Il massacro di 800 civili, compiuto nel 1939 dagli italiani in Etiopia

Fonte: Corriere della Sera

È stato scritto che la conquista italiana dell’Etiopia fu una guerra di carta prima che un conflitto armato. E questo è vero sia per i fiumi di inchiostro che vennero versati dalla stampa italiana per celebrare prima le «eroiche imprese dei nostri soldati, sia per la polemica successiva, che durò mezzo secolo, sull’uso di agenti chimici da parte del nostro esercito. Che vide schierato da una parte Indro Montanelli, giovane sott’ufficiale in quella guerra coloniale fuori tempo, testimone oculare che giurava di non aver mai visto usare armi chimiche, e dall’altra il maggiore storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, che sulla base di testimonianze e delle fonti archiviste documentò che la conquista d’Etiopia, oltre che un’inutile aggressione, era stata macchiata dall’uso di agenti chimici.Oggi forse è utile ricordare non soltanto perché siamo vicini a un anniversario, ma per capire l’importanza di quel Paese africano nella nostra storia, anche dopo la recente visita del presidente Mattarella (nella foto sopra il titolo, il monumento che ricorda i crimini di guerra italiani ad Addis Abeba).
[…]
Un colonialismo anacronistico
La retorica del regime imponeva di vendicare la sconfitta di Adua, avvenuta il 1° marzo 1896, quarant’anni prima (morirono quattromila italiani e quasi tremila ascari, ma anche ben novemila abissini). E soprattutto il fascismo rivendicava presso le grandi nazioni europee la conquista di un anacronistico «posto al sole». L’epoca del colonialismo era al tramonto e in tutto il mondo si facevano rapidamente strada i movimenti di indipendenza nazionale. Ma Mussolini faceva finta di non accorgersene. L’impiego di mezzi era stato imponente: nel maggio 1936 l’Italia contava in Africa Orientale 330 mila militari nazionali, 87 mila ascari, diecimila mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri armati, 90 mila quadrupedi, 14 mila automezzi, 350 aerei. L’esercito del Negus Hailé Selassié, lontano parente di quel Menelik che aveva umiliato l’Italia di Crispi ad Adua, disponeva di quattromila mitragliatrici, 200mila fucili moderni, qualche cannone, una decina di aerei (sotto, un cappellano militare benedice le mitragliatrici di un reparto di camicie nere).

Fonte: Corriere della Sera

[…]
La spiegazione di Rochat
Questione chiusa? Niente affatto. Restava da valutare l’impatto delle armi chimiche sull’esito della guerra e il perché un giovane ufficiale sicuramente bene attento come Montanelli non si era accorto di nulla. Lo storico militare Giorgio Rochat chiarì che sebbene sull’Amba Aradam vennero sganciate 1.367 granate caricate ad arsine (composto solido che «al momento dello scoppio si trasformava in vapori letali») l’impatto fu abbastanza scarso a causa delle condizioni atmosferiche e della conformazione del terreno. Diverso impatto ebbero invece le bombe C.500 T che contenevano 212 chili di iprite: «Producevano vapori mortali e una pioggia di goccioline corrosive, che penetravano attraverso pelli e vestiti producendo lesioni interne gravissime». Non venivano usate sui fronti di battaglia dove c’erano italiani. Furono impiegate con esiti devastanti contro le colonne isolate del nemico e negli anni successivi per combattere la guerriglia contro gli italiani che non si spense fino alla definitiva sconfitta fascista in Africa Orientale, per mano degli inglesi, nel 1941 (sotto, la grotta di Zeret, teatro della strage con gas iprite dell’11 aprile 1939).

Fonte: Corriere della Sera

Il massacro di 800 civili
Uno storico dell’università di Torino, Matteo Dominioni, nel 2006, documentò il massacro avvenuto tra il 9 e l’11 aprile 1939, di circa 800 persone tra cui molte donne e bambine che si rifugiavano in una grotta di Debra Brehan, cento chilometri a Nord di Addis Abeba, nell’alto Scioa. In quell’occasione vennero fatti esplodere all’imboccatura della grotta bidoni carichi di iprite. In conclusione, gli italiani usarono armi chimiche in abbondanza, ma esse non furono determinanti in un conflitto dove le forze in campo erano davvero sproporzionate.
Dino Messina, Le armi chimiche in Etiopia e l’ammissione di Montanelli, Corriere della Sera, 2 aprile 2016

