La Valsassina e la Val Varrone diventano zona franca per i partigiani

Partigiani in Val Biandino – Fonte: Enrico Baroncelli, art. cit. infra

[…] Agli inizi del 1944 si forma quindi la 55ª Brigata Fratelli Rosselli, guidata da diversi personaggi, diversi dei quali avevano partecipato anche alla Guerra di Spagna nelle Brigate Repubblicane antifranchiste: Valdo Aldobrandi, commissario politico del PCI; Spartaco Cavallini, un tecnico della Breda proveniente da Sesto San Giovanni, il già citato Piero Losi, proveniente da Genova, Leopoldo Scalcini, detto “Mina”, di Colico (morirà poi a Introbio, tentando di fuggire nella via a lui oggi dedicata), Mario Cerati, Ulisse Guzzi e molti altri.
La loro sede principale era il rifugio Casa Pio XI in Biandino, da cui nacquero altre Brigate operanti in Valtellina. Giordano ricorda la tattica partigiana del “mordi e fuggi”, brevi attacchi a cui far seguire una veloce ritirata. Tra questi l’attacco alla Caserma fascista di Ballabio, e scontri con militi fasciste a Bellano, Dervio, Colico, dove c’erano presidi della Guardia Nazionale Repubblicana.
Molto accese all’interno dei gruppi partigiani erano le discussioni politiche su cosa fare dopo la caduta del Fascismo: non tutti erano comunisti, i quali avrebbero voluto un’Italia social-comunista dopo la Liberazione, molti invece auspicavano un’Italia liberal-democratica e repubblicana.
Poche in realtà le iniziative militari in Valtellina: più che altro i partigiani erano in posizione di “attesa”, controllando il territorio e soprattutto sorvegliavano che non venissero distrutte dai tedeschi le strategiche centrali idroelettriche sull’Adda, indispensabili per le fabbriche ancora funzionanti appunto della Breda, Pirelli, Falck e le altre dell’hinterland milanese, che oltre a ciò avevano il problema dei continui bombardamenti inglesi sulla loro testa, senza contare che i tedeschi stavano seriamente pensando di trasferire tutte le loro attrezzature in Germania, cosa che sarebbe stata un colpo durissimo per l’economia italiana, anche del dopoguerra.
L’11 ottobre del 1944 comincia la rappresaglia tedesca verso la Val Biandino , causata in parte dall’attentato avvenuto a Cremeno contro il gerarca fascista monzese Luigi Gatti, di cui abbiamo già parlato in un precedente articolo, e sembra anche da un colpo di mortaio sparato in realtà un po’ a casaccio contro la Villa Serena di Introbio, sede allora del distaccamento nazista (il colpo cadde vicino a dei bambini che stavano giocando nel cortile, uno dei quali oggi ancora vivo e testimone del fatto).
La rappresaglia fu terribile, come ricordano ancora gli anziani di Introbio: alle Bocche di Biandino i partigiani cercarono di opporre una resistenza, dove morirono Giuseppe Trezza e Guerino Besana (il fratello Carlo venne catturato e fucilato pochi giorni dopo) mentre dalla Val Varrone le brigate Fasciste arrivarono al rifugio Santa Rita, dove furono catturati molti partigiani del distaccamento Croce, poi spediti in Germania nei campi di concentramento, come Igino Manni di Gerola Alta e due Russi, morti in combattimento, di nome Piotr e Nicolaj.
Dalla Casa Pio XI (poi bruciata con i lanciafiamme dai tedeschi, come molti altri rifugi dell’Alta Valle) i partigiani evacuarono sotto il fuoco nemico verso la Capanna Grassi. Altri scontri ci furono a Bobbio e Artavaggio, ai Rifugi Savoia e Castelli.
I reduci allora si recarono in Val Taleggio “nutrendosi unicamente di formaggio Taleggio in via di maturazione nelle baite dell’Alta Valle”, al freddo senza poter accendere fuochi per non segnalare la propria presenza.
Superando una tormenta di neve poi raggiunsero Foppabona, dove poterono riposarsi in una baita.
Dopo qualche giorno però tornarono in Val Biandino, passando dalle bocchette di Trona e dalla Val Gerola.
Quello che non fecero i tedeschi però riuscì a farlo il famoso proclama del generale americano Alexander, il 13 novembre del 1944. In questo proclama il generale dichiarò che la guerra non sarebbe finita entro quell’anno (i tedeschi avevano approntato un’ultima poderosa linea di resistenza sugli Appennini, detta “Linea Gotica”) e invitava quindi i Partigiani a cessare ogni attività durante l’inverno, in attesa della ripresa delle operazioni nella primavera successiva.
Questo provocò molto scoramento tra i partigiani sopravvissuti alle retate nazi-fasciste, che non sapevano più cosa fare. Alcuni tornarono a casa (sperando di non farsi catturare dai fascisti) molti invece presero la via della Svizzera, sperando nel buon cuore degli elvetici, in realtà già molto preoccupati per la presenza di molti antifascisti (ed ebrei) nel loro territorio, cosa che avrebbe potuto causare un attacco tedesco, ma ormai per fortuna la Germania era stremata dopo cinque anni di guerra.
Fu la famosa “ritirata” della Brigata Rosselli, ben descritta dallo storico dell’Anpi di Osnago Gabriele Fontana in un suo libretto di qualche anno fa dedicato appunto a questo ripiegamento in territorio elvetico.
