All’inizio del 1860, alla vigilia di quella che passerà alla storia come “l’impresa dei Mille”, il giovane Abba, simile allo stendhaliano Fabrizio Del Dongo, vive fino in fondo la sua condizione di uomo irrisolto.
Animato da una forte spinta rivoluzionaria che lo fa sentire erede diretto delle due generazioni precedenti, quella dei padri (Mazzini, Garibaldi e soprattutto Giovanni Ruffini sui cui romanzi si formerà) e quella dei martiri (Mameli, i Bandiera, Pisacane), Abba sente profonda la frustrazione di vivere in un momento in cui la rivoluzione pare sconfitta e in ritirata e persino Garibaldi in nome del realismo politico è dovuto scendere a patti con Cavour e gli odiati Savoia. A ciò si aggiunge il sentirsi un pittore mancato, l’abbandono mai a pieno chiarito degli studi, pure intrapresi con tanto entusiasmo, alla Scuola di Belle Arti di Genova. Tutto pare complottare contro di lui: arruolatosi volontario nell’Aosta cavalleria allo scoppio della seconda guerra di indipendenza, viene smobilitato prima che il suo reggimento abbia terminato il periodo di addestramento. Dalla sua caserma nelle retrovie, Abba legge della guerra sulle Gazzette, circondato da commilitoni, non volontari come lui, ma semplici coscritti, che detestano la guerra e non nutrono alcuna idealità patriottica. Per lui, abituato alla retorica dei circoli studenteschi, è un vero e proprio trauma.
Rivoluzionario, artista e soldato mancato: così si sente quando a cambiare tutto arriva Garibaldi. È una svolta radicale, Abba ha 22 anni per l’epoca una età adulta. La partecipazione alla spedizione dei Mille diventa l’evento cardine della sua vita, attorno a cui tutto ruoterà fino al momento della sua morte cinquanta anni più tardi..
Fondamentale risulta l’incontro con Garibaldi, di cui nelle Noterelle disegna un ritratto umanissimo, ma anche con Mazzini, di cui ha sempre solo sentito parlare (e il più delle volte con sarcasmo misto a disprezzo), che casualmente incontra nelle vie della Napoli appena liberata e che lo colpisce per il suo sereno coraggio:
“Vidi la prima volta Giuseppe Mazzini in una via di Napoli, sul finire del settembre 1860. Egli se ne andava tra la folla soletto, a passo lento. Ed erano i giorni che gli si aveva voluto vietare di stare in Napoli, e che egli aveva severamente risposto di credersi d’essere in terra libera. Pareva che non si ricordasse d’essersi sentito urlato a morte, pochi giorni avanti, dalla plebaglia condotta sotto le sue finestre. E noi che eravamo in tre lo seguimmo a poca distanza, osservando come egli camminava sicuro e pensavamo alle tante volte che avevamo sentito accusarlo come uomo che mandava la gente a morire e badava bene a non esporre la propria vita. Ma là in quei giorni, qualsifosse sicario o fanatico avrebbe potuto piantargli un pugnale nel petto o nel dorso! Eppure Mazzini non si guardava”.
Nei mesi della campagna contro i Borboni Garibaldi e Mazzini diventano per Abba figure non più mitiche, ma concretissime di riferimento politico e ideale, su cui orientare e costruire la sua vita di adulto in un’Italia, appena riunificata, che è un groviglio di contraddizioni tanto complesse da restare (come la questione meridionale) ancora oggi largamente irrisolte. Al giovane cairese in cerca di sé stesso, Garibaldi e Mazzini trasmettono con l’esempio delle loro vite il senso autentico di un impegno politico e civile che è prima di tutto dovere etico: fare gli italiani, formare una identità condivisa, trasformare popolazioni divise da secoli in un popolo solo unito da legami fraterni.
In quest’ottica la battaglia culturale e civile diventa la continuazione della lotta armata, anche se questa non va ancora abbandonata: Venezia, Roma, Trento, Trieste sono ancora in mano straniera. E Abba combatterà ancora e con immutato coraggio tanto da meritare nel 1866 la medaglia d’argento al valor militare per il suo comportamento durante la battaglia di Bezzecca.
