Dopo la tornata elettorale del ’75 era arrivato per Moro il momento di affrontare il nodo politico del rapporto con il Pci

Ciò che il fallimento del referendum abrogativo del 1974 aveva messo in evidenza era non tanto il tentativo mancato da parte della dirigenza della Dc di rafforzare il partito, quanto la minaccia che mirava alla sua centralità. Il partito non aveva saputo mediare fra le istanze del mondo laico e del mondo cattolico: aveva dimostrato di non saper più svolgere quella funzione di sintesi cui aveva assolto nella fase precedente della storia repubblicana <35. Fu in questa situazione, nel quadro di una pesante crisi economica e sotto l’incalzante minaccia del terrorismo, che si sviluppò la strategia di Moro riassunta nella efficace formula della “terza fase” <36. Come si evidenzia nell’intervista rilasciata dal segretario della Dc a Eugenio Scalfari <37, la “terza fase” doveva essere divisa in due tempi: il primo consisteva nella realizzazione di una solidarietà tra tutte le forze democratiche, con la reciproca legittimazione dei due partiti maggiori; il secondo tempo era quello della stabilizzazione di una democrazia dell’alternanza, anche se, come sottolinea Scoppola, «questo era solo un barlume di speranza, un’ipotesi di tipo culturale più che politico» <38. Dopo la tornata elettorale del ’75 era arrivato per Moro il momento di affrontare il nodo politico del rapporto con il Pci: riprendendo le riflessioni che già nel 1969 aveva iniziato formulando la «strategia dell’attenzione», parlava ora dell’indispensabilità di «un confronto non superficiale, né formale, con la massima forza di opposizione, sul contenuto del programma [di governo] e sulla situazione politica» <39. Anche per Berlinguer, forte della fiducia ottenuta dal partito alle amministrative del 1975 e ancora più rafforzato dal processo di secolarizzazione che stava investendo l’Italia in quegli anni, di cui la vittoria del ‘no’ al referendum fu una prova inconfutabile, sembrava giunto il momento di iniziare a parlare chiaramente di questo dialogo tra i due partiti. Per scavalcare il recinto di accesso al governo i comunisti avrebbero dovuto sciogliere il loro legame con Mosca e rinnegare il leninismo. Berlinguer non era ancora in grado di affrontare questa radicale trasformazione ideologica, politica e culturale, nonostante fosse stato fautore di un allontanamento dalla casa madre che aveva portato alla nascita di un polo comunista alternativo a quello sovietico e guidato appunto dal suo partito, portavoce di un comunismo democratico compatibile con le democrazie occidentali <40. Berlinguer era convinto che l’Italia dovesse fare tesoro della sua esperienza passata, quando, nel periodo 1944-45, i partiti antifascisti avevano cooperato per consentire il risorgimento della nazione, malgrado i diversi e opposti orientamenti politici. Questa esperienza andava ripetuta dopo trent’anni per superare la frase critica in cui la nazione transitava, sbandata dalla crisi economica e dalla minaccia terrorista sempre alle porte. Spettava quindi ai partiti farsi carico della responsabilità di ricerca di un accordo dall’alto per comporre i conflitti che i cittadini lasciati a se stessi non apparivano in grado di regolare <41. Questo pensiero del segretario comunista si era già ampiamente rafforzato due anni prima quando, nel 1973, in Cile i militari guidati dal generale Augusto Pinochet avevano
rovesciato con un colpo di stato il governo socialista di Salvador Allende, instaurando una dittatura. Berlinguer non aveva dubbi che quella del “compromesso” fosse l’unica strada da intraprendere, e lo dimostrò nello stesso 1975 quando la corrente socialista di Riccardo Lombardi gli propose una collaborazione alternativa a quella con la Dc, ossia con il Psi. Questi, infatti, era uscito dalle elezioni del 1975 con un 11,8%, che, sommato ai voti del Pci, avrebbe consentito di raggiungere il 45,3%, una percentuale mai conquistata da socialisti e comunisti insieme. Berlinguer rifiutò l’offerta nella convinzione che Moro condividesse il ragionamento di fondo alla base del dialogo tra i partiti: la democrazia italiana era una democrazia debole, bisognosa della cura attenta da parte dei due partiti che insieme rappresentavano più del 70% dei cittadinielettori <42.
La principale differenza tra il pensiero di Moro e quello di Berlinguer risiedeva, tuttavia, proprio nel carattere specifico della “solidarietà nazionale”: la sua durata, o meglio, il fatto che per Moro l’accordo fosse destinato ad avere una durata limitata nel tempo, in quanto il fine ultimo sarebbe stato quello di arrivare ad un’alternanza politica.
