Era una lucente mattina invernale

Savona – Fonte: Wikipedia

Savona era lucente nella fredda mattina invernale. Pochi giorni prima era caduta la neve sulle colline e montagne intorno. La cittadina si sviluppava stretta alle spalle dalla montagna, di dove scende la ferrovia che viene dal Piemonte, di fronte il mare con le sue insenature, il sacco blu chiuso del porto con la torre di Leon Pancaldo, che fa ricordare in piena vita moderna un mondo antico diventato posticcio in quell’atmosfera di navi di depositi di fabbriche. Le case si allungano sulla costa sino a Spotorno che appare ridente dopo il Capo. Ma dalla parte di Savona la costa è brulla, severa, coi comignoli delle fabbriche; e non c’è demarcazione tra Vado e Savona, ma un susseguirsi ininterrotto di casoni grigi e tristi. Quando verso sera le sirene delle fabbriche lacerano l’aria, le strade e i filobus cominciano a riempirsi di frotte di operai, e anche le biciclette compaiono numerose, e si coglie forse meglio che in ogni altra ora, la qualità della città, durante il giorno le grandi strade sono quasi deserte, solo l’Aurelia mantiene sempre il suo traffico.
Questo è un centro industriale, dove l’organizzazione nazionale e internazionale ha impresso un suo segno, che ha sollevato non pochi drammi umani. Molti uomini anche dai paesi vicini erano venuti qui con la speranza di realizzare degnamente la loro vita nel lavoro. Era una sera fredda e lucente, e gli operai terminato il lavoro uscivano dalla fabbrica […]
Matteo per ore chiuso nella fabbrica era straziato dal lavoro; e non poteva permettersi la minima disattenzione. Doveva curare con sveltezza e abilità che i lunghi e infuocati fili di metallo incandescente che uscivano dal forno si deponessero sugli schermi dopo aver paurosamente volteggiato in aria. I suo gesti precisi costringe- vano il filo al suo posto; la sua fronte era madida di sudore; il suo volto dai tratti salienti come arrossato dal fuoco.
I compagni di lavoro, Milano, Flico, Giovanni, non perdevano mai una battuta, e armonizzavano nel lavoro i loro movimenti funzionali, che li stancavano. La porta del forno aperta sembrava un braciere ardente, ed emanava un caldo insopportabile. Le loro bluse azzurre e nere di grasso, logore, davano ai loro corpi uniformità; ma i volti erano diversi, gli occhi esprimevano la loro personalità, come affilata dal pericolo: se un filo sfuggiva alla presa di uno poteva avvolgere bruciare mutilare la carne loro. Due inservienti entrarono nel reparto, Carlo che mancava di un braccio, Mario che zoppicava; entrambi erano stati mutilati in giorni diversi, ma sempre verso la fine del turno, quando un attimo di disattenzione, dovuta alla fatica, può essere fatale all’operaio. Si misero a pulire un forno che era spento.
Carrette piene di rottami di ferro giungevano nel reparto, e il forno acceso inghiottiva tutto il materiale; si era in piena lavorazione, gli uomini si prodigavano senza un attimo di pausa.
La fabbrica sorgeva tra i vecchi fortilizi di Savona, in riva al mare, dalla parte opposta di un ampio cortile c’erano gli uffici che confinavano con la banchina del porto, e il terreno era attraversato da rotaie per i vagoni che giungevano dalla stazione, e c’erano ponti e gru per scaricare ferro dalle navi o dai vagoni ferroviari. Un alto muro impediva ogni visione, verso terra, di fronte il mare aperto. Quest’ubicazione dava agli uomini il senso d’essere come interrati; solo sopra il cielo azzurro era visibile.
Era una lucente mattina invernale, il mare blu scuro, l’aria fredda. Gli operai non s’accorgevano che esistesse un mondo esteriore. Matteo soprattutto aveva perfezionato se stesso rendendo i suoi gesti sempre più sintetici e necessari: era diventato il migliore operaio del forno.
Ne faceva interamente parte, la sua vita era lì, ciminiere, altiforni, gasometri, rottami, sacchi di coke, montagne di carbone, acciaio effervescente, rigòla di ghisa liquida, il forno durante la colata. Ogni giorno la vita ricominciava per tutti tra quelle mura, dura e difficile, senza possibile evasione.
Solo quando il turno era finito potevano andare sullo spiazzo e guardare il cielo; sedersi su qualche rottame di ferro, aprire la valigetta che conteneva il cibo; bere golate di vino, refrigerio per le gole arse e assetate. A poco a poco le loro membra si distendevano; cominciavano a pronunciare qualche parola.
Il più loquace era Flico, giovane di ventidue anni; il più invariabilmente taciturno era Matteo, alto e magro, uomo sui trentacinque anni; Milano e Giovanni si adattavano facilmente al silenzio o ai discorsi dei compagni. Ma tutti erano accomunati dal sacrificio, un battaglia quotidiana che non aveva mai termine, che durava quanto la loro vita; da anni mesi ore minuti, sempre così, ineluttabilmente.
Guido Seborga (1), Gli innocenti, Ceschina, Milano, 1961
(1) Guido Seborga (1909-1990)
Non si sceglie dove nascere, ma dove vivere sì. Per questo Guido Hess, più noto come Guido Seborga (adottò questo pseudonimo nel dopoguerra), nato a Torino nel 1909, resta la voce più autentica dell’estremo Ponente ligure. Ma la Liguria di Seborga non è un paesaggio disabitato, una cartolina. A Seborga interessavano gli uomini e le donne, soprattutto gli invisibili, quelli di cui nessuno parla, quelli che non interessano a nessuno: Quinto lo scaricatore, Milano l’operaio cacciato dalla fabbrica, Desdemona la bella immigrata calabrese vittima della violenza brutale del potere.