Fonte: Pagine Esteri cit. infra

Nel maggio 2006, il quotidiano La Repubblica ha pubblicato le foto e un’inchiesta del proprio inviato Paolo Rumiz (Etiopia quella strage fascista, poi riproposto on line nell’aprile 2018 da The Magazine Italia), che confermerebbero “le prove di un efferato crimine italiano in Etiopia, 70 anni dopo la proclamazione dell’Impero” e che rigetterebbero “luce sinistra su un conflitto che la nostra memoria ancora rimuove o traveste da scampagnata coloniale”.
Tutto comincia con un primo caso, grazie il ritrovamento da parte di un dottorando dell’università di Torino di un pacco di telegrammi dimenticati in un faldone dal titolo ‘Varie’ presso l’archivio dell’ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito di Roma. Dentro, un manoscritto senza firma, una mappa, altri documenti di conferma e un contenuto agghiacciante.
A riemergere dall’oblio del passato e dalla profondità delle grotte naturali presenti nell’area montuosa di Debra Berhan -100km a nord di Addis Abeba, nell’alto Scioà- sarebbe la conferma di una strage avvenuta tra il 9 e l’11 aprile 1939.
In base a quanto rinvenuto dal ricercatore, nel luogo indicato dalla mappa e in quei giorni vennero fucilate dopo la resa o avvelenate con i gas più di mille uomini, donne, vecchi e bambini, componenti una carovana del reparto ‘salmerie’ dei partigiani di Abebè Aregai, leader del movimento di liberazione etiope, rifugiatisi nella grotta dopo essere stati individuati dall’aviazione e circondati da un numero soverchiante di militari italiani.
Il gruppo è in realtà composto in larga misura da fuggitivi, feriti, anziani, donne e bambini, parenti degli uomini in armi, che garantiscono la cura dei feriti e l’appoggio dei partigiani alla macchia e da alcuni combattenti guidati da Tesciommè Sciancut.
L’ordine del Duce è perentorio: stroncare la ribellione. Ma stavolta stanare i ribelli è impossibile, così il 9 aprile la grotta viene attaccata con bombe a gas d’arsina e con la micidiale iprite nonostante l’Italia abbia firmato la messa al bando internazionale di queste armi letali sancita dalla Convenzione di Ginevra del 1928.

Fonte: Pagine Esteri cit. infra

Dalle carte emergono dati incredibili.
Nella grotta il “bombardamento speciale” sarebbe stato portato a termine dal ‘plotone chimico’ della divisione Granatieri di Savoia, da sempre ritenuta una delle più ’nobili’ delle nostre Forze Armate e si sarebbe svolta secondo strategie, procedure e fatti inenarrabili.

Fonte: Pagine Esteri cit. infra

[…] La notte successiva, una quindicina di ribelli armati avrebbe tentato una sortita riuscendo a scappare. Molti cadaveri vennero gettati fuori dalla grotta. Moltissimi si arresero all’alba del giorno 11. Ottocento persone, si legge nel documento, in quel mattino stesso vennero fucilate su preciso ordine dato dal Governo Generale, cioè o dal generale Ugo Cavallero o dallo stesso Amedeo di Savoia.
Ma non è finita. Dentro c’è chi resiste ancora – uomini, donne e animali – e i nostri chiedono i lanciafiamme per “bonificare” l’antro, ramificatissimo.
I dettagliati telegrammi degli alti comandi sono istantanee dall’inferno. “Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare at termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche”.
Le prove, schiaccianti, entrano nella tesi di dottorato ma mancano ancora i riscontri sul campo, così il ricercatore organizza una missione col supporto dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia e viene accompagnato dal giovane studioso etiope Johnatan Sahle.
La mappa trovata allo Stato maggiore consente di individuare facilmente la zona, a un giorno di macchina dalla Capitale, in un altipiano di grotte e punteggiato di chiese copte, attorno alla cittadina di Ankober, 2600 metri di quota, sulle valli dei fiumi Uancit e Beressà. È dai preti dei villaggi che arrivano le prime conferme (“non ottocento, ma migliaia di morti”) e l’indicazione delle strada giusta, fino al paesino di Zemerò, e poi – per altri 30 chilometri fuori pista – fino al villaggio di Zeret, una ventina di tukul in pietra e paglia, 180 metri a picco sopra la bocca dell’inferno.
Il nome della grotta dice già tutto: Amezegna Washa, antro dei ribelli. Sotto, il fiume Ambagenen, che vuol dire Fiume del Tiranno. All’imboccatura, lo stesso muretto protettivo descritto nei rapporti dell’esercito italiano.
[…] Paolo Rumiz pare non avere più dubbi sia sui fatti che sulle conclusioni da trarre e aggiunge: “No, il camerata Kappler non fu peggio di noi. Il governatore della regione di Gondar, Alessandro Pirzio Biroli, di rinomata famiglia di esploratori, fece buttare i capitribù nelle acque del Lago Tana con un masso legato al collo. Achille Starace ammazzava i prigionieri di persona in un sadico tiro al bersaglio, e poiché non soffrivano abbastanza, prima li feriva con un colpo ai testicoli. Fu quella la nostra ‘missione civilizzatrice’? L’ Africa per noi non fu solo strade e ferrovie. Fu anche il collaudo del razzismo finito poi nei forni di Birkenau. Negli stessi anni, un altro personaggio con la fama di ‘buono’ – Italo Balbo governatore della Libia – fece frustare in piazza gli ebrei che si rifiutavano di tenere aperta la bottega di sabato. Quanti perfidi depistaggi della coscienza”.
“C’è bisogno di parlarne” – conclude Matteo Dominioni, l’autore della tragica scoperta in Etiopia – “il vuoto storico e morale da riempire è enorme”.
Tutto è cominciato così e così tutto continua per un secondo puro caso consecutivo, dal momento che lo stesso cognome, Dominioni, appartiene anche ad un altro ricercatore sul campo, Paolo Caccia Dominioni, conte di Sillavengo, il Sandgraf – Conte della Sabbia – come lo avevano soprannominato i generali tedeschi o il “samaritano del deserto”, cioè colui che percorse 30.000 chilometri nel corso di 355 ricognizioni che lo portarono a recuperare, riconoscere e raccogliere, ad uno ad uno, i resti dei suoi commilitoni caduti in Libia e in Egitto dopo oltre quattro mesi ininterrotti di attacchi e contrattacchi, offensive e controffensive, nel corso della più grande battaglia della seconda guerra mondiale combattuta in Africa, e che si concluse il 23 ottobre 1942 ad El Alamein, stabilendo la tragica fine dell’avventura coloniale italiana.
Franco Ferioli, Colonialismo. La strage italiana della “grotta dei ribelli”, Pagine Esteri, 3 giugno 2021