L’accordo tra i due leader di partito rimase accuratamente taciuto durante la campagna elettorale per le politiche del ’76: i comunisti dipinsero la Dc come il ricettacolo di tutti i vizi politici, i democristiani rievocarono il fantasma della dittatura comunista. Il 20 giugno 1976, quando gli italiani furono chiamati alle urne per il rinnovo dei due rami del Parlamento, i risultati delle votazioni attestarono una ripresa della Democrazia cristiana, arrivata al 38,7% a dimostrazione dell’arresto della spirale negativa in cui era caduto il partito l’anno precedente. Sorpresa ancor più grande fu il mancato “sorpasso” del Pci sul partito di maggioranza, nonostante i pochi punti percentuali tra le due forze. Il Pci infatti raggiunse il 34,4%, maturando il miglior risultato della sua storia. Una volte chiuse le urne, il problema di formare un governo sembrò insolubile <43: dalle votazioni risultavano indeboliti i partiti del centro laico, il Psi, terzo partito italiano con uno scarto sul Pci di 24,7 punti percentuali, e il Pli che era sceso ancora rispetto alle politiche del ’72, raggiungendo un misero 1,3%.
Le opzioni confluirono in un’unica soluzione, la formazione del terzo governo Andreotti, un monocolore democristiano passato alla storia come il governo della “non sfiducia”: una formula ambigua dietro la quale si affacciava il compromesso storico con il Pci. L’espressione fu coniata dallo stesso Andreotti quando, il 4 agosto, presentò il governo alle Camere: «Ho pertanto proposto al Capo dello Stato la nomina dei ministri che oggi con me si presentano per ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia del Senato e della Camera dei deputati» <44.
La coalizione di solidarietà nazionale fondata sull’astensione di comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani, sarebbe rimasta in piedi per un anno e mezzo durante i quali il governo Andreotti avrebbe operato di concerto con il Pci, nonostante le riserve nutrite da un’ampia frangia della Democrazia cristiana. Per le correnti di destra e di centro, e per lo stesso Andreotti, infatti l’intesa con Berlinguer proposta da Moro aveva una funzione più che altro strumentale: il Pci era l’anello di congiunzione con il centro sindacale della Cgil, indispensabile per l’approvazione di provvedimenti impopolari necessari per porre ordine ai conti pubblici del paese. Per Berlinguer la nuova formula di governo avrebbe dovuto avere un carattere provvisorio: un preludio all’entrata vera e propria del Pci all’interno della maggioranza, con la nomina di esponenti del Partito comunista ad alcune delle cariche ministeriali alla guida del paese.
Proprio quando il Pci decise di alzare la posta in gioco, mettendo in crisi il terzo governo Andreotti nel 1977 il paese venne invaso da una nuova ondata di protesta. Questa volta, i moti del Settantasette provenivano da gruppi di studenti che vedevano nelle loro carriere universitarie non una transizione verso il mondo del lavoro, ma una situazione di blocco dovuta all’incertezza del paese in campo di occupazione e lavoro. Le università di Roma, Bologna e Padova diverranno nuovamente scenari di guerriglia e manifestazioni, vasche dove nuotavano i pesci delle Br, di Prima linea, dei Comitati dei comunisti combattenti che negli studenti trovavano appoggi e consensi <45.
Questa volta, l’avversione dei cittadini era contro l’intera partitocrazia, nessuna forza esclusa, neanche il Pci che con il compromesso con la Dc aveva segnato la sua condanna a partito omologatosi alle altre forze politiche, ed era per questo stato accusato di tradimento da chi pochi anni prima aveva visto in esso una via alternativa ai centri di potere che dominavano l’Italia da un ventennio.
[NOTE]
35 P. Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, in G. De Rosa e G. Monina (a cura di), L’Italia repubblicana nella crisi degli anni settanta, sistema politico e istituzioni, , Soveria mannelli, Rubbettino, 2003.
36 Ivi, p.26
37 E. Scalfari, “Quel che Moro mi disse il 18 febbraio”. L’ultima intervista del leader Dc, in «la Repubblica», 14 ottobre 1978.
38 P. Scoppola, Una crisi politica e istituzionale, ivi, cit., p.28.
39 Aldo Moro, Scritti e discorsi, VI, p. 3362, in P. Craveri (a cura di), Storia d’Italia, La Repubblica dal 1958 al 1992, Milano, TEA, 1996.
40 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, cit., p. 117.
41 Ivi, p. 118.
42 Ivi, p. 125.
43 Ivi, p. 127.
44 Discorso programmatico pronunciato da Andreotti alla Camera dei deputati (4 agosto 1972) in occasione della presentazione del III° governo, (http://storia.camera.it/res/pdf/discorsi_parlamentari/alessandro_natta.pdf).
45 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, cit., p. 129.
Francesca Lanzillotta, La svolta degli anni Settanta nelle pagine de «L’Unità» e de «Il Popolo», Tesi di Laurea, Università Luiss “Guido Carli”, Anno accademico 2015-2016