevolezza delle fatiche e della distanza che ancora le separava dall’emancipazione. Nelle campagne, e soprattutto nelle fabbriche, «la coscienza di classe cresce di pari passo con l’odio verso il fascismo e la necessità di far finire la guerra» (p. 31), mentre la povertà spingeva alla rivolta. Da qui alla lotta armata il cammino era tutt’altro che lineare. Le donne non erano accettate facilmente sui monti a causa di pregiudizi maschili, che le volevano attente solo alle mansioni di «cura» e «collegamento». Ma «avere un’arma in mano» (p. 47) aveva un significato simbolico speciale, decisivo per il pari riconoscimento con i maschi. I pregiudizi degli uomini alimentarono la memoria taciuta e persistettero dopo la Liberazione, spingendo molte ad abbandonare la militanza politica: delusioni e autolimitazioni nell’agire si trovano riflessi in molti racconti di vita, nella maggior parte dei casi celati nella narrazione di sé. Non per M.G. Pighetti (cristiana e anarchica): «E se c’è ancora tanto cammino da fare per le donne, non dimentichiamo che c’è la rabbia dei maschi, che non accettano di essere messi in un ruolo inferiore o che le donne scelgano per sé. Per questo c’è tanta violenza, perversione, schiavitù persino. D’altronde forse nemmeno quelli che conoscono un poeta raffinato come Novalis ricordano che scriveva, rivolgendosi alla fidanzata diciottenne morta: Sono contento che tu sia morta perché ora sei veramente mia”. E le cose non son cambiate, quante donne vengono uccise perché gli uomini dicono “tu mi fai rimanere solo, ma tu sei solo mia?”» (p. 123).
Marco Minardi, Il mestiere di storico, Rivista della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea, V/1, 2013

«Questa storia comincia quasi ottant’anni fa e, per fortuna, dura ancora. È la storia delle ragazze e delle donne che, nei venti mesi della guerra di Liberazione o anche prima, decisero da che parte stare: contro il fascismo, l’oppressione, la mancanza di libertà e di futuro. E contro un costume, una morale che le voleva obbedienti e sempre un passo indietro, senza diritto di scegliere: la propria vita, un lavoro, un’opinione politica. Le partigiane e le resistenti, semplicemente, scelsero. Di essere protagoniste della propria vita. Una scelta che le ha segnate anche in tutte le svolte future della propria esistenza. E che ha segnato fortemente la crescita e l’emancipazione delle donne in Italia. Il mio viaggio alla scoperta – è il caso di dirlo – delle partigiane liguri, iniziato nel 2012 con la prima edizione di questo libro, è proseguito nel decennio successivo, fino alle videointerviste del progetto “Noi Partigiani”. Molte, oggi, se ne sono andate. Ma le loro parole, i loro ricordi, le amarezze e i sorrisi fanno ormai parte integrante di un patrimonio che non possiamo permetterci di far svanire insieme all’ineluttabilità del tempo. Vorrei che tutti potessimo ancora a lungo poter ridere insieme a loro, con la leggerezza dei vent’anni».
Donatella Alfonso, Descrizione del suo libro Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945, Editore De Ferrari, Genova, 2022

Incontrare queste donne è stato come percorrere il Novecento dalla parte delle donne. Vanda “la figlia del sovversivo”, così come Zenech Marani che dopo la guerra porta in fabbrica la necessità di tenere sempre la schiena dritta, Maria Grazia Pighetti che unisce il profondo sentimento cristiano alla necessità di una grande libertà intellettuale, Rosalda Panigo, la decana di tutte con la sua data di nascita nel 1915 e la certezza, già nel 1934, che “non eravamo cretine, perciò perché non potevamo votare?”. E ancora Gilda Piana che la sua lotta partigiana l’ha fatta “per amore di Pippo”, mentre Albertina Maranzana, allora studentessa di medicina, diventa poi la pediatra che sarà sempre dalla parte delle madri operaie; Carla Ferro che mette in scena una commedia “per la Croce Rossa” e invece raccoglie soldi per i partigiani anche dalle tasche di fascisti e nazisti, Mina Garibaldi che percorre la Riviera di ponente in bici, Mariuccia Fava che sale sui monti del Savonese perché sì, voleva sparare. E tocca a lei dover annunciare al figlio di Clelia Corradini, a sua volta giovanissimo combattente, che la madre è stata fucilata a Vado…
Testimonianze di prima mano, ma anche il doveroso ricordo di chi ha combattuto quella guerra silenziosa, taciuta, che è stata la Resistenza delle donne, il loro modo di dare una spallata fortissima al fascismo, sia dividendo il poco cibo che regalando un abito smesso, oltre che portare documenti e armi, quando non impugnandole direttamente.
Una guerra che è stata troppo poco ricordata e considerata, in Liguria forse più che altrove. Forse perché il riserbo insito nel dna dei liguri ha fatto la sua parte, ma anche perché è esistito un processo di innegabile rimozione della partecipazione femminile alla lotta partigiana, tranne in pochi casi, anche in una regione che peraltro ha sempre conservato una fortissima identità antifascista, anche con la prevalenza strica dei partiti della sinistra. Non è un caso che molte di queste donne raccontino di aver “ripreso il loro posto”, partecipando alla vita politica e alle attività dell’Anpi, ad esempio, in età avanzata, concluso il lungo periodo delle incombenze familiari. Ma è vero che la Resistenza, per tutte loro, è stata il confine che porta all’autodeterminazione, alla scelta di sapere da che parte stare, e perché: “Aver condiviso quest’esperienza significa aver deciso di non accettare l’ingiustizia, fosse anche in una riunione di condominio” spiega Carla Ferro.
E nella sua introduzione Lidia Menapace, staffetta partigiana, docente universitaria, senatrice e appassionata protagonista della vita e della politica ancora oggi, a 86 anni, segnala un fatto mai ricordato abbastanza: che è grazie alla esigua pattuglia delle donne costituenti che nella Carta fondatrice della Repubblica c’è l’articolo 3, riferito all’uguaglianza, proposto e sostenuto proprio dalle deputate.
A queste migliaia di donne che hanno combattuto la “loro” guerra, e che non hanno mai smesso di farlo, dobbiamo imparare a dire grazie. Io so che da queste “ragazze” che ho incontrato, ho imparato una delle più appassionanti lezioni della mia vita.
Donatella Alfonso