Seborga studiò nella Torino antifascista di Augusto Monti (di cui era stato allievo) e Felice Casorati, di Gobetti e poi di Mila e di Bobbio, ma la sua insofferenza all’ordine lo spinse a nuovi ambienti, conoscenze ed esperienze a Berlino, poco prima dell’avvento del nazismo, poi a Parigi, luogo amatissimo in cui tornò con frequenza lungo tutta la sua vita. L’esperienza parigina, che lo mise in contatto diretto con il movimento surrealista, fu fondamentale nella sua formazione e segnò fra le altre cose l’inizio del suo amore per la pittura. Il biennio 1938-39 rappresenta un periodo centrale nel percorso artistico ed umano di Guido Seborga. Tornato da Parigi, dove ha potuto conoscere e frequentare Tristan Tzara e altri esponenti di punta del movimento surrealista, nel 1938 entra in contatto con Ezra Pound che lo incoraggia a perseguire nella sua ricerca espressiva. Il 1939 è segnato, poi, da tre eventi cardinali della sua vita: il matrimonio con Alba Galleano, l’inizio della stesura del suo primo romanzo, L’uomo di Camporosso, la rottura definitiva con il fascismo e l’inizio dell’attività cospiratoria.
“So di essere nato nel 1939 – scriverà molti anni dopo – quando mi ribellai al fascismo, presi netta posizione, organizzai la lotta clandestina, mi lasciai prendere dalla collera in tutto il mio sangue…”.
La matrice antifascista torinese lo indusse all’azione, alla diserzione dalla guerra fascista e alla partecipazione alla guerra partigiana, prima col Partito d’azione, poi nelle brigate socialiste “Matteotti”. Nel primo dopoguerra di dedicò all’ attività politica nel Partito Socialista. A Roma con Basso diresse la rivista “Socialismo” e collaborò con la direzione del partito occupandosi della politica culturale.
Già presente dagli anni ‘30 sulle principali riviste culturali italiani (Circoli, Campo di Marte, Prospettive, Letteratura, Maestrale), nel dopoguerra contribuì alla riapertura della redazione torinese del “Sempre Avanti” poi ridiventato “Avanti”, scrivendo su quotidiani e riviste della sinistra italiana e internazionale. Partecipò con Ada Gobetti, Franco Antonicelli, Felice Casorati, Massimo Mila ed altri alla fondazione dell’Unione Culturale di Torino, fu tra gli organizzatori dell’allestimento del Woyzeck di Buchner rappresentato nel ‘46 al teatro Gobetti.
A Parigi, dove fu direttore di “Italia Libera” e collaborò a “Europe” e alle ”Editions des Minuit” fu parte dell’ambiente culturale e artistico dei surrealisti, del Cafè Flore, di Sartre, Vercors, Artaud, Eluard, Tzara, di Severini, Franchina e Magnelli, scrivendo di teatro, cinema, musica, letteratura, pittura.
Nel 1948 Mondadori pubblicò nella prestigiosa Medusa degli italiani “L’uomo di Camporosso”, nel 1949 “Il figlio di Caino” accolti con grande interesse dalla critica. Scrittore di forte intonazione realista Seborga racconta di un mondo di diseredati che combattono per la sopravvivenza e per la dignità in una terra ligure aspra e dura. Fu alla sua scuola che si formò il giovane Francesco Biamonti.
Nei primi anni Cinquanta segue come giornalista la grande lotta dell’Ilva di Savona, ne ricaverà materiale per “Gli innocenti” il romanzo della Savona operaia, omaggio grandioso alla città e alla sua gente coraggiosa e fiera. Qualche anno dopo è la volta di “Ergastolo”, una storia ambientata nel porto di Genova in cui Seborga descrive la condizione dei lavoratori negli anni del boom economico. Ancora la storia di una lotta, il racconto drammatico di una battaglia per il lavoro e per la difesa della propria dignità di uomini liberi.
Guido Seborga affiancò all’attività di scrittore quella di poeta, presente fin dagli anni giovanili e approdata nel 1965 alla prima di tre raccolte “Se avessi una canzone” in cui dominano il mare, il sole, il vento, le aspre valli di confine di una terra di ulivi e viti, selvaggia come i suoi abitanti […]
Il suo amore per la città di Bordighera si è manifestato negli anni anche con una concreta e attiva partecipazione alla vita culturale del ponente ligure. Seborga ha fatto parte dell’organizzazione e della giuria negli anni ‘50-’60 del premio di letteratura e pittura “Cinque Bettole” insieme a personaggi di rilievo quali Calvino, Vigorelli, Accrocca, Betocchi, Natta, Balbo. Negli anni ‘60 ha curato “Incontri con l’uomo” a Sanremo, ciclo di conferenze a cui ha partecipato tra gli altri Quasimodo. Ha anche contribuito negli anni ‘60 – 70 alla creazione e allo sviluppo dell’Unione Culturale Democratica di Bordighera nei cui locali con il suo contributo furono organizzate mostre, dibattiti, conferenze, opere teatrali.
Savona.News, 30 marzo 2012