E vi par poco?

L’area carnica sotto il controllo del movimento partigiano fu proclamata Zona Libera di Carnia. Essa si estendeva a tutta la Carnia, ad eccezione del capoluogo Tolmezzo, che aveva resistito ai numerosi attacchi partigiani . Oltre alla Carnia propriamente detta, la Zona Libera (Z.L.) si estendeva anche alle Prealpi Carniche e al territorio di Sappada (Cadore) conquistata il 24 settembre. Fu questo il periodo di massima espansione della Z.L.  Già dal luglio 1944, la Valle dell’Alto Tagliamento aveva un’amministrazione espressa dal movimento partigiano e tale amministrazione si estese gradualmente ai Comuni via via conquistati ai nazifascisti. La Carnia, nell’estate 1944 costituì un operoso ed attivissimo laboratorio sperimentale di forme e modelli di democrazia, Furono destituiti i pre-esistenti organi amministrativi, vennero creati i Comitati di Liberazione Nazionale di vallata, uno per ciascuna delle principali valli: Valle dell’Alto Tagliamento, Val Degano, Valle del But.
Al vertice, fu formato il Comitato di Liberazione Nazionale Zona Libera (CLNZL) costituito da tre membri, uno per ciascuna vallata. Nel CLNZL, erano inclusi anche rappresentanti militari delle Divisioni Garibaldi e Osoppo, con funzioni solo consultive. Il CLNZL provvide a costituire il Governo della Zona Libera, formalmente proclamato il 26 settembre con il nome di Giunta di Governo della Z.L. Infine, al più basso livello, c’erano i 41 Comuni della Z.L., 28 carnici e 13 esterni alla Carnia ma territorialmente contigui, con una popolazione complessiva di circa 78.000 unità.
Nell’agosto-inizio settembre 1944, vennero indette elezioni comunali. Elettori erano solo i capifamiglia, secondo l’usanza carnica nell’ambito delle latterie sociali, capifamiglia che potevano essere maschi o femmine. Gli organi amministrativi emersi furono denominati Comitati Comunali o anche Giunte Popolari Comunali. Per inciso si segnala che Ad Ampezzo, e probabilmente anche altrove, non furono eletti i candidati indicati dal PCI; anzi, il numero di voti da questi candidati era inferiore al numero dei partigiani garibaldini votanti. Evidentemente, neanche tutti questi ultimi avevano votato compatti secondo la linea del Partito.
L’azione politica era, in ogni caso, fortemente condizionata dai due maggiori Partiti, Partito Comunista e Democrazia Cristiana, anche se vi partecipavano i Partiti minori: il Partito d’Azione, il Partito Socialista, il Partito Liberale.
I problemi che i nuovi organi amministrativi si trovarono a dover risolvere, erano numerosi ed immensi, tenuto conto anche dell’impreparazione in campo amministrativo di una classe dirigente improvvisata impreparazione che l’onestà di intenti e la buona volontà non sempre riuscivano a compensare. Pesò molto anche l’insufficiente maturità politica della popolazione, non avvezza e forse anche poco interessata a una gestione democratica della vita pubblica. L’avvio della vita economica, amministrativa e giuridica partì quindi in un clima di incertezza, e di ingenuo velleitarismo che produsse risultati pratici non sempre soddisfacenti. Vi furono ritardi, confusione ed inefficienze dovuti, in parte, anche alla vischiosità burocratica ed alla eccessiva articolazione degli organi decisionali. Per snellirla, il 29 agosto, fu decisa la soppressione dei tre Comitati di Vallata e il rafforzamento delle responsabilità del CLNZL con l’inclusione dei rappresentanti di tutti i Partiti politici, delle formazioni combattenti e di tutte le componenti sociali.
Antonio Dessy, Kosakenland in Nord Italien –  I cosacchi di Krassnov in Carnia (agosto 1944 – 6 maggio 1945) e loro forzata consegna ai sovietici (28 maggio – 7 giugno 1945), Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, Anno accademico 2003-2004

Zona libera della Carnia e dell’Alto Friuli (Luglio – dicembre 1944) – Fonte: Atlante storico della lotta di liberazione italiana in Friuli Venezia Giulia. Una Resistenza di Confine, a cura di Alberto Buvoli, Franco Cecotti, Luciano Patat, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione, 2005

Nella Venezia Giulia la Resistenza italiana si sviluppa seguendo due diverse direttive strategiche, politiche e ideologiche, rappresentate da due formazioni: le brigate Garibaldi, formate prevalentemente da comunisti e le brigate Osoppo, eterogenee dal punto di vista politico, ma in cui la componente maggiore era costituita da azionisti e cattolici.
Nella Venezia Giulia la lotta antifascista si manifesta ben prima che nel resto d’Italia. Ciò è dovuto alla contiguità territoriale della regione con la Slovenia, dove la guerra di liberazione inizia pochi mesi dopo l’occupazione italo-tedesca. Le prima bande partigiane jugoslave apparivano nella zona di Postumia già nei primi mesi del 1942, iniziando in questo modo un’efficace azione di disturbo all’amministrazione fascista nelle province orientali, che culmina nel luglio ’42, con il viaggio di Mussolini a Gorizia per riorganizzare la lotta antipartigiana <2.
Malgrado la creazione ad hoc di un istituto, l’Ispettorato speciale di polizia per la Venezia Giulia, e la persecuzione dei civili sospettati di simpatie partigiane <3, il movimento antifascista jugoslavo riusciva a intensificare la propria attività e, all’indomani dell’8 settembre, giungeva ad occupare quasi tutto il territorio giuliano.
In questo contesto, fu importante il contributo che il PCS offrì ai comunisti italiani nell’organizzazione di proprie bande partigiane. Alla fine del 1942 Mario Lizzero, per incarico del PCd’I, aveva un primo incontro con i dirigenti comunisti sloveni <4 e già nel marzo ’43 veniva costituito un primo distaccamento delle “Garibaldi”, che operava in stretto collegamento con le bande slovene. Si tratta della prima formazione della Resistenza italiana e già nel nome evidenziava la volontà dei partigiani comunisti di collegare idealmente la guerra attuale con la lotta antifranchista in Spagna da poco conclusa <5.
Con la firma dell’armistizio e la dissoluzione dell’esercito italiano il numero dei partigiani aumentava notevolmente, permettendo la costituzione della la prima brigata “Garibaldi-Friuli”, composta da cinque battaglioni <6.
Dopo la proclamazione del programma annessionistico sloveno, nel settembre ’43, nascevano i primi contrasti tra le componenti comuniste delle due Resistenze: gli sloveni chiedevano che le unità italiane fossero integrate nel IX Korpus; al contrario, i garibaldini si dimostrarono a rinunciare alla loro autonomia e, fino al dicembre ’44, si rifiutarono di soddisfare la richiesta slovena <7.
La disputa attorno al passaggio delle brigate Garibaldi alla dipendenza dal IX Korpus era solo uno degli aspetti in cui si manifestava la principale questione che divideva le due Resistenze, ovvero la futura collocazione nazionale della Venezia Giulia. I contrasti avvenivano sia a livello di vertici che a livello dei semplici militanti, e trovavano espressione anche su questioni relativamente marginali, quali ad esempio il nome da dare ad una nuova brigata italiana (gli sloveni rifiutarono i nomi “Gorizia” o “Isonzo”) o la semplice esposizione del tricolore da parte dei garibaldini, che provocò più volte le vivaci proteste da parte dei comunisti sloveni <8.