Enrico Baroncelli, Storia e storie della Valsassina: la ritirata della Brigata Rosselli. I partigiani di Biandino e Gerola verso la Svizzera, Valsassinanews, 12 gennaio 2019

[…] Nei primi mesi del ’43 tra gli operai e i ferrovieri lecchesi rinasce il bisogno di farsi “opposizione”: un comitato antifascista viene presto attivato, composto dai fratelli Pasquale e Giuseppe Mauri (socialisti), da Giuseppe Gasparotti (repubblicano), da Leonardo Lanfranconi (azionista), da Gabriele Invernizzi e poi da Vittorio Ravazzoli (comunisti) e da don Giovanni Ticozzi (cattolico).
La guerra imposta dal regime, Africa Grecia Russia, continua ad ammazzare giovani e a far crescere il malcontento che però il 25 luglio 1943, alla deposizione di Mussolini, si traduce solo in colpi di piccone ai simboli fascisti presenti ormai ovunque; ma nei 45 giorni seguenti nulla cambia, la guerra non finisce, la repressione è la stessa e incombe un peggior pericolo che, alla firma dell’armistizio dell’8 settembre, si avvera: l’occupazione tedesca…
Bellagio e Canzo sono occupate già il 9 settembre, l’11 i tedeschi entrano in Lecco.
In città i giovani militari si sono sbandati e hanno lasciato deserte le caserme, facendo però piazza pulita dei materiali e anche delle armi che vengono nascoste al Pian dei Resinelli e ai Piani d’Erna e che serviranno alle prime “formazioni” partigiane.
Per giorni, dalle città della pianura, transitano per Lecco decine e decine di militari che si son dati alla fuga, cercando rifugio in Valsassina o nella più lontana Valtellina, e con loro, anch’essi a decine, russi slavi inglesi americani francesi, fuggiti dai vari campi d’internamento della bergamasca…
Gli uomini, per adesso, passano e scompaiono, aspettando sulle montagne, dove più facile è nascondersi: 120 uomini al Pian dei Resinelli, 130 al Pizzo d’Erna, 140 al sottostante Campo de’ Boi; e poi altri ancora sul monte Legnone, sulle pendici delle Grigne, in Val Varrone…
L’eco dell’eccidio di Boves (Cuneo) arriva anche nel Lecchese e i gruppi sulle montagne capiscono che è l’ora di organizzarsi, politicamente certo, ma anche e soprattutto militarmente: il comando viene affidato ad un ufficiale dell’ex-esercito regio, il colonnello Umberto Morandi che, come prima cosa e seguendo il suo istinto militare, traccia un primo organico delle bande e la loro divisione in settori.
– Settore Lecco: Resinelli (110 uomini), Campo de’ Boi (140), Erna (170).
– Settore Barzio: Introbio, Moggio.
– Settore Brianza.
– Settore Valassina con distaccamento al Pian del Tivano- Gruppo Grigna Occidentale                    Marco Vegetti, La Resistenza sulle montagne lecchesi, Notiziario “Bellaciao” della Sezione ANPI Clerici di Quarto Cagnino (Milano), art. ripubblicato in Enrico Sprea

Per questa posizione geografica e per la vicinanza del confine elvetico, la zona lecchese non poté fare a meno di diventare nella regione “il centro organizzativo del nuovo movimento armato antifascista ed anti-tedesco.”
Diverse sono invece le caratteristiche del triangolo montuoso che si estende fra i due rami del lago di Como, i cui vertici sono dati dal promontorio di Bellagio e dalle estremità su cui sorgono Como e Lecco.
Il centro è attraversato da una valle, chiamata Valsassina, e percorsa dal torrente Lambro, che lo divide in due tronconi: nel troncone orientale, la parte che a noi interessa, vi sono due catene parallele, Cornizzolo – Monte Rai, e Corni di Canzo – Moregallo, poi in un degradare di piccole montagne si arriva alla punta di Bellagio.
Tale zona ha quindi poche possibilità di sbocchi e pertanto non diventerà mai teatro di importanti colpi di mano e azioni di rastrellamento come la Valsassina e le valli laterali, quanto piuttosto una località di sfollamento, per i frequenti e rapidi mezzi di trasporto da Milano e la presenza di esigui presidi nazi-fascisti: ciò permetteva di raggiungere una zona poco sorvegliata del confine elvetico.
Marisa Castagna, La Resistenza politico-militare sulla sponda orientale del Lario e nella Brianza Lecchese, Tesi di Laurea, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Anno Accademico 1974-1975, tesi pubblicata da Associazione Culturale Banlieu

Se da un lato questa visione militare va benissimo, dall’altra il colonnello Morandi vuole anche imporre una gerarchia ed un ordine su tutto, razioni e abbigliamento; e ancora, non vuole che nessun gruppo compia fatti d’arme senza l’autorizzazione del Comando di Lecco.
Prime avvisaglie di dissidi interni che, già ad ottobre, vedranno il gruppo di Erna staccarsi dal Comando lecchese e costituire un gruppo autonomo, il “Carlo Pisacane”…
E, se il gruppo d’Erna è molto eterogeneo, quello dei Resinelli sembra una succursale dei bar di Lecco: tutti amici, tra loro Dell’Oro, quello che alpinisticamente tutti conoscono come il Boga, compagno di Cassin in tante scorribande alpestri. E questo gruppo è anche il più armato, visto che tutto il materiale degli alpini è arrivato quassù: un mortaio da 81 mm. e due da 45, due mitragliatrici pesanti, tre fucili mitragliatori, due mitra, 110 tra fucili e moschetti.