Fonte: Q Code cit. infra

[…] Nel nord della regione dello Scioa, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope Addis Abeba, esiste una zona denominata Caia Zeret o GajaZeret-Lalomedir. Poco distante dal centro abitato di Zemerò, un piccolo agglomerato di tucul chiamato Kampo, si affaccia su un dirupo alto circa 180 metri. Da un lato del villaggio, nel punto meno ripido, scende un sentiero che costeggia il canyon.
Improvvisamente, a metà d’una parete a strapiombo che chiude un vallone, si apre un gigantesco antro basaltico con un’imboccatura alta quattro o cinque metri e larga oltre ottanta.
Una ferita orizzontale sull’enorme muro di roccia. Una bocca oscura e profonda. È l’Amazegna Washa, la “grotta dei ribelli”, una delle pagine più oscure della storia italiana. Una macchia indelebile rimasta offuscata e inghiottita dalle tenebre perché il tempo ne ha oramai eroso le prove.
All’imboccatura c’è un piccolo muro a secco simile a una trincea. Poi inizia l’antro che si biforca in due diverse gallerie su differenti livelli le quali a loro volta si ramificano tanto da rendere difficile valutarne la profondità. Lasciata l’ampia entrata, l’umidità aumenta e i soffitti si abbassano notevolmente. A tratti si deve procedere in ginocchio, mentre l’oscurità avvolge ogni cosa ed è necessario utilizzare delle torce.
Al livello più basso della galleria di destra si incontra un laghetto di un centinaio di metri cubi d’acqua che si forma per stillicidio. Si procede zigzagando tra rocce, pipistrelli e insetti. Poco dopo si comincia a notare qualcosa di insolito. Pietre annerite da quella che pare fuliggine e strani massi con fori apparentemente artificiali.
Grosse ceste per il trasporto dei cereali, stracci e vecchie vesti dimenticate, appaiono all’improvviso. Profondi buchi circolari nel terreno somigliano ad antichi forni o forse cisterne per la conservazione degli alimenti. Alcuni bossoli sono sparsi sul terreno e infine, ossa umane.
Di colpo l’ambiente diviene spettrale. Le torce illuminano scheletri sparsi ovunque tra pietre e pagliericcio secco. Raggi di luce attraversano vertebre, mandibole e teschi. Diversi resti sembrano appartenere a bambini. Su alcuni è presente ancora la pelle, conservata grazie al clima della grotta. Si contano tra i 18 e i 20 corpi, ma è difficile esserne certi.
Nel 1939 la Guerra di Etiopia si era ufficialmente conclusa da tre anni, ma la conquista fascista si rivela una vittoria di Pirro. La resistenza etiope si diffonde a macchia d’olio e mette a dura prova gli occupanti che esercitano un reale controllo per lo più nei centri urbani.
Il ministro delle Colonie Alessandro Lessona era riuscito a far rimuovere dall’incarico di viceré Rodolfo Graziani, conosciuto per i suoi metodi brutali (la strage di Addis Abeba e il massacro di Debra Libanos nel 1937 per fare qualche esempio) e al suo posto era stato nominato Amedeo duca d’Aosta.
Quest’ultimo aveva cominciato a combinare azioni militari e negoziazioni politiche con i partigiani etiopi. Nonostante l’evoluzione del carattere politico dell’occupazione, quello militare applica lo stesso modus operandi.
Al comando delle forze armate fasciste dell’Africa Orientale c’era il generale Ugo Cavallero, un uomo dalle scarse capacità militari e gestionali, ma certamente più affine al “metodo Graziani” che al nuovo corso. Fu lui a lanciare e dirigere dall’alto un’imponente offensiva militare tra il febbraio e l’aprile del 1939 proprio nel Nord Scioa, denominata “Operazione di grande pulizia”.