La prima brigata “Osoppo” nasceva poco più tardi, nel dicembre ’43, su iniziativa della Democrazia Cristiana e del Partito d’Azione.
La Osoppo si proponeva di unire tutti i gruppi di resistenza passiva che si erano costituiti spontaneamente in Friuli nella seconda metà del ’43.
La decisione di intraprendere la lotta armata contro l’invasore avveniva in seno al “Cenacolo di studi sociali per sacerdoti”, diretto da don Aldo Moretti. In tale occasione venivano elaborati il progetto ideologico e le finalità della nuova Brigata, i quali comprendevano, accanto al riconoscimento del valore morale della resistenza attiva e dell’uso delle armi per legittima difesa, la volontà di rinnovamento sociale e, insieme, il rifiuto di qualsiasi rivoluzione violenta <9.
Pur essendo una brigata piuttosto eterogenea dal punto di vista politico, i componenti della “Osoppo” erano accomunati dal rifiuto del comunismo, che in alcuni casi diventava anticomunismo, e dall’opposizione alle richieste annessionistiche jugoslave: a differenza dei garibaldini, essi erano compatti nel proclamare il rispetto dei confini italiani anteguerra.
Malgrado queste differenze, le due formazioni italiane mantennero una stretta collaborazione, che raggiunse il culmine nell’ottobre ’44, quando esse occuparono congiuntamente un vasto territorio della regione giuliana, istituendo la sfortunataRepubblica della Carnia” e formando un comando unificato <10.
Nell’ottobre ’44 il Segretario del PCI Togliatti dava direttive a Vincenzo Bianco, il rappresentante dei comunisti italiani presso i partigiani sloveni, di accettarne le richieste sul passaggio delle Garibaldi alle dipendenze dal IX Corpus sloveno, motivando questa scelta con la necessità di salvaguardare l’unità di lotta tra le due Resistenze <11.
Questa dipendenza, che nella percezione gli osovani sottintendeva il sostegno dei partigiani comunisti italiani alle richieste territoriali jugoslave, avrebbe determinato l’interruzione della collaborazione tra le due formazioni italiane.
Tuttavia, il passaggio delle “Garibaldi” alle dipendenze slovene non significò, per la maggior parte dei garibaldini, l’adesione alla politica annessionistica jugoslava. Per questo motivo il IX Korpus già nel dicembre ’44 inviava le formazioni italiane nell’entroterra sloveno, non permettendo loro, tra l’altro, di partecipare alla liberazione di Trieste. Fu invece mantenuto nella regione giuliana il Battaglione garibaldino “Trieste”, che aveva accettato in pieno le direttive politiche dei comunisti sloveni <12.
In questo modo si creò un clima molto teso nei rapporti tra gli osovani e i garibaldini rimasti ad operare nella regione, segnato da reciproche accuse di tradimento: gli uni erano sospettati di collaborazionismo, gli altri accusati di essere complici dei comunisti sloveni e di favorire attivamente l’annessione slovena dalla Venezia Giulia <13.
In tale clima maturarono una serie di scontri armati <14 tra le due formazioni italiane, che culminarono nell’eccidio di Porzûs, in cui agli inizi del 1945 vennero giustiziati, per mano di un gruppo di gappisti, diciassette partigiani appartenenti alla I Brigata Osoppo e accusati di tradimento <15.
Appare probabile che l’eccidio sia avvenuto non per iniziativa personale di Mario Toffanin, il comandante del gruppo gappista, quanto piuttosto su direttiva del comando sloveno, preoccupato dall’esistenza di una Brigata Osoppo, piccola ma potenzialmente pericolosa perché fortemente antislava <16.
L’episodio di Porzûs segna una delle pagine più drammatiche della storia della Resistenza ed è l’emblema dello scontro – ideologico e fisico – tra due fazioni per il destino delle terre italiane al confine nord-orientale, con la parte slovena decisa ad imporre con la forza la propria supremazia, come dimostrerà in seguito la tragedia delle foibe <17.
A seguito del passaggio alle dipendenze operative dal IX Korpus, la brigata Garibaldi-Natisone veniva trasferita in territorio sloveno, come si è detto, mentre il CLN triestino vedeva l’uscita del PCI, attestato su posizioni dichiaratamente filoslave.
In questo modo si chiudeva l’esperienza della collaborazione – difficile ma a tratti estremamente efficace e di alto valore simbolico – tra le due Resistenze italiane nella regione giuliana.
NOTE
2 Cfr. Giovanni Padoan “Vanni”, Porzûs, strumentalizzazione e realtà storica, Monfalcone (GO), Edizioni della Laguna, 2000.
3 Il primo marzo 1942 il generale Mario Roatta, comandante della Seconda Armata italiana in Slovenia e Croazia impartiva una direttiva precisando che il trattamento da applicare ai partigiani non andava sintetizzato nella formula “dente per dente”, ma in quella di “testa per dente”. Cfr. F. Longo e M. Moder, Storia della Venezia Giulia 1918-1998, Milano, Baldini Castaldi Dalai editore, 2004, p. 52. Si segnala, inoltre, la Bela Garda (Guardia bianca), una formazione armata sorta a metà del 1942 nella Slovenia annessa all’Italia in funzione antipartigiana, nota nella terminologia italiana come Milizia volontaria anticomunista (MVAC).
4 Cfr. Giovanni Padoan “Vanni”, Porzûs, strumentalizzazione e realtà storica, op. cit.
5 Cfr. l’intervista a Mario Lizzero di E. Folisi in la liberazione del Friuli 1943-1945. una guerra per la democrazia, Udine, Gaspari, 2005. Si veda anche M. Lizzero, Storia delle formazioni: la Garibaldi, in AA. vv.Nel monumento di Udine la Resistenza in Friuli, Udine, Del Bianco, 1970.
6 Si tratta dai battaglioni “Garibaldi”, “Friuli”, “Pisacane”, “Matteotti” e “Mazzini”. Cfr. Giovanni Padoan “Vanni”, Porzûs, strumentalizzazione e realtà storica, cit.
7 Cfr, Lettera direzione PCI (zona occupata) al PC sloveno e al compagno Kristof, in Archivio del Partito Comunista (APC), Fondo Mosca (FM), Jugoslavia Venezia Giulia (JVG), m.f. 133.
8 In agosto il Battaglione “Mazzini” è costretto ad abbassare un tricolore esposto sul Collio, in seguito alle proteste degli sloveni. Anche il nome da dare ad una nuova Brigata Garibaldi è motivo di controversie: i comunisti italiani propongono “Gorizia”, poi “Isonzo”, ma suscitano energiche proteste da parte degli sloveni, che considerano questi territori di fatto non più italiani. Infine, ci si accorda per “Natisone”. Questi episodi, piuttosto frequenti, sono sintomatici dei gravi contrasti che dividono le due Resistenze sul problema dei confini. Cfr. Relazione sui nostri rapporti con il P.C. di S. e sulla situazione nella V.G., in APC, FM, JVG, m.f.133, 47 documenti sui rapporti col P.C. Sloveno, doc. N° 2.
9 Cfr. A. Buvoli, Le formazioni Osoppo-Friuli, Documenti 1944-1945, Udine, Istituto Friulano Movimento di Liberazione, 2003, pp. 13-15.