Ma l’impegno cardine di quella generazione di rivoluzionari è ormai un altro: contro i venti di normalizzazione che già da subito soffiano impetuosi, costruire un’Italia civile e democratica, capace di affrontare costruttivamente il problema, che già si annuncia centrale, di “plebi”, sfruttate e incolte tanto al sud come al Nord, da trasformare in popolo, in cittadini pienamente consapevoli dei propri diritti e dei propri doveri. In ciò consiste la rivoluzione sognata che, alcuni decenni più tardi in sede di consuntivo, dal buio del carcere fascista Gramsci definirà, grazie ad uno sforzo poderoso di analisi e di sintesi, “mancata”. Rivoluzione mancata per l’accordo fra latifondisti del Sud e la borghesia industriale del Nord, terrorizzati dalla possibilità di una riforma agraria che desse finalmente la terra ai contadini e la concessione piena dei diritti politici e della libertà di organizzazione sindacale agli operai delle fabbriche del settentrione. Al sogno mazziniano-garibaldino, carico di echi libertari e repubblicani, si sostituì una politica segnata dal trasformismo, dall’abbandono degli ideali risorgimentali, dalla corruzione, dalla repressione sistematica di ogni anche timida protesta popolare. A partire da quella tragedia immane che fu la guerra al “brigantaggio”, ovvero la normalizzazione manu militari della rivolta in larga parte spontanea delle masse contadine di un Sud che aveva creduto in Garibaldi “liberatore” e ora si sentiva tradito dai “piemontesi” e più sfruttato di prima.
Lottare per un’altra Italia significava allora avvicinare davvero intellettuali e popolo, mischiarsi alla gente comune, partecipando ad esempio, come Abba fa a Cairo Montenotte nel 1861 alla fondazione di una società di mutuo soccorso fra gli operai che ancora oggi esiste e porta il suo nome. Ma anche come sindaco dal 1870 al 1880 a potenziare e modernizzare il servizio scolastico, a risanare il paese costruendo una rete fognaria prima inesistente, a finanziare corsi serali di alfabetizzazione per adulti, a favorire l’istituzione di una banca popolare al servizio dei lavoratori, degli artigiani e degli agricoltori per liberarli dall’incubo degli strozzini e delle banche in mano ai possidenti e al clero. Un impegno democratico che lo impose all’attenzione di Mazzini, che non lo conosceva, ma che in un suo taccuino ebbe a scrivere: “Abba. Cairo Montenotte, consigliere comunale e nell’insegnamento: uno dei Mille: ottimo e nostro”.
Dunque, fatta l’Italia, occorreva fare gli italiani. Il che in termini concreti significava costruire un’immagine condivisa di un Paese e di una storia. Fare di un “volgo disperso che nome non ha”, tanto per citare l’Adelchi manzoniano, un popolo consapevole delle sue comuni radici. Compito che la Massoneria si assunse in prima persona e che la rese, sempre secondo Antonio Gramsci, il primo autentico partito politico moderno di un’Italia ancora profondamente arretrata. Una impresa il cui sostanziale fallimento, già avvertibile in epoca giolittiana, segnerà in profondità la storia futura d’Italia a partire già dalla prima guerra mondiale e immediatamente dopo dal fascismo. Una impresa, tuttavia, di grande respiro politico e ideale, che spiega l’adesione convinta e attiva all’istituzione libero-muratoria di uomini, per restare alla Valle Bormida, come Giuseppe Cesare Abba a Cairo, Anton Giulio Barrili a Carcare o Sisto Anfossi, medico di Dego, meno conosciuto degli altri due, ma tra i padri fondatori a Torino nel 1859 della Loggia Ausonia da cui prenderà poi vita il Grande Oriente d’Italia. Figura straordinaria quella di Anfossi, medico e cospiratore, esiliato a Parigi, fondatore di società segrete legate alla carboneria, di cui ci ripromettiamo di trattare in altra occasione.
Dunque più che storico, Abba si sente, ed è, un testimone e interprete del Risorgimento e dei suoi ideali, ma anche, come vedremo, del suo sostanziale fallimento. In questo consiste il suo lavoro non tanto di storico, quanto di testimone/narratore di ciò che è accaduto, ma anche di ciò che si voleva accadesse e non è accaduto. Un Abba molto diverso dal ritratto agiografico che tradizionalmente ne è stato fatto.
È la storia stessa del
suo libro più famoso, a dimostrarlo. Con il titolo minimalista di
“Noterelle di uno dei Mille”, dichiarazione esplicita che si vuole
trattare non di un’avventura individuale, ma di una impresa collettiva,
il libro uscirà solo nel 1880
grazie all’interessamento di Carducci limitandosi a trattare della
liberazione della Sicilia, da Marsala a Messina. Solo nel 1891 a
trent’anni dagli avvenimenti narrati il libro esce nella versione
definitiva ed integrale con il titolo “Da Quarto al Volturno”
e dalle sue pagine traspare ad una lettura non agiografica una
profonda disillusione.