A Erna invece hanno solo 4 mitragliatrici pesanti, 12 fucili, 72 moschetti, 4 mitra e 25 pistole.
E se il primo piccolo rastrellamento tedesco, all’eremo di San Genesio sul Monte di Brianza dove si trovavano qualche decina di sbandati, è quasi uno scherzo, i nazisti, che hanno orecchie ovunque e lasciano che i ribelli facciano qualche piccolo colpo di mano, preparano la vera ondata repressiva…
Il 16 ottobre 1943 una divisione di alpini bavaresi si piazza lungo il lago, da Calolziocorte a Varenna mentre un’altra imponente colonna ha già risalito la Val Brembana; l’obiettivo è chiaro: chiudere tutti gli sbocchi della Valsassina e stringere la rete intorno a tutti coloro che vi si rifugiano.
I gruppi di ribelli, appena possono si disperdono, chi verso il Pizzo dei Tre Signori chi verso la Valtellina chi ancora a ai Piani di Bobbio o a quelli di Artavaggio.
Lo stesso 17 ottobre, in tarda mattinata e dopo aver rastrellato Introbio, i tedeschi si ritrovano in massa a Ballabio: la prossima meta saranno i Resinelli, dove le colonne naziste stanno salendo anche da Balisio, da Mandello, da Abbadia Lariana in modo da circondare completamente le Grigne.
Ma stavolta non troveranno nessuno, visto che i ribelli sono già lontani, più in alto o a nord o, secondo la regola della guerra di guerriglia “quando loro salgono noi scendiamo”, verso la valle attraverso la Val Cololden; il materiale è in gran parte al sicuro, nascosto nella piccionaia di Villa Falk e nessun colpo è stato sparato.
Ben diverse le vicende a Erna, dove il rastrellamento sfocerà in battaglia: il 18 ottobre, i pochi rimasti dei 150 partigiani decide di dar filo da torcere ai tedeschi. Al Campo de’ Boi, al Passo del Fò, alla capanna Stoppani si spara fino a sera: i tedeschi useranno anche mortai da 81 mm. e cannoni da 152 mm. mentre chi riesce si defila verso zone più alte o verso le valli bergamasche.
L’ultimo giorno del rastrellamento, il 20, un gruppo formato in gran parte da slavi, con qualche italiano e altri pochi ex-prigionieri è impegnato in combattimento: si spara fino a sera, fino a quando, grazie al buio imminente ci si può sganciare dal nemico verso Morterone.
Ma i tedeschi hanno impartito la loro lezione, vero scopo dei rastrellamenti: paura, terrore, morte verso chi osa contrastarli e verso chi li aiuta.
A Lecco il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) si costituisce solo nel novembre 1943, composto dai rappresentanti di tutte le forze politiche, dai comunisti ai cattolici; insieme a loro, un piccolo gruppo di persone aiuta come può la Resistenza: tra loro l’industriale Aldo Cariboni che già dall’8 settembre con Riccardo Cassin, ha dato una mano agli sbandati di Sommafiume.
Oltre a fornire armi, cibo e materiali ai ribelli nascosti in montagna, il CLN lecchese opera per formare delle squadre armate in città, chiamate “formazioni territoriali”, con lo scopo di sabotare vie di comunicazione e produzione industriale, di agevolare la fuga dei ricercati e, nel caso dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica), colpire direttamente il nemico.
Anche se non tutti i ribelli di Erna sono stati uccisi o catturati dai tedeschi (alcuni hanno raggiunto altri gruppi provenienti dalla Valsassina e dalla Val Gerola alla Capanna Grassi), un nuovo pericolo si affianca a quello nazista: la GNR (Guardia Nazionale Repubblicana), formata dopo l’8 settembre dal regime fascista “rinato” a Salò.
Anche al rifugio Pio X stazionano dei ribelli che presto si uniranno a quelli della Grassi: una quarantina di uomini in tutto, riuniti dopo che il 12 febbraio del ’44. Gli aerei tedeschi hanno bombardato il rifugio Pio X e pochi giorni dopo un gruppo di nazi-fascisti, circa 400 militari, raggiunge i ruderi del rifugio e lo radono completamente al suolo.
Con l’arrivo dei gappisti dalle città, ormai invivibili per loro perché ovunque ricercati, l’organizzazione partigiana si rafforza e matura: l’esperienza militare di molti comunisti che hanno combattuto la guerra civile spagnola sarà, come in altre zone d’Italia, fondamentale. Ordine, addestramento, vigilanza sono le mansioni di questa fine d’inverno.
In valle, nelle industrie belliche lecchesi, la vita si fa difficile. La produzione dura 17 ore al giorno, i tedeschi controllano tutto, la paura è forte, soprattutto di fronte alle minacce delle SS di deportare tutti in Germania; ma il 7 marzo, come nel resto del Nord dell’Italia occupata, i lavoratori incrociano le braccia: nessuna astensione vera dal lavoro (la deportazione era la risposta tedesca), ma scioperi bianchi, cioè essere presenti al posto di lavoro ma non lavorare.
E’ così in tutte le industrie lecchesi, dalla Bonaiti alla Fiocchi, dalla Badoni alla File, dall’Arsenico alle Acciaierie e Ferriere del Caleotto; ma il coraggio sarà messo alla prova: dei 24 deportati per attività antitedesche, solo 8 torneranno dai campi di concentramento nazisti.