10 La Repubblica della Carnia comprendeva 40 comuni e 80.000 abitanti. Fu istituita il 26 settembre ’44 e durò fino al dicembre, quando con una offensiva impetuosa i tedeschi rioccuparono la zona. Cfr. Repubbliche partigiane, in
M. Rendina, Dizionario della Resistenza italiana, Roma, Editori Riuniti, 1995, pp. 151-153.
11 Lettera a Vittorio da Roma, in APC, FM, Jugoslavia e Venezia Giulia, m.f. 104, doc. n.°. 24, Relazioni col P.C. Sl. 1943- 1945. La direttiva di Togliatti provocò, tra l’altro, la scissione della I brigata Osoppo dalla Divisione “Garibaldi – Osoppo”. Cfr. Giovanni Padoan “Vanni”, Porzûs, strumentalizzazione e realtà storica, op. cit.
12 Cfr. Ibidem. Si veda, inoltre, l’articolo di F. Martino, La battaglia dei partigiani in Friuli, “Rinascita”, aprile 1955, anno XII, N.°4, pp. 303-306.
13 Così si esprime Ostelio Modesti “Franco” in una lettera al Triumvirato Veneto del 12 febbraio 1945: “Ogni giorno che passa si delinea nettamente la rottura con lo strato superiore dell’Osoppo. Aumentano i loro legami diretti e indiretti con la polizia e perfino con Comandi Tedeschi […] In modo sempre più preciso accentuano la campagna antigaribaldina, anticomunista, antislovena. Molti casi di arresti li dobbiamo a loro”. Non manca, inoltre, il risentimento dei garibaldini nei confronti degli Alleati, che forniscono aiuto ed assistenza ai soli osovani. Cfr. La federazione di Udine del PCI al Triumvirato insurrezionale del Veneto, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, Documenti, C. Pavone (a cura di), Milano, Feltrinelli, 1979, Vol. III, doc. N.°595, pp. 353-354.
14 Nell’inverno ’44 quattro garibaldini vennero uccisi da un battaglione osovano, mentre un altro garibaldino nei mesi successivi avrebbe trovato la morte in circostanze analoghe. Cfr. Il Comando della divisione Natisone al Comando generale del CVL, alla Delegazione triveneta, al CLNAI, al CLN provinciale, in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, Documenti, C. Pavone (a cura di), Milano, Feltrinelli, 1979, Vol. III, doc. N.°507, pp. 121-125.
15 Mario Toffanin “Giacca”, pur essendo stato condannato nel dopoguerra, ha sempre manifestato la convinzione che l’accusa di tradimento fosse fondata e, dunque, di aver agito nel giusto. Si veda, a questo proposito, l’intervista resa a S. Stancich, Erano traditori e li fucilammo!, “Panorama”, Anno XLI, n.°5, 1992, pp. 21-23. Fra gli altri viene ucciso il fratello di Pierpaolo Pasolini, Guido. Il poeta friulano ricordò la tragica morte del fratello nella poesia “Vittoria”, inserita nella raccolta Poesia in forma di rosa, Milano, Garzanti, 1964.
16 Cfr. Giovanni Padoan “Vanni”, Porzûs, strumentalizzazione e realtà storica, cit.
17 Un’accurata ricostruzione dell’eccidio è contenuta nel volume di M. Cesselli, Porzûs. Due volti della Resistenza, Milano, La Pietra, 1975. Si veda inoltre D. Franceschini, Porzûs. La Resistenza lacerata, Trieste, 1996.
Cosimo Graziano, Le brigate Garibaldi e Osoppo: i due volti della Resistenza nella Venezia Giulia, QF Quaderni di Fare Storia, N. 3, settembre-dicembre 2007, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Pistoia

Dopo la formazione dei primi gruppi di ribelli e le retate dell’inverno 1943 da parte dei tedeschi, che volevano rimpadronirsi della zona, a novembre rimasero solo pochi garibaldini alla macchia: sarebbero stati questi a far rinascere i battaglioni a primavera.
I garibaldini raccolsero le forze rimaste in due nuclei: sul Collio rimase solo il battaglione Mazzini, con 12 uomini; gli altri battaglioni passarono il Tagliamento, spostandosi nelle Prealpi Carniche.
Data la lontananza del nuovo comando di brigata, sito di là del Tagliamento, e la pericolosità dell’attraversamento della “Pontebbana” e della linea ferroviaria (presidiate in forze dai tedeschi), i quattro battaglioni dell’est rinati in seguito all’intensa ripresa partigiana primaverile, ottennero una larga autonomia operativa e, in giugno, costituirono una seconda brigata: la Garibaldi “Natisone” (comandante “Sasso”, commissario “Vanni”), contando su circa 300 uomini. Il comando della “Natisone”, dislocato dapprima sul Collio, si trasferì in Benecìa, a fine giugno, sia per colmare il vuoto partigiano apertosi in questa zona in inverno, sia per le necessità del proprio sviluppo. Questo spostamento, inoltre, fu dettato dalle pressioni esercitate dagli sloveni, i quali non gradivano una forte presenza italiana sul Collio.
Di una certa importanza sarebbero stati i rapporti che queste formazioni italiane avviarono con quelle ben più organizzate slovene qui sul confine.
In conclusione tra luglio e agosto, per il grande afflusso di volontari, agli ordini della brigata “Natisone” operarono: sul Collio il battaglione Mazzini (vero capostipite della brigata “Natisone”, con “Banfi” e “Moro” sostituti di “Sasso” e “Vanni”, che abbiamo visto assunsero il comando della neonata brigata); nella Benecìa il Mameli, il Manin e il Manara. In questi battaglioni affluirono molti giovani del manzanese, spinti dai bandi di leva obbligatori emanati dai tedeschi e dalla propaganda effettuata nei paesi da garibaldini destinati allo scopo <107. L’itinerario più utilizzato per l’invio in montagna dei giovani fu il seguente: Premariacco – Moimacco – Campeglio – Raschiacco – Valle <108.
Tra i compiti svolti dai membri della “Brigata autonoma Natisone” fu particolarmente apprezzata la scorta che fornirono a varie centinaia di ex-prigionieri alleati e jugoslavi, fuggiti dai campi della Bassa friulana (Gonars, Torviscosa), fino ai comandi sloveni e alla salvezza <109.
Nell’agosto 1944 le brigate garibaldine crebbero fino a diventare divisioni.
La divisione Garibaldi “Natisone”, che da brigata contava 300 uomini, alla metà di agosto inquadrò 1200 persone e si articolò su due brigate: la 1^ (zona sud, Cividale e Attimis) raggruppava cinque battaglioni, di cui uno appartenente al Fronte della Gioventù; la 2^ (zona nord, Nimis) sei.
Molti dei quadri e degli uomini della “Natisone” provenivano dall’isontino e dal cividalese, e rispecchiavano la storia, le tradizioni, le aspirazioni della classe operaia locale. La “Natisone” si segnalò, oltre che per il suo rigore politico, per l’organizzazione e la disciplina militare acquisite nel lungo contatto con le forze slovene <110. I quadri furono nominati dall’alto e non scelti dalla base <111, le armi sempre ben tenute e controllate, la disciplina severa <112. Non furono mai tollerate azioni, personali o di gruppo, tese ad approfittarsi del “potere” e del nome dei partigiani per guadagni personali; soprattutto per la necessità, da parte della Resistenza, di mantenere un rapporto di reciproco rispetto e sostegno con la popolazione locale, che altrimenti avrebbe notevolmente peggiorato la condizione delle formazioni combattenti, mettendo a repentaglio la loro stessa esistenza. La Federazione Friulana del P.C.I., in un documento fatto circolare in quel periodo, ammonì: “In questi giorni si sono ripetuti fatti che gettano fango e disonore sulla lotta patriottica. Sono azioni dei G.A.P. che non hanno capito niente del loro compito; e molto più spesso sono azioni di elementi isolati, gente di malaffare che scusano tali loro azioni richiamandosi ai G.A.P. o alle formazioni partigiane. Noi contro costoro agiremo con punizioni e repressioni severe. Tutte le azioni fatte contro la proprietà e gli elementi che non sono più fascisti, che non collaborano con i tedeschi, che aiutano segretamente la lotta partigiana come tutto quello che viene fatto per odi personali, sono azioni da condannare e reprimere poiché impediscono ed ostacolano il raggiungimento di quella unità di tutte le forze sane che è alla base della lotta”.