Si avverte, insomma, già
la delusione verso gli esiti moderati di quella che doveva essere una
rivoluzione espressa quasi negli stessi anni da Edmondo De Amicis nel
romanzo “Sull’Oceano” del 1889, in cui si raccontano le
traversie di migliaia di disperati che, in tutto simili agli attuali
dannati della terra che sbarcano sulle nostre coste, inseguono sul
mare un sogno di libertà e di riscatto. Attenzione! Non è il De
Amicis, agiografico e patriottico di “Cuore”, ma lo
scrittore tormentato di “Primo Maggio”, il primo vero
romanzo italiano sulla questione operaia. Tra questa massa di
disperati in cerca di un futuro c’è anche un ex garibaldino che
ragionando sul presente e sulle miserie dell’Italia unita ad un tratto
se ne esce con una affermazione terribile: «se metà degli uomini
che avevan dato la vita per la redenzione dell’Italia fossero
resuscitati, si sarebbero fatti saltare le cervella».
Nelle ultime pagine del
libro ben avvertibile è la sensazione, che Abba ci trasmette con
poche decise pennellate, che spiri già aria di restaurazione e siamo
appena all’indomani del tanto mitizzato “incontro di Teano”.
Abba parla di Garibaldi:
«Ieri il Dittatore non
andò a colazione col Re. Disse di averla già fatta. Ma poi mangiò
pane e cacio […] circondato dai suoi amici, mesto, raccolto,
rassegnato. […] Ora odo dire che il Generale parte, che se ne va a
Caprera e mi par che cominci a tirar un vento di discordie
tremende».
Mesto, raccolto,
rassegnato. Tre aggettivi a descrivere una vittoria militare
trasformatasi in sconfitta politica. Alla fine hanno vinto i Savoia,
la rivoluzione non c’è stata, come nelle parole del principe Salina
nel grande romanzo di Tomasi di Lampedusa, tutto è cambiato perché
nulla cambiasse davvero. Come aveva già intuito, padre Carmelo,
frate guerrigliero alla Camilo Torres, nel memorabile breve dialogo
con Abba sulle aspettative reali dei contadini siciliani a cui lo
scrittore non sa rispondere:
“E chi vi dice che
non aspettino qualche cosa di più? Non seppi che rispondere e mi
alzai…”
Osserva amaramente Abba:
“Questo popolo che ci ha fatta la luminaria la notte del 25
maggio, quando eravamo pochi e con poche speranze, adesso non ci
riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non si può
indovinarlo”.
Abba non lo sa, ma questo
è il momento in cui nasce la questione meridionale, in cui
si svela l’incapacità profonda da parte di questi giovani
rivoluzionari venuti da Nord di comprendere davvero la realtà
del Sud e l’aspettativa creata nelle masse dei senza terra di una
rivoluzione che non si fermasse ai proclami patriottici, ma sapesse
diventare distruzione del latifondo, riforma agraria, libertà ma anche
terra da coltivare senza sentire sul collo il peso dei latifondisti e
della mafia, che a sua volta fa capolino in una pagina del libro.
L’Italia degli anni
Novanta dell’Ottocento non vede il trionfo degli ideali mazziniani e
garibaldini. Ben altri sono i segni dei tempi: lo scandalo della
Banca Romana nel 1893 (la prima tangentopoli della nostra storia), la
repressione sanguinosa dei Fasci siciliani (1894) e dei moti per il
pane di Milano (1898), la nascita di un imperialismo “straccione”
segnata dal massacro di Adua (1896). Tra gli spiriti più avvertiti
si diffonde un senso condiviso di disagio e frustrazione ben
rappresentato da “I vecchi e i giovani”, grande romanzo di
un ancor giovane Pirandello, ambientato nei giorni dei fasci e che
vede la morte simbolica di un vecchio ex-garibaldino per mano dei
soldati mandati a reprimere la protesta dei contadini. Una visione
sconsolata che ritroviamo in una lettera di Abba all’amico Francesco
Sciavo del 26 febbraio 1901:
“Il nostro paese è
così fatto [….]. Io l’Italia l’ho veduta farsi, e so come s’è
fatta. Essa è venuta qual doveva venire: il feudo di una classe di
furbi, viventi di mutua assistenza e di mutui salvataggi”.
Un Abba profondamente
disilluso che nei suoi scritti si attacca ancora di più alla memoria
dell’epopea garibaldina perché solo testimoniando di quelle lotte,
solo non perdendo la memoria di ciò che si voleva fare e di come
l’Italia avrebbe potuto essere, si poteva ancora nutrire la speranza
che le nuove generazioni rialzassero quelle bandiere e riprendessero
quel percorso di libertà.
di Giorgio Amico