Ma gli uomini, soprattutto i giovani, scappano dalle città per tornare in montagna: le ripetute chiamate alle armi del regime fascista sono disertate in massa e nel solo distretto di Como ben 1272 ragazzi su 1582 richiamati alle armi disertano tra marzo e aprile ’44.
Vengono ricostruiti i gruppi “Cacciatori delle Grigne” (apolitici) e la banda “Carlo Marx” (comunisti) anche se molti salgono sui monti non per combattere ma solo per non farsi arrestare o deportare o per espatriare nella vicina Svizzera neutrale.
La repressione è feroce e non risparmia neppure chi è sospettato di aver aiutato i ribelli: ne è l’esempio la triste vicenda di don Achille Bolis, arrestato a Calolziocorte, trasferito a Bergamo, poi alla sede delle SS all’Hotel Regina di Milano ed infine nel carcere di San Vittore dove una sera, ritornando in cella grondante sangue dopo l’ennesima tortura, morirà tra le braccia dei compagni di reclusione. Marco Vegetti, Op. cit.

Nel mese di maggio [1944] si ha nella zona del Lecchese l’intervento decisivo del Partito Comunista. Da Milano vengono inviati alcuni emissari della Delegazione Lombarda Comando Brigate d’Assalto Garibaldi, fra cui Primo e Maio, per organizzare i gruppi ribelli del settore, ed inquadrarli in forma definitiva sotto l’egida garibaldina. I provvedimenti più urgenti che vengono adottati riguardano la caratterizzazione politica dei nuclei ruotanti intorno alla banda Carlo Marx e della banda stessa e sono tesi a moderare l’eccessivo settarismo e la troppo accentuata politicizzazione in senso comunista, che diminuisce sia il potere di influenza sulla popolazione, sia la possibilità di costituire un punto di riferimento per tutti coloro che desiderino dare il proprio contributo alla lotta contro il nazifascismo senza preclusioni politiche.
L’unica discriminazione per l’appartenenza alle Brigate d’Assalto Garibaldi doveva essere il porsi su un terreno di lotta senza tregua contro l’occupazione tedesca e il regime fascista. Il lavoro di trasformazione delle bande lecchesi in formazioni garibaldine appare difficile per la resistenza che deve superare.
L’eliminazione di tutta una simbologia politica che può compromettere il lavoro di massa (stelle rosse, bandiere, saluto a pugno chiuso), viene fatta gradualmente e incontra spesso l’incomprensione dei partigiani. Vengono poi reclutati molti patrioti provenienti dalla popolazione locale che erano rimasti esclusi dai gruppi per il settarismo di questi. I delegati si impegnano quindi nella laboriosa trasformazione delle bande di ribelli in formazioni disciplinate, regolarmente inquadrate ed organizzate da un abbozzata gerarchia militare, base del futuro esercito partigiano. Il 25 maggio è la data della costituzione ufficiale della 40a Brg. Garibaldi Matteotti e del suo inquadramento fra le altre brigate garibaldine. “la 40a Brigata è stata costituita, di fatto, il giorno 25 maggio, quale risposta al bando intimidatorio dell’ex duce. Dal giorno 1 al giorno 17 c.m. i vari reparti e tutti i singoli distaccamenti si sono mobilitati e sono passati con slancio all’assalto dei vari centri presieduti dal nemico”. <112
[…]
In maggio l’azione si allarga:
· tra il 16 e il 24 maggio, Spartaco guida i suoi uomini all’occupazione della Val Varrone e della Valsassina: da Margno scendono a Casargo, Taceno, Primaluna, fino a Introbio.
· 23 maggio: Casargo è occupata dai patrioti. Le case dei fascisti, piene di beni, vengono messe a disposizione della popolazione.
· 24 maggio: viene occupata Taceno. Il segretario politico Cocchetti, organizzatore dei fasci repubblicani viene giustiziato.
[…] Inizia un periodo veramente positivo per l’attività partigiana. La Valsassina e la Val Varrone diventano zona franca per i partigiani, che istituiscono posti di blocco agli sbocchi delle vallate, lasciano presidi nelle
cittadine principali e fanno sentire la propria forza alle autorità civili, le quali si rivolgono al comando di brigata per avere direttive. Nella zona sono infatti abrogate le leggi sulla pesca, sulle tasse, sulla raccolta della legna e in particolare sull’obbligo degli ammassi. <116
La popolazione risponde alle sollecitazioni del movimento garibaldino disertando l’ammasso fascista, rifiutandosi di consegnare, secondo i decreti, i propri prodotti e non rispondendo ai bandi di arruolamento fascisti. Non si può certo parlare di formazione di una zona libera, come nell’estate ’44 avverrà nelle regioni che hanno dei movimenti partigiani più agguerriti e più radicati nelle masse popolari locali: non c’è infatti nella Valsassina e nelle valli minori che si diramano da essa quel regolare procedere alla creazione di organismi di autogoverno popolare, quella propaganda di massa dei nuovi principi di democrazia e libertà.
D’altra parte non si può misconoscere l’importanza di questa azione, poiché in tutta la Lombardia è la prima offensiva armata che si svolge in un’area di dimensioni non limitate. Occorre inoltre considerare che questa zona non gode delle condizioni di relativa emarginazione dalla sfera degli interessi degli occupanti quali godono altre zone, decentrate rispetto ad importanti vie di comunicazione o a fasce di confine. Qui è sempre presente la sorveglianza dei reparti tedeschi, pronti a stroncare sul nascere ogni accenno di resistenza organizzata. Ne è una prova la limitata estensione nel tempo della Valsassina libera.