Il “vademecum del combattente della libertà” riportò le seguenti frasi: “(..) il compagno che ruba commette la peggiore azione che possa macchiare un partigiano”, e ancora: ”Nei rapporti con la popolazione dovrà sempre essere educato e cortese (…); degni di disprezzo e passibili di fucilazione saranno tutti coloro che si approprieranno di denaro e di cose strettamente personali possedute dai compagni, o di merce o denari derivati da un’azione senza prima chiedere il consenso ai compagni responsabili” <113. Incuranti dei moniti e delle minacce, non furono sporadici i casi di ruberie e vessazioni inferte alla gente da quelli che furono considerati dei veri e propri criminali.
La prima banda di falsi combattenti della libertà fu scoperta ed eliminata dalla Polizia delle formazioni partigiane il 9 aprile 1944. Seguirono altri casi nei mesi successivi: i partigiani fucilarono, il 13 gennaio 1945, un gappista (Benhur), reo di aver requisito ed aver regalato ad una compagna, senza permesso, una pelliccia in casa di una spia tedesca giustiziata dai partigiani <114. Casi di prelievi non autorizzati e di relativa giustizia sommaria compiuta dai partigiani si ritrovano nelle testimonianze della gente: a Corno fu fucilata una persona, appartenente all’Intendenza, che faceva illecitamente i propri interessi. Un’altra persona fu fermata a Leproso, per aver derubato la gente, ed in seguito fu giustiziata a Firmano. Ci fu il caso di un tale che prese 5 lire ad una povera signora facendosi passare per partigiano: identificato e trovato con i soldi in tasca, fu fucilato seduta stante. Simile a questo ultimo episodio, ma con esito decisamente diverso, fu il caso di un abitante di Corno, tale Costantini. Questi aveva rubato servendosi del nome dei partigiani ma, una volta scoperto, fu graziato in segno di rispetto verso il fratello che era morto arso vivo dai tedeschi a Peternel; da quel giorno venne soprannominato “miracul” (miracolo) <115. Più di qualcuno, però, riuscì a farla franca, nonostante fosse sospettato, per mancanza di prove certe o perché si preferì non denunciarlo per il quieto vivere <116.
[NOTE]
107 Dalle testimonianze orali di A. C., U. P. e M. V. spiccano le figure di tale Caron, della moglie del segretario comunale di San Giovanni, sig.ra Ancilla Bonomi (in seguito deportata in Germania) e di “Titti” come basisti, reclutatori e pianificatori del movimento garibaldino.
108 I.R.S.M.L., B. CXLII.
109 A Gonars erano stati internati dai fascisti, perché oppositori politici del regime, parecchi sloveni e croati, spesso intere famiglie (A. KERSEVAN, Gonars 1942-1943, ed. KV, Udine, 2003). Questi furono “accompagnati” dai territoriali garibaldini fino alle formazioni di montagna e da lì al sicuro (testimonianze orali raccolte e confermate da: G. A. COLONNELLO, cit., p. 56).
110 Dirà V. Marini (Banfi), commissario della II brigata della divisione “Natisone”: “Eravamo un esercito, non una banda”.
111 G. PADOAN (Abbiamo lottato insieme, Del Bianco Editore, Udine, 1965) esprime la convinzione che i comandi più elevati dovessero essere indicati dalla base, essendo organi principalmente politici. Di contro i gradi intermedi non avrebbero potuto essere abbandonati agli umori dei semplici garibaldini: “È un dovere e una responsabilità inalienabile del comandante più elevato scegliere i quadri più adatti, secondo il suo giudizio”. Diversamente da ciò che accadeva nella Osoppo, nella Garibaldi si diventava comandanti se si dimostrava di essere in grado di saperlo fare, e non solo perché si era stati ufficiali dell’esercito.
112 Secondo G. A. Colonnello, rischiarono pene severe anche elementi molto rappresentativi. Inoltre, da testimonianze raccolte presso alcuni attivisti garibaldini, è confermata la severità della disciplina: qualcuno dovette subire alcune ore di palo, qualcun altro rischiò la vita perché sospettato di “odio personale”, altri partigiani subirono la stessa sorte perché rei di aver asportato e trattenuto degli oggetti, altri furono accusati di autolesioni o bestemmie gratuite. A ulteriore dimostrazione del controllo verso l’operato dei garibaldini, presso l’I.R.S.M.L. (B. CXLIII), è rintracciabile un “elenco dei compagni del Distaccamento di Oleis e loro relative schede” in cui, oltre ai dati anagrafici, sono segnate le azioni compiute, le note caratteriali ed una valutazione di massima dei singoli combattenti.
113 G. A. COLONNELLO, cit., pp. 85-86.
114 Ivi, p. 87.
115 Testimonianze di R. P. e A. C.
116 Fu il caso anche di qualche abitante di San Giovanni e Manzano.
Alessio Di Dio, Il Manzanese nella guerra di Liberazione. Partigiani, tedeschi, popolazione, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2002-2003

“Operazione Waldäufer” contro la Zona libera della Carnia (I fase), 8-20 ottobre 1944 – Fonte: Atlante storico della lotta di liberazione italiana in Friuli Venezia Giulia. Una Resistenza di Confine, a cura di Alberto Buvoli, Franco Cecotti, Luciano Patat, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione, 2005

Quindici ragazzi delle scuole superiori, oggi, a bordo di uno scuolabus giallo, ripercorrono luoghi e vicende dell’esaltante e tragica esistenza della Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli, sorta a cavallo tra giugno e luglio del 1944 e difesa dai Partigiani fino ai primi del mese di ottobre.
Un territorio vasto più di 2.500 chilometri quadrati, comprendente parte del Cadore e le zone montuose che sovrastano Pordenone, 45 comuni, 160 tra paesi, frazioni e contrade, poco meno di 100mila abitanti. Da Longarone al fiume Tagliamento, da Sappada fin quasi a Spilimbergo, e al centro Ampezzo, che diverrà la capitale della Zona Libera.
È il 14 marzo quando un manipolo di fascisti saloini ammazza a fucilate il boscaiolo Giovanni Battista Candotti, ma gli agguati e il clima di terrore, anziché spingere i giovani verso le milizie fasciste o ad aderire ai bandi di arruolamento nell’esercito tedesco, danno la spinta decisiva per la costituzione delle prime formazioni combattenti.
Già ad aprile partono i primi attacchi partigiani per il rifornimento di armi e munizioni: l’assalto alla stazione dei Carabinieri di Ampezzo e alla caserma della milizia fascista di Tolmezzo, dove resta ucciso Renato Del Din “Anselmo”. L’imponente partecipazione ai suoi funerali è il segno del crescente appoggio della popolazione al movimento resistenziale. Pur tra le rappresaglie dei nazifascisti, con l’incendio e la devastazione di interi paesi, Forni di Sotto, Esemon, Villa Santina, le terre carniche vengono progressivamente liberate grazie a oltre 150 azioni di guerra e sabotaggio portate a compimento dalle Brigate Garibaldi “Tagliamento”, “Picelli”, “Val But” e “Carnia” e dalla II, III e IV Brigata Osoppo che, dal settembre, operarono tutte sotto comando unificato.