Nel frattempo la strutturazione interna dei nuclei garibaldini si fa più articolata. L’informe collegamento dei vari gruppi sparsi nella vasta zona che va dalla Valtellina alla Valsassina, globalmente riuniti nella 40a Lombardia, si precisa, delineando due poli di attrazione: il fronte Nord, che raggruppa i distaccamenti della Valtellina, ed il fronte Sud, che raggruppa quelli della Valsassina, dotati ambedue di rispettivi comandi, ma ugualmente dipendenti dall’unico Comando di Brigata.
[NOTE]
112 Dall’O.D.G. del 16/6/44, in Archivio Guzzi, Museo Storico di Lecco, sala della Resistenza, vetrina 5a, in basso, 5a fila, 3° fascicolo, 3° foglio.
116 SILVIO PUCCIO, op. cit., pag. 79
Marisa Castagna, Op. cit.

In montagna, il problema non è tanto quello dell’abbigliamento o del mangiare: le popolazioni sono vicine ai loro ragazzi e spesso anche i carabinieri chiudono uno o tutte e due gli occhi. Il problema sono le armi: qualche colpo di mano frutta pochi moschetti e qualche pistola, ma ci vuole di più.
Cominceranno a tarda primavera gli aviolanci alleati (il primo a maggio sui Piani di Artavaggio) ma spesso il vento disperde i paracadute ed è impossibile ritrovare tutto il materiale lanciato.
La prima banda ad agire è quella chiamata “Carlo Marx”, formata da comunisti e guidata da Spartaco: un gruppo di una trentina di uomini che comincia a tessere contatti con altri gruppi e a compiere azioni militari partendo dal proprio comando a Premana.
Sono piccole azioni, ma nella gente dei paesi rimane impresso il “rastrellamento” del 24 maggio 1944 quando i partigiani setacciano Casargo, Taceno, Primaluna e Introbio: già si parla di “zona libera della Valsassina” ma in realtà essi non fanno altro che controllare la zona compresa tra la Val Varrone e Introbio, senza per altro istituirvi (come in altre zone liberate, vedi Ossola o Montefiorino) né un governo né un’amministrazione.
Al contrario, a Lecco la situazione peggiora: i tedeschi hanno praticamente distrutto l’organizzazione clandestina, arrestandone sia i capi che i gregari.
La casa delle sorelle Villa rimane l’epicentro dell’organizzazione, attraverso la quale transitano decine e decine di ex-prigionieri che cercano di scappare verso la Svizzera: sono russi, slavi, sudafricani, inglesi. Non tutti però scappano: molti decidono di rimanere e combattere al fianco dei partigiani, come Zaric Boislav, un sottufficiale serbo, che con il siriano George Tigiorian diventerà una delle bestie nere dei nazisti a Lecco.
Tutto questo via vai di uomini di diverse nazionalità permette ai nazisti di infiltrare due ucraini che, carpita la fiducia dei comandanti partigiani, tendono loro una trappola: saranno arrestati e deportati tutti i leader della Resistenza lecchese così come le stesse sorelle Villa.
La prima grande azione militare, compiuta dalla neonata 40° Brigata Garibaldi Lombardia che è formata da forze valsassinesi e valtellinesi unite, è svolta contro il grosso presidio fascista di Ballabio, 600 uomini della Milizia Ferroviaria.
La notte del 2 giugno 1944 scatta l’attacco alla caserma, un’ex-colonia estiva: spari grida e molta confusione. L’attacco finisce in niente, un partigiano rimane ucciso e il bottino sperato (armi e munizioni) un sogno.
Improvvisazione, inesperienza, mancanza di coordinamento: una lezione che servirà più avanti, poco più avanti perché, l’8 giugno le bande decidono di attaccare la caserma dell’Aeronautica fascista di Colico.
Questa volta l’attacco a sorpresa riesce e il gruppo partigiano fa man bassa, senza colpo sparare, di armi, munizioni, viveri, scarpe e vestiti, che vengono caricati su un camion tedesco requisito in mezzo alla strada.
La primavera, il bel tempo e i continui bandi di richiamo alle armi da parte del regime fascista spingono sempre più ragazzi verso i monti e le bande partigiane: sono ormai centinaia gli uomini divisi in piccole formazioni ma purtroppo, soprattutto gli ultimi arrivati dalle grandi città, non hanno esperienza di guerriglia e neppure di montagna, creando così molto impaccio a formazioni abituate a spostarsi rapidamente sui crinali e sulle creste, da una valle ad un’altra.
Con questi presupposti, le formazioni devono affrontare il grande rastrellamento del giugno ’44: 300 soldati della Milizia Ferroviaria, 200 Allievi ufficiali della Scuola di Bellano, 200 uomini delle Brigate Nere di Como e un intero battaglione di SS dipendente dal Comando di Bergamo si apprestano a setacciare le montagne del Lecchese.
La mattina del 25 giugno le colonne nazi-fasciste si mettono in movimento, risalendo la Val Varrone e la strada per Premana; poco dopo, forse anche per la pioggia che cade in continuazione, il rastrellamento ha una pausa di cinque giorni, cosa mai avvenuta prima, che disorienta un po’ i gruppi partigiani che si sono concentrati soprattutto sul monte Legnone e ai piedi delle Grigne.
Il 30 l’attacco ricomincia in grande stile e le bande devono svincolarsi dal nemico come meglio possono, chi in Val Gerola, chi in Valtellina, chi verso Biandino.