Storie, fatti e personaggi, boschi, sentieri e cascine, teatro degli scontri e degli eccidi, riemergono dal passato attraverso le voci e i racconti di alcuni protagonisti di allora che hanno narrato agli studenti le esperienze, personali e collettive, di quei mesi. Fidalma Garosi Lizzero “Gianna” spiega che quella gloriosa epopea non sarebbe stata possibile senza l’apporto delle donne. Un solo esempio: quando i garibaldini rifiutarono di aderire alla trattativa tra il vescovo e i nazisti per lo scambio legname/viveri furono soprattutto loro a sobbarcarsi il peso di estenuanti e innumerevoli viaggi con mezzi di fortuna, attraverso il Passo del monte Rest, per l’approvvigionamento. Giulio, che aveva tre anni nel ’44, riesce appena ad abbozzare nel ricordo il volto magro coi baffetti di suo padre, Aulo Magrini “Arturo”, medico dei poveri, caduto nei combattimenti a Ponte di Noiaris. E ancora, tornano alla luce gli episodi più violenti, la paura delle cosiddette “controbande”, gruppi di tedeschi e fascisti traditori che, vestiti “alla partigiana”, coi fazzoletti rossi, colpivano di sorpresa. Come quelli che, scesi dalla malga di Pramosio fino a Paluzza, fecero cinquantadue morti in due giorni di mattanza.
Ma la realtà della Repubblica non fu solo militare: l’organizzazione interna anticipò il processo democratico che sarebbe stato alla base della fase costituente dell’Italia rinata dalle macerie della guerra. Con la nascita dei CLN della Carnia, in cui erano rappresentati tutti i partiti dell’antifascismo, furono organizzate, tra agosto e settembre, libere elezioni in tutti i Comuni (con diritto di voto esteso alle donne, se capofamiglia). Poi, con separazione del potere civile da quello militare, venne varata la giunta del governo unico della Zona Libera, del quale facevano parte anche i rappresentanti del Fronte della Gioventù, del CVL, dei contadini, degli operai e dei Gruppi di Difesa della Donna. L’autogoverno durò poco perché dai primi di ottobre iniziarono nuovi rastrellamenti tedeschi. L’operazione Waldläufer, partita l’8 ottobre e proseguita per 80 giorni, con l’impiego di oltre ventimila uomini tra nazisti, fascisti, caucasici e truppe cosacche cammellate, portò alla caduta della Repubblica che, alla fine del conflitto, contò circa 500 caduti oltre a migliaia di deportati. Rimase viva, però, l’autorità morale e l’eredità civica di provvedimenti come la riforma scolastica, la calmierazione dei generi alimentari, l’istituzione del Tribunale del Popolo con amministrazione gratuita della giustizia e abolizione della pena di morte per i reati comuni, la difesa del patrimonio boschivo.
Ce lo ricordano, in chiusura del film, le parole dei Partigiani “Furore”, “Cino da Monte”, “Vanni”: «E vi par poco?».
Natalia Marino, Un docu-film. “E vi par poco?”. Quando nacque la Repubblica della Carnia, Patria Indipendente, numero 5, maggio 2013

Nelle montagne della Carnia, alla fine del luglio 1944 le formazioni partigiane delle Divisioni Garibaldi (comuniste) si rendono padrone di un territorio vasto quanto il Lussemburgo e popolato da più di ottantamila abitanti, la zona libera più grande d’Italia.
Per combattere questo piccolo «Stato» partigiano, protetto dai monti e difficile da attaccare, il Reich decide di insediare nei paesi friulani i cosacchi, il popolo della steppa che non si è mai piegato al comunismo e che in patria è perseguitato da Stalin. In cambio dell’operazione militare, i nazisti promettono ai cosacchi la regione intera come futura patria.
“L’Armata dei fiumi perduti” [n.d.r.: di Carlo Sgorlon] <2 prende l’avvio da queste vicende, ma nel romanzo si dà pochissimo peso all’avvenimento, che pure fu la ragione per cui i cosacchi invasero il Friuli. L’esistenza della Zona libera è menzionata nel romanzo solo una volta, in un contesto marginale, senza nessun dettaglio: Ugo, un giovane che fa la spola tra i partigiani e il villaggio, dice che i tedeschi non avrebbero mai osato entrare, appunto, nella Repubblica di Carnia (ibid., p. 38). Il dato ci assicura, perlomeno, che la storia si svolge nella zona libera: mancando altri riferimenti concreti, sarebbe potuto sorgere un legittimo dubbio.
Nel romanzo, infatti, solo in modo molto vago Marta, che rappresenta il punto di focalizzazione più frequente dell’intera vicenda e uno dei personaggi centrali della storia, comincia a sentir parlare della formazione di bande partigiane in montagna, estranee alla vita popolare. Gli abitanti dei villaggi conoscono questa realtà sommersa, come si trattasse di un misterioso oggetto lontano e segreto.
La Repubblica della Carnia fu una democrazia con elezioni aperte anche alle donne, in cui furono aperte scuole e organizzate assemblee popolari che, stando ai documenti, erano veramente popolari e capillari.
Ma di tutta quest’esperienza non v’è traccia nel romanzo. Vediamo inoltre com’è descritto in modo pacifico e discreto l’arrivo dei cosacchi: «presero possesso delle stanze semivuote, o riempite al massimo di attrezzi, di fagioli, di grano, di mais. Portarono dai fienili grandi bracciate di paglia e dissero: “Kazak dormire qui”» (ibid., p. 48).
La scena è dolcissima, ma nessuna documentazione storiografica la supporta.
Nel 1944 i cosacchi conquistarono la Carnia in due mesi di battaglie che posero termine all’esperienza della zona libera, e poi occuparono, da padroni, le case degli autoctoni.
Più di trecento partigiani morirono, molti civili furono uccisi o deportati, innumerevoli furono i casi di violenza; ci furono interi villaggi saccheggiati, fienili incendiati; non mancarono le razzie di animali da stalla e da cortile. La documentazione storiografica è abbondante.
In una nota nel paratesto Sgorlon precisa, inserendosi così in una tradizione letteraria ben precisa, che il romanzo è un «misto di storia e d’invenzione». Aggiunge poi che l’impostazione generale del racconto è costruita «sopra i miei ricordi e la pietà per quello strano popolo di invasori primitivi […]».
Sgorlon è nato a Cassacco (poco a Nord di Udine) nel 1930.
Qual è stata la sua esperienza dell’invasione cosacca? Si tratta di una conoscenza diretta delle battaglie della Carnia, o piuttosto di un’eco lontana percepita dalle retrovie? In ogni caso il suo atteggiamento così deferente non trova riscontro in nessuna documentazione. Inoltre, il giovane cosacco Ghirei, che focalizza spesso su di sé la visione di tutto il suo popolo, è dipinto quasi come un novello Giovanni Drogo di fronte al deserto dei Tartari, con il nemico invisibile e una battaglia che non arriva mai.
Storicamente gli scontri ci furono, non solo, ma Marco Cesselli sottolinea che nel corso della battaglia di Nimis «si distinguevano nei massacri i cosacchi del generale Krasnov, le cui angherie, ruberie e atrocità arrivarono al punto da preoccupare gli stessi fascisti, che fecero timidi passi presso il Comando germanico <3».
Il punto di vista della narrazione, poi, è spesso quello corale del popolo cosacco che vede i partizany come nemici oscuri calati in un anonimato distante. Le pallottole della resistenza sono «senza scopo, senza direzione, senza senso, sparate da qualche incosciente soltanto perché in un certo momento di euforia o di rabbia si trovava un’arma tra le mani <4».
La guerra dei boschi è descritta come un’assenza. I partigiani sono continuamente definiti come invisibili, inafferrabili, i luoghi che vivono sono inviolabili e leggendari e di loro si conoscono solo vagamente i favolosi nomi di battaglia, imprendibili anche loro: il principale è Vento.
Perché i partigiani sono definiti come esseri senza corpo? Si potrebbe pensare che ciò sia dovuto ad un’immediata identificazione tra il soldato dei boschi e l’ignoto, che è la sua principale arma.
Ma un dubbio ci induce a approfondire l’analisi. I partigiani paiono esclusi dal «corpo» sociale, nel quale sono riassorbiti nel momento in cui perdono il loro ruolo di armati e tornano ad essere contadini e lavoratori, secondo l’ordine delle cose. C’è una scissione tra la persona civile e il suo essere partigiano.
[NOTE]
2. Carlo Sgorlon, L’armata dei fiumi perduti, Milano, Mondadori, 1983.
3. Marco Cesselli, Porzûs due volti della resistenza, Milano, La Pietra, 1975, p. 13.
4. Carlo Sgorlon, op. cit., p. 58.
Stefano Magni, Carlo Sgorlon: Ideologia e guerra, Cahiers d’études italiennes, n° 3 2005

L’Operazione Waldläufer (corridore nel bosco) si svolse dall’8 al 22 ottobre 1944. Secondo la documentazione raccolta la vasta operazione in realtà fu suddivisa in tre diverse fasi (I-III): la Waldläufer I e II contro la zona della Carnia propriamente detta, dall’8 ottobre sino al 15; nella Waldläufer III i tedeschi attaccarono ciò che restava della zona meridionale della zona libera.
Alla vigilia dell’inizio dell’operazione, le forze partigiane della Carnia erano inquadrate in due formazioni principali: i garibaldini nel Gruppo Brigate «Garibaldi-Nord» e gli osovani nella 2ª Brigata «Pal Piccolo-Carnia». Dipendevano dal Gruppo della Garibaldi due Brigate la «Val But» e la «Carnia». Secondo le fonti partigiane il numero totale degli uomini a disposizione dei comandi partigiani si sarebbe aggirato tra le 2.000 unità <54. Per quanto riguarda le forze dei tedeschi le ricostruzioni postbelliche più affidabili parlano di circa 18.000/20.000 uomini <55, costituiti da reparti tedeschi, cosacchi e anche italiani. I dati sulle unità impiegate nell’operazione sono relativamente pochi.
Di Giusto nella sua ricostruzione nomina la formazione di due Kampfgruppe (gruppi di combattimento) e di una compagnia rinforzata. Il Gruppo di combattimento Schwerdtfeger <56, il Gruppo di combattimento Schulze <57 e la compagnia rinforzata del tenente delle SS Alexander Hesselbarth, ufficiale della Divisione delle Waffen-SS Cacciatori del Carso <58. In un secondo momento partecipò alle operazioni un altro Kampfgruppe proveniente dal confine del Reich comandato dal comandante Lerch e composto da due compagnie dell’SS-Pol.Rgt. 10 (10 reggimento di SS-polizia).
Gli ordini impartiti ai reparti operanti furono severissimi e molto determinati; tra la documentazione dell’Archivio della Osoppo si trova uno di questi ordini con le indicazioni riguardo al comportamento che le unità operative dovevano tenere durante le operazioni
[…] Dopo la tragica esperienza della zona orientale, i comandi partigiani della Carnia, una volta constatata la forza del nemico decisero di non scontrarsi frontalmente e ordinarono alle sue unità di sganciarsi. Non si intende ora descrivere le diverse fasi militari dell’operazione, già minuziosamente raccontate in diversi contributi, nel presente lavoro si vuole solo descrivere alcuni fatti principali durante i quali venne coinvolta la popolazione civile locale <61.
[NOTE]
54 Il dato riguarda solo la zona settentrionale della Zona Libera, in M. Candotti, Seconda fase dell’offensiva tedesca contro la zona libera della Carnia e del Friuli. Operazioni militari nella destra orografica del Meduna, nell’alta val Meduna e nelle Prealpi carniche occidentali, in «Storia contemporanea in Friuli», n. 8, 1977, p. 250. Per quanto riguarda tutta la Zona libera della Carnia e del Friuli si parla di circa 5.500/6.000 uomini; cfr. G. Colonnello, in Guerra di Liberazione cit., p. 227.
55 Questa sembrerebbe la cifra più reale cfr.: S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., p. 532; M. Candotti, Seconda fase dell’offensiva cit., p. 250. Altre ricostruzioni che si basano unicamente su fonti partigiane parlano di 40.000 mila uomini, cifra che sembra alquanto esagerata, cfr.: P. Toldo, Gli avvenimenti militari del settembre – ottobre 1944 nelle due zone libere del Friuli, in «Storia contemporanea in Friuli», n. 5, 1974, p. 99.
56 Nel gruppo guidato dal maggiore di polizia Gerhard Schwerdtfeger, comandante del III. Btl./SS-Pol.Rgt. 15 (3. Battaglione del 15. Reggimento di SS-Polizia) vi erano anche uomini della Milizia Territoriale del 5. Reggimento (nei resoconti partigiani questi uomini vengono nominati come camicie nere), un reggimento di caucasici, un distaccamento di cani poliziotto, un plotone del SSPol.Rgt. 10 (plotone del 10 reggimento di SS-polizia), tre compagnie del Pionier-Battalion 171 (battaglione pionieri) della 71. Divisione di fanteria.
57 Il gruppo del Comandante Schulze, comandante del Gren. Rgt. 191 (191. Reggimento granatieri) della 71. Divisione di fanteria, un distaccamento di cani poliziotto, appoggiato da elementi caucasici e della Milizia Territoriale.
58 S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., pp. 530-531; S. Corbatti – M. Nava, Karstjäger cit., pp. 57-58.
61 Sull’operazione Waldläufer cfr.: M. Candotti, Seconda fase dell’offensiva cit, dello stesso autore anche, La prima fase dell’offensiva tedesca contro la “Zona Libera della Carnia e del Friuli”. Operazioni militari nella zona carnica: 8 ottobre – 20 dicembre 1944, in «Storia contemporanea in Friuli», n. 9, 1978, e ancora, Lotta partigiana tra Meduna, Arzino e Tagliamento: i rastrellamenti dell’autunno 1944, in «Storia contemporanea in Friuli», n. 12, 1981; S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit, pp. 529-535; G. Colonnello, Guerra di Liberazione cit., pp. 225-240.