Infuriati per non trovare più i partigiani, i tedeschi passano alla distruzione, al saccheggio, al terrore verso le popolazioni che hanno sempre dato aiuto alle bande. Solo il 7 luglio, quindici giorni dopo l’inizio, le truppe fasciste e tedesche lasciano la Valsassina e la Val Varrone: i partigiani, smembrati dalle lunghe marce forzate e dalle operazioni tedesche, saranno inattivi fino alla fine del mese.
Cosa che non fanno i piccoli gruppi delle zone non interessate dal rastrellamento: a Bellagio un gruppo dei “Cacciatori delle Grigne” attacca un distaccamento delle Brigate Nere, a Esino Lario idem, ad Abbadia Lariana assaltano una squadra di poliziotti disarmandola.
Sempre a luglio ha inizio la vera organizzazione militare della Resistenza: la 40° Brigata “Matteotti” a nord e la 55° Brigata “Rosselli” a sud si uniscono e danno vita alla 1° Divisione Garibaldi Lombardia. L’organizzazione migliora notevolmente, e le bande divengono pian piano un vero e proprio esercito combattente, con tanto di Stato Maggiore, ufficiali e sottufficiali, con rapporti scritti sulle operazioni e un giornale “Guerriglia”.
Affianco alla 1° Divisione Garibaldi Lombardia rimangono due formazioni autonome, la “Cacciatori delle Grigne” (comandata da Galdino Pini) e la 86° Brigata “Issel” che opera in Val Taleggio e nelle zone che confinano con la Valsassina.
Ad agosto e settembre, anche grazie alla ristrutturazione militare ed a una migliore organizzazione e coordinamento, si moltiplicano le azioni di guerriglia contro il nemico fascista e l’occupante nazista: 87 azioni nel solo agosto soprattutto contro le Brigate Nere che, annusando nell’aria la fine del fascismo diventano sempre più feroci e violente, sia contro i combattenti che contro i civili. I tedeschi, in queste zone, sono per la maggior parte alpini austriaci di cui molti non più giovani che annusando la stessa aria di disfatta, alternano ferocia e crudeltà ad un’inattesa, improvvisa ma sempre relativa pietà umana…
L’aspetto più positivo della creazione di un’unica Divisione fu senza dubbio l’istituzione di un Comando Unico, sia politico che militare. La prima iniziativa fu quella di stendere un piano per creare una zona montana libera che controlli tutto il bacino dell’Adda fino alle due estremità meridionali del lago di Como, a nord fino a Ballabio e il triangolo Como-Erba-Lecco, fondamentale per controllare il valico con la Svizzera di Chiasso.
Nel frattempo, in tutta la Val Varrone, in Valsassina e a Esino Lario comandano i partigiani.
Intanto si studia e si attua un nuovo attacco: obiettivo il presidio fascista di Piazzo, data destinata il 13 settembre 1944. In qualche modo, il colpo va a segno e, con una sola perdita, i partigiani si impossessano di molte armi e munizioni tra cui anche tre mortai da 81 mm.
Il 3 ottobre la risposta tedesca non si fa attendere: nel pomeriggio a Lecco iniziano a confluire SS italiane, SS tedesche pesantemente armate, uomini della Brigata Nera “Ettore Muti”, la più spietata. Alla fine, per il grande rastrellamento di fine ottobre, i tedeschi impiegheranno cinque o sei divisioni, con lo scopo di stroncare, una volta per tutte, la presenza partigiana nel Lecchese e nel Comasco.
Le migliaia di nazi-fascisti bloccano le valli, da Lecco a Colico e le formazioni partigiane risalgono le montagne, attestandosi in Val Biandino (rifugio Tavecchia) e in alta Val Varrone (rifugio Santa Rita) mentre i tedeschi e i fascisti, da varie direttrici, puntano decisamente su Biandino bruciando i cascinali che incontrano. Dalla Bocca di Biandino i tedeschi cominciano a bombardare il già diroccato rifugio Pio X dove ha sede uno dei comandi distaccati e inseguono i ribelli verso il rifugio Santa Rita dove però ci si rende conto che la posizione può essere accerchiata dal nemico che risale la Val Varrone: appena in tempo, riesce lo sfilamento verso la Val Gerola.
L’11 ottobre il rastrellamento diventa ossessivo e minuzioso come mai: sbandati, simpatizzanti, semplici sospetti vengono arrestati, spesso torturati a morte, deportati nelle prigioni tedesche a valle.
Il giorno dopo SS tedesche e reparti mongoli sferrano un attacco contro la Val Taleggio per impedire la ritirata da Bobbio e Biandino ma, senza perdite, i partigiani riescono a raggiungere la zona di Morterone e lì nascondersi anche se il problema dei viveri è urgente, visto che le popolazioni hanno subito anch’esse danni e saccheggi.
Tutti i rifugi della Valsassina, tutte le baite e ogni altro ricovero al di sopra dei mille metri di quota sono incendiati e distrutti in quanto punti d’appoggio per i resistenti.
Centotrenta morti e oltre cinquecento deportati, circa settecento tra baite, rifugi e case distrutte sono il risultato del rastrellamento.
Il Comando decide di spostare gli uomini più a nord, tra Colico e Dervio, oppure in Val Gerola o ancora tra Rogolo e Delebio per anticipare il rastrellamento sul monte Legnone che i partigiani, ormai al sicuro, vedono attuare dalla “Brusada” sopra Mello e Cercino.
La neve ha già fatto la sua apparizione: più di trenta centimetri rendono ancor più dura e difficile la situazione dei partigiani, ormai impediti dalla fortissima presenza tedesca e fascista di scendere a valle ad approvvigionarsi, mentre SS e fascisti arrivano in forze in Valtellina per dare la spallata finale al movimento partigiano.
Dalla Val Codera ormai si può solo scappare. La 1° Divisione Garibaldi “Lombardia” è ormai nel centro del mirino e i Comandi decidono di lasciare la bassa Val Masino e di portarsi verso i Bagni prima e il Porcellizzo poi per decidere infine di passare in Svizzera dal Passo della Teggiola, a ben 2526 metri, l’unica strada verso la vita una vita che significa innanzitutto internamento in tre campi elvetici, Murren, Elgg e Fischentall.
Pochi sono i rimasti sulle montagne di casa, qualche distaccamento, qualche squadra, con compiti di disturbo, di sabotaggio nei confronti del nemico; alcuni si trovano nell’unico ricovero ancora intatto, il rifugio Santa Rita, sepolto ormai da tre metri di neve. Anche a Prato S. Pietro, in Valsassina, un gruppo resiste, così come a Premana dove sarà il parroco a “gestire” la ricostituzione della ormai disciolta Brigata “Rosselli”.
Marco Vegetti, Op. cit. 

Questa azione determina il controllo della Brigata e lo sbandamento dei suoi componenti, proprio mentre iniziava l’azione militare contro di essa, il 1° novembre.
In tale situazione le direttive del Comando Divisionale non potevano che indicare il ripiegamento delle forze rimaste sul luogo. Il breve e rapido rastrellamento della zona si conclude con l’incendio di tutte le baite e la cattura di alcuni garibaldini in zona.
La più direttamente e brutalmente colpita dall’azione nemica è invece la 55^ Rosselli.
Dalla cronistoria della Brigata è possibile seguire l’incalzare degli avvenimenti: <185
“4 ottobre: i nemici occupano tutta la Valsassina da Introbio. Al mattino i nostri distaccamenti ritornano alle loro basi…
Il giorno 5 la situazione era la seguente:
Da parte nostra: Comando Divisionale con collegatori a scorta ( 30 u.) Ai Piani d’Artavaggio, posizione chiave per la direzione della Brigata Rosselli e Issel, facile per i collegamenti col Comando di Lecco e la Brigata Poletti.
Distaccamento Fogagnolo a Bobbio ( 40 u.)
Distaccamento Casiraghi in Camisolo (35 u.)
Comando Brigata e mortaisti alla Pio X ( 30 u.)
Distaccamenti Croce e Fiorani appostati ad Abbio ( 28 u. ) rimanente del Croce a S. Rita.
Distaccamenti Minonzio ritorna in Val Gerola.
Distaccamento Grosso si porta sul Legnone.
Da parte avversaria:
a) Occupazione della Valsassina da Introbio a Premana con forze rilevanti in ogni paese…
b) Occupazione della Valle Brembana ( Valtorta ) con rilevanti forze…
c) Occupazione della Val Gerola.
d) Occupazione della bassa Valtellina.”
Nei giorni seguenti la situazione è pressoché stabile; continuano però delle piccole azioni di disturbo e di sabotaggio, di attacchi e contrattacchi da parte di ambedue i fronti. È questa una fase di preparazione, in cui i nemici assaggiano le forze partigiane e i partigiani cercano di disorientarli.
Il giorno 10 inizia l’attacco vero e proprio.
“Il mattino presto una grossa formazione nemica parte da Moggio e punta su Artavaggio contro il Comando Divisione che si trova in una situazione critica per la mancanza di qualsiasi arma pesante. Violenta l’azione di fuoco nemico, che la reazione nostra di pochi fucili fa indietreggiare. Riescono però a dar fuoco alla capanna Casari. Il Comando Divisione rimane fermo alla Castelli. La mattina: attacco convergente su Biandino. La notte, 220 uomini partono da Introbio con forte scorta di muli e guide valligiane. In località Acqua S. Carlo (Val Biandino) una pattuglia prosegue sulla mulattiera verso Biandino e prepara un’imboscata al Ponte di Ferro su una piccola radura protetta dal bosco. Gli altri, per un aspro sentiero, puntano su Abbio. Altrettanti uomini partono da Margno e da Premana aggirando dai due costoni il Cimone di Margno puntando da una parte su Abbio e dall’altra su Artino. Le quattro puntate riuscirono nel loro intento. Il Comando del Distaccamento Marx sposta la maggior parte dei suoi uomini sui passi che conducono alla Val Biandino… Simultaneamente, quasi per intesa, entrando in azione le pattuglie situate sopra la Scala (sotto Abbio via di Biandino) con raffiche di mitraglia e si udì l’azione di attacco contro il presidio di Abbio con mortai e mitragliatrici pesanti. La pattuglia del Ponte di Ferro avanzò. Abbio. Il nostro reparto di Abbio con 28 uomini fu attaccato di sorpresa. Dalla baita avvistarono i fascisti quando era ormai impossibile una ritirata di fronte al soverchiantissimo numero del nemico. Il Comandante Ugo Cameroni cadde sulla porta in combattimento… altri prigionieri, solo qualcuno si
salva con la fuga. Biandino. Subito si iniziava il bombardamento contro il d.to. Marx alla Bocca di Biandino… Nel frattempo i fascisti, che avevano aggirato il Cimone di Margno, giungevano da Abbio minacciando maggiormente gli uomini di Biandino e quelli situati in Artino, che potevano essere aggirati dalla cresta della Val Biandino che ad arco da Abbio va fino a S. Rita… Subito apparve chiaro il disegno del nemico: puntare con grosse forze su Biandino provocando… lo sfilamento ai due lati secondo l’ossatura montagnosa della zona:
a) sulla linea S.Rita-Bocchetta Trona -Crinale di Val Varrone-Legnone;
b) b) sulla linea Camisolo-Bobbio-Artavaggio…
1°) In vista del nostro sfilamento sulla seconda linea, lo stesso giorno, nel pomeriggio, forze provenienti da Barzio attaccarono Bobbio; la resistenza delle sentinelle ritardava la loro marcia, per cui permisero lo sfilamento verso Artavaggio degli ultimi gruppi provenienti da Biandino e Camisolo e
del d.to. Fogagnolo di Bobbio stesso.