Giorgio Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel Litorale Adriatico (1943-1945), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2004

“Operazione Waldäufer” contro l’Alto Friuli (II Fase), 27 novembre-8 dicembre 1944 – Fonte: Atlante storico della lotta di liberazione italiana in Friuli Venezia Giulia. Una Resistenza di Confine, a cura di Alberto Buvoli, Franco Cecotti, Luciano Patat, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione, 2005

Il periodo di relativa calma si interruppe con l’offensiva nazifascista dell’autunno del 1944; tra il 3 e il 6 ottobre la divulgazione della lettera dell’Arcivescovo Nogara, che intimava aJ movimento partigiano la resa pena rappresaglie, angosciò la popolazione e accrebbe le pressioni sui comandi partigiani. Tali sentimenti, d’altro canto, erano comprensibili alla luce della profonda impressione suscitata dalle rappresaglie tedesche contro la zona libera del Friuli orientale; la prospettiva di una nuova Forni di Sotto terrorizzò la popolazione carnica. In questo frangente, nelle vallate del But, Degano e Tagliamento delegazioni di civili e parroci implorarono la ritirata dei reparti partigiani. Furono soprattutto i comandanti garibaldini a subire le maggiori pressioni. Carlo Bellina, partigiano del Battaglione Gramsci, sul ponte di Treppo venne fermato da un gruppo di donne che così si espressero: «in nome di Dio dovete andarvene senza combattere». Il garibaldino Mario Candotti «Barbatoni» fu apostrofato dal parroco con queste parole: «allora tutto quello che ci capiterà sarà causa vostra, solo causa vostra!». Univocamente i comandi proibirono qualsiasi concessione e giudicarono la diffusione della lettera dell’Arcivescovo come una sorta di arma in mano all’occupante tedesco.
La popolazione, terrorizzata, era inerme di fronte agli eventi. Le diverse opzioni della ritirata o della difesa del territorio da parte dei resistenti riservavano grandi pericoli; di fatto il ripiegamento partigiano – che rispondeva ad una strategia di difesa elastica, stabilita per non coinvolgere i paesi in rappresaglie – sollevò reazioni contrastanti, di «sollievo», di «terrore», ma anche di delusione per la mancata difesa della zona libera. Da Paularo ad Ampezzo la popolazione espose bandiere bianche alle finestre e sui campanili e – proprio nella «capitale» della repubblica – si nascosero le effigi che costituivano la prova del forte intreccio con i resistenti.
Dopo la fine della repubblica partigiana e l’arrivo delle truppe cosacche il rapporto tra popolazione e resistenti toccò il punto più basso. Nelle popolazioni, pesantemente colpite da saccheggi, violenze e ormai stanche delle privazioni belliche, emersero sentimenti attendisti e di rivalsa. Nel mese di novembre del 1944 a Muina, a Raveo, dopo sanguinose rappresaglie, gli abitanti si dissociarono dalle azioni partigiane e decisero di chiedere la protezione delle truppe cosacche; il tentativo di scavare un solco tra popolazione e resistenti fu accompagnato anche da una vasta opera di propaganda denigratoria nei confronti del movimento di Liberazione. Le difficoltà furono acuite anche dal fatto che la fine della repubblica partigiana non significò la totale riammissione della zona carnica al sistema annonario, per cui la situazione di precarietà si prolungò nel corso dell’inverno, aggravandosi con le pesanti requisizioni imposte dai cosacchi.
I contraccolpi furono pesanti; nel novembre del 1944 il già citato osovano Albino Venier scriveva sul suo diario che la gente «non vuole vedere partigiani in paese… è disposta ad allontanarci con le forche». Nella valle del But e in val Pesarina gli arresti e le misure di rappresaglia, che prevedevano l’uccisione di dieci civili per ogni perdita cosacca o tedesca, seminarono il terrore, tanto che le stesse famiglie fecero pressione sui comandi per far rientrare i figli nelle loro case, oppure per cercare di convincere i partigiani a deporre le armi. In questo frangente la vicinanza dei resistenti alle proprie comunità aumentò la loro ricattabilità, al punto che diversi partigiani defezionarono per proteggere le proprie famiglie.
L’istituzione dei presìdi cosacchi nei paesi di fondovalle segnò l’avvio di una nuova fase di «sostegno condizionato», che vide la popolazione cercare un compromesso, sia pure asimmetrico, con gli occupanti e con gli stessi reparti partigiani. Per evitare di rompere equilibri faticosamente raggiunti con i cosacchi, la popolazione negoziò con i partigiani una riduzione delle azioni; a Raveo, ad esempio, la popolazione si dimostrò disposta a fornire viveri ed appoggio purché i partigiani non si facessero vedere armati in paese. In altri casi ai reparti della Osoppo venne offerta l’«influenza» sulle comunità in cambio di vitto e di rifornimenti.
Il riposizionamento partigiano nei mesi invernali si rivelò particolarmente difficile, anche perché le rappresaglie cosacche avevano suscitato nella popolazione sentimenti di netto rifiuto, al punto che, esasperati, gli osovani della Brigata Pal Piccolo meditavano severi provvedimenti; scriveva Venier al comando della Osoppo: “La popolazione [della Val Degano] continua ancora quel suo atteggiamento un po’ ostile al movimento partigiano per timore di rappresaglie. Per distoglierla un po’ da questo suo atteggiamento […] abbiamo fatto girare manifestini con i quali si avvertiva che qualora la popolazione non modificasse il suo contegno nei nostri riguardi, attaccheremo a bell’apposta i mongoli [cosacchi] negli stessi paesi. Si attendono risultati”.
Nell’inverno 1944-45 Romano Marchetti «Cino da Monte», osavano, sintetizzava i rapporti con la popolazione delle principali vallate carniche: spie e «animosità» nei confronti dei partigiani in val But, Degano e Pesarina, migliori condizioni in Val Tagliamento dove, nonostante qualche spia, la popolazione era più «comprensiva».
La crisi sembrava essere generale e la popolazione «deprecava» le azioni partigiane, ritenute «inopportune»; nel gennaio del 1945, Albino Venier, attraversando la conca di Paularo annotava: «Quale differenza dal tempo della Carnia Libera, quando al nostro passaggio ci salutavano al grido “Viva l’Italia Libera!”». Sebbene in qualche caso – come accadde a Forni Avoltri, Paularo, Fielis, Piano d’Arta e in val Pesarina – delatori avessero fornito agli occupanti liste di nominativi di famiglie o di singoli partigiani, la popolazione si mostrò in larga parte compatta con i resistenti. Si trattava di una situazione apparentemente contraddittoria, in cui segni di stanchezza e di insofferenza coesistevano con un tacito sostegno. Proprio per questo anche i partigiani cercarono di alleviare le pressioni sulla popolazione: nel gennaio del 1945, ad esempio, sollecitati dal comando tedesco di Tolmezzo, per garantire lo sgombero delle truppe cosacche dalle abitazioni e la cessazione dei rastrellamenti contro la popolazione, gli stessi partigiani tentarono un accordo con l’occupante, poi fallito.
Complice la sensibile riduzione delle azioni nei mesi invernali e la durezza dell’occupazione cosacca, la solidarietà con i resistenti non venne meno, dimostrandosi leale e generosa. L’immagine che ben rappresenta la condizione dei civili in questo periodo è l’ospitalità coatta data ai cosacchi e nel contempo l’aiuto prestato a! partigiani nascosti a pochi passi di distanza nelle stalle. Il già citato Mario Candotti, dopo un drammatico spostamento in alta val Tagliamento, ricordava di alcune donne che portarono loro da mangiare in un rifugio: «dalle nostre facce, capiscono subito […] che siamo stanchi ed affamati, senza che noi chiediamo nulla».
Gli esempi in questo senso sono numerosi, a riprova di una solidarietà diffusa alimentata dalla dimensione politica o da un afflato umanitario; nondimeno comandi e partigiani poterono giovarsi della rete di intermediari e di informatori precedentemente allestita, nonché della solidarietà degli industriali carnici che permisero il reinserimento lavorativo di molti resistenti a fondovalle.