Intanto i nemici scesero da Abbio, bruciando la sede del Marx, salirono alla Pio X , la bruciarono e proseguirono verso Camisolo.
2°) Analoga convergenza di forze fu compiuta sull’altra direttiva di marcia. Il comando Brigata da S. Rita con gli uomini del Marx, Grosso, Croce, lasciate le pattuglie di protezione alla Bocchetta di Trona, sfilavano verso la Val Gerola sfuggendo per poche ore alla morsa dei nemici provenienti dalla Valvarrone e dalla Val Gerola stessa. I nostri uomini si unirono alle forze della bassa Valtellina… Contro il Comando Divisione e le forze sfuggite da Biandino e Bobbio, il mattino del 12 si mossero grosse formazioni di SS tedesche miste a Mongoli, sferrando un attacco di sorpresa in tutta la Val Taleggio, cioè ai piedi dei: monti che conducono ai Piani di Artavaggio”
[…] Dopo questi giorni di intensa attività c’è una pausa di tre giorni nel rastrellamento.
L’attacco aveva distrutto ogni tessuto organizzativo e ogni collegamento.
Una panoramica della situazione creatasi è data dalla lettera di Pietro e Spa a Calabresi, del CLN di Morbegno: <187
“Tutte le nostre basi in Valsassina e in Val Varrone sono state bruciate completamente dal nemico. A tutto oggi non siamo ancora riusciti a collegarci col Comandando 2^ Divisione e siamo privi di notizie dei Dti. Spostatisi parte nella Bergamasca e parte, crediamo, ancora occultati in Valsassina. La crisi che questo Comando attraversa è dovuta alla completa mancanza di informazioni circa le intenzioni del nemico; a questa deficienza di informazioni dovrebbero sopperire i diversi Comitati di Liberazione della zona. Sarebbe necessario poter collegare immediatamente questo Comando di Brigata col Comando della 1^ divisione affinché, in caso di attacco delle forze fasciste contro il nostro schieramento, la 1^Divisione possa impegnare il nemico a tergo.” […]
[NOTE]
185 Francesco Magni, op. Cit. . pag. 23 e ss.
187 Lettera di Piero e Spa a Calabresi, 15/10/44, Archivio Guzzi; 6^ vetrina, sotto, 2^ fila, 2°fascicolo, 2°foglio
Marisa Castagna, Op. cit.

In pianura, probabilmente a causa di una delazione, viene arrestato dalle Brigate Nere tutto il Comitato di Liberazione lecchese: don Giovanni Ticozzi, Ravazzoli, Gasparotti, Lui, Cagliani, Turba e altri ancora, unico scampato l’avvocato Lanfranconi. Mentre a Lecco i fascisti cercano di screditare don Ticozzi, il 22 dicembre il tribunale Speciale di Milano apre il processo contro il gruppo di antifascisti lecchesi: nella speranza che il gesto sia ricordato dopo la liberazione già nell’aria, il tribunale manderà assolto don Ticozzi anche se obbligandolo a risiedere a Cesano Boscone, vicino a Milano.
A Lecco non sono stati con le mani in mano e, dietro la spinta del PCI, viene ricostituito il Comitato di Liberazione che conoscerà anch’esso la sventura degli arresti ma riuscirà a mettere in contatto tutte le forze partigiane presenti nella zona, anche grazie al tramite di Riccardo Cassin.
A febbraio, nonostante arresti e delazioni, il sentore della liberazione è vicinissimo: molte donne fidate cominciano a cucire bracciali tricolori e camice rosse per il giorno dell’insurrezione.
E’ di questo inizio di primavera ’45 anche il susseguirsi dei bombardamenti alleati su Lecco con obiettivi primari il ponte ferroviario della linea Lecco-Como, il deposito della “Sacna”, la polveriera della “Fiocchi” e il cimitero di Malgrate dove i nazi-fascisti hanno nascosto un’importante officina meccanica.
E se i tedeschi continuano con piccoli rastrellamenti mirati a colpire le unità partigiane, queste ultime non danno tregua al nemico, con sabotaggi, assalti, disarmi, interruzioni telefoniche e ferroviarie e contro tutte quelle installazioni e reparti che sono dislocati nel Lecchese e nell’alto lago solo per cercare di tenere aperta la strada verso la Svizzera, la sola via di fuga, la sola via di salvezza.
Al 20 aprile 1945, il Comando militare della Resistenza di Lecco sa di poter contare su circa 3000 uomini armati e pronti…
Marco Veggetti, Op. cit.