I familiari dei partigiani furono le persone che più dovettero soffrire intimidazioni, interrogatori, sequestri e continue perquisizioni; la minaccia delle armi, i pestaggi, la violazione degli spazi domestici (abitazioni, stalle) e comunitari (rastrellamenti) fanno parte della memoria collettiva dell’inverno 1944-45. Mentre le donne inermi affrontarono la violenza, giovani ed anziani dovettero sperimentare una condizione dli passività e di continua caccia all’uomo; ricordava Elia Gortani, di Arta: «Non si poteva mai dormire nel letto perché venivano i tedeschi, [con i cosacchi] si andava a dormire negli stavoli in montagna».
Proprio a partire dal fatto che la «base» era «ancora buona» i Cln e i comandi partigiani avviarono una riflessione critica del loro operato; gli osovani nella primavera del 1945 riorganizzarono il movimento e attivarono iniziative di carattere «politico», al fine di «avvicinare» la popolazione e di «tranquillizzare gli animi». Il rapporto della Garibaldi con la popolazione si ricucì lentamente, quando i reparti guidati da personalità con un forte radicamento locale, come Mario Candotti e Ciro Nigris, impostarono – in un contesto mutato – un nuovo approccio che teneva in maggiore considerazione gli interessi reciproci in funzione dell’insurrezione finale.
Mano a mano che ci si avvicinava alla conclusione del conflitto le preoccupazioni popolari si rinnovarono, trovando tuttavia una positiva rispondenza nei Cln locali e nei comandi, che diedero indicazione di evitare inutili rappresaglie da parte dell’occupante in fuga; questi intenti furono in ultima analisi raggiunti, con l’eccezione dei drammatici fatti di Ovaro.
Osservazioni conclusive
Le osservazioni conclusive non possono che avere una valenza provvisoria e problematizzante. L’analisi e il confront di diverse tipologie di fonti restituisce un quadro non del tutto lineare, che riflette da una parte il sostegno popolare al movimento partigiano e dall’altro le forti tensioni interne che implicò questo sforzo. Va detto con chiarezza che nonostante le difficoltà, la grande maggioranza della popolazione carnica comprese ed appoggiò con
convinzione i resistenti, pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane, di distruzioni, di deportazioni: nella guerra di Liberazione in Carnia si contano complessivamente 578 caduti, 321 civili e 257 partigiani.
Matteo Ermacora, Civili e partigiani in Carnia 1944-1945 in La Repubblica partigiana della Carnia e dell’Alto Friuli. Una lotta per la libertà e la democrazia, a cura di Alberto Buvoli, Gustavo Corni, Luigi Ganapini e Andrea Zannini, Società Editrice il Mulino, 2013

Il confine orientale che separa il Friuli dai territori dell’ex Jugoslavia in riferimento agli eventi connessi con la seconda guerra mondiale ha lasciato un residuo tragico di memorie divise inconciliabili e antagoniste che ancora si fanno sentire nel presente: i gravissimi crimini commessi da parte italiana e da parte iugoslava, durante l’immane conflitto, infatti, le efferate rappresaglie , le fucilazioni, le stragi, sono ancora oggetto di diversa interpretazione, di minimizzazione a senso unico da una parte e dall’altra.
In tal modo di questa situazione è vittima la realtà storica e sulle caterve di morti anche per questo oggi si è depositata la vergogna della rimozione e dell’indifferenza, un peccato diffuso del nostro tempo.
Lungo il confine orientale la repressione nazifascista si macchia dell’efferato eccidio di Torlano e di una violenza diffusa ed atroce.
In questo clima di tensione locale e internazionale matura anche la tragedia di Porzus che si conclude con l’eccidio di un gruppo di partigiani osovani da parte di partigiani garibaldini, una macchia tragica e dolorosa, questa, fortemente condizionata dalla sua collocazione geografica a ridosso della Iugoslavia titina , lungo la linea di confine orientale , particolarmente nevralgica nel corso della guerra perché destinata a separare alla fine del conflitto i Paesi occidentali ad economia capitalista dai paesi socialisti dell’est, nel disegno dei futuri assetti mondiali.
Anche su Porzus, il primo tragico nodo della guerra fredda, in seguito sarà agevole pescare in modo torbido, piegando la storia a fini di parte. Porzus, poi, non è il solo tragico evento su cui si materializza la guerra della memoria a partire dal secondo dopoguerra: tragici sono gli eccidi cancellati per anni nelle foibe, gli esodi forzati, la sofferenza indicibile dei superstiti.
Nonostante i tanti studi in proposito operati da parte slava e dai vari Istituti storici del nord- est sono ancora moltissimi a chiudere gli occhi di fronte alla complessità degli eventi, con il risultato di prestare il fianco a grossolane semplificazioni e manipolazioni.
Purtroppo, invece, sullo sfondo di questo palcoscenico tragico della storia piangono le vittime dei vari schieramenti: i deportati nei campi di sterminio e di internamento, gli impiccati, i paesi dati alle fiamme, le vittime di Porzus, ma anche di Lubiana, gli internati slavi e croati di Gonars, le donne, i vecchi, i bambini, gli zingari e gli ebrei deportati ed uccisi, la cui umana vicenda è ancora ottenebrata dal confine geografico ed ideologico e dai sommari revisionismi.
Imelde Rosa Pellegrini, Il confine orientale e la guerra della memoria, ANPI Portogruaro

Con il grande rastrellamento dell’autunno del 1944 i tedeschi riuscirono nel loro intento di porre termine alle zone libere del Friuli, alle prime esperienze di governo democratico all’interno dell’OZAK e a riprendere il controllo delle principali vie di comunicazione. L’organizzazione partigiana non fu capace di contrastare l’impeto delle forze tedesche, scrive a riguardo Gallo:
“I partigiani non erano preparati tatticamente e psicologicamente a questi grandi rastrellamenti; protesi nell’estate verso la pianura in un clima di vittoria e di preludio alla liberazione devono amaramente constatare che una situazione di continui attacchi deve trasformarsi rapidamente in una realtà difensiva imprevista” <33.
Dopo le sconfitte gran parte delle forze partigiane furono disperse, si insediarono nelle valli più impervie e nascoste, alcune si ritrovarono costrette a scendere in pianura per nascondersi e cercare sostegno. Molti gruppi isolati rimasero sui monti in condizioni disperate sino alla fine dell’inverno. Se le operazioni non riuscirono nell’intento di eliminare totalmente le forze partigiane, le costrinsero almeno a mantenere una posizione difensiva. Il risultato più importante di queste operazioni fu però la spaccatura che si creò nell’unione fra le forze partigiane nel dicembre del 1944. La caduta della zona orientale prima e della Carnia poi, portarono a galla motivi di tensione tra le componenti della Osoppo e della Garibaldi, attriti che sembravano oramai sopiti riemersero con forza a seguito della sconfitta. Reciproche accuse sulle responsabilità della sconfitta portarono in breve tempo ad una rottura aperta fra le due formazioni, che da quel momento agirono divise <34. Finiva anche, stroncata dal nemico potente in uomini e mezzi, la lotta unitaria delle forze partigiane della Carnia e del Friuli.
[NOTE]
33 G. Gallo, La resistenza in Friuli cit., p. 187.
34 Le motivazioni vanno ricercate anche nel nodo delle relazioni con la resistenza slovena che, fin dal mese precedente, aveva iniziato a fare pressioni affinché la divisione Garibaldi-Osoppo si ponesse alla dipendenza operativa dal IX Corpo d’armata partigiano sloveno. Su tali questioni cfr.: G. Gallo, La resistenza in Friuli cit.; G. Padoan, Abbiamo lottato insieme. Partigiani italiani e sloveni al confine orientale, Udine, 1965.
Giorgio Liuzzi, Op. cit.