La regione dello Scioa era di grande importanza strategica per gli italiani. Da lì passavano le principali vie di comunicazione che collegavano Addis Abeba al nord della colonia ma allo stesso tempo quella stessa regione era anche la roccaforte della resistenza etiope supportata dalla popolazione: gli arbegnuoc, guidati dall’astuto Abebe Aregai, che aveva la sua base nei pressi di Ancober, l’antica capitale dello Scioa.
Gli arbegnuoc portavano avanti azioni di guerriglia. Assaltavano intere colonne, si impadronivano del bottino e fuggivano fra i monti e le foreste. Per le truppe fasciste era impossibile seguirli e combattere su quel territorio. Quelle che all’inizio sembravano azioni di brigantaggio divennero gradualmente un gravissimo problema per “l’Impero”, che non poteva più tollerare la situazione e quindi aprì un nuovo fronte di guerra.
Fu questo a far scattare una vasta operazione militare in cui venne utilizzata artiglieria, aviazione e un ingente numero di truppe formate per lo più da ascari eritrei con a capo ufficiali italiani. L’offensiva più distruttiva partì tra il 14 marzo e 12 aprile del 1939 nelle zone attorno a Debra Berhan. L’alto comando delle forze armate di Roma ordinò di schiacciare definitivamente ogni forma di ribellione e Mussolini in persona scrisse ai comandanti responsabili: “Che nessuna tregua sia data ai fuggiaschi”.
Si arriva così ai primi giorni di aprile. Gli arbegnouc di Aregai sono quasi accerchiati dalle truppe del colonnello Orlando Lorenzini, comandante del settore nord orientale dello Scioa, nella zona di Caia Zeret.
Mentre le maglie fasciste si stringono inesorabili, il leader partigiano riesce a sfuggire assieme ai suoi armati, ma una colonna più vulnerabile guidata da uno dei luogotenenti di Aregai, Teshome Shancut e Shen Kut, viene individuata da un ricognitore della Regia Aeronautica Italiana mentre si dirige verso quello che Shancut considera il posto più sicuro per mettere in salvo la sua gente: l’Amazegna Washa.
Il gruppo è formato da qualche centinaio di guerriglieri e un gran numero di feriti, anziani, donne e bambini. Si tratta in pratica della salmeria dei ribelli che, oltre a rifornirsi sul territorio, erano soliti portare con sé i loro famigliari. Il colonnello Lorenzini ordina quindi al tenente colonnello Gennaro Sora, a capo del XX battaglione eritreo, di accerchiare e distruggere Teshome Shancut e le sue truppe.
Intorno al 3 aprile inizia l’assedio alla grotta. Gli arbegnuoc oppongono una strenua resistenza che inizialmente ha successo. Le truppe italiane si trovano in difficoltà perché le ripide pareti ai lati della caverna sono esposte al fuoco nemico. Gli ascari usano mitragliatrici, artiglieria, granate e proiettili lacrimogeni, ma non riescono a snidare i partigiani, che nella grotta hanno costruito un luogo sicuro, avendo a disposizione acqua, bestiame e riserve di cibo. Un gruppo di arbegnuoc tenta disperatamente di rompere l’assedio, ma viene respinto dagli artiglieri del battaglione di Sora.
La situazione è in stallo nonostante l’arrivo dei lanciafiamme. Dopo quasi sette giorni di assedio il comando decide di chiamare il plotone chimico dal porto di Massawa in Eritrea. Gli uomini, dei granatieri di Savoia, tra cui il tenente Freda e il maggiore Alessandro Boaglio, giungono a Kampo con un centinaio di proiettili di artiglieria carichi di arsina e una bomba aeronautica C500T contenente circa 212 chilogrammi di iprite.
L’arsina è un gas infiammabile altamente tossico, incolore e inodore che di rado viene utilizzato come arma chimica perché difficile da manipolare, mentre l’iprite (o gas mostarda) è un’arma chimica ben nota durante la Grande Guerra e già utilizzata in più di un’occasione dalle truppe italiane.
Il 9 aprile il plotone chimico travasa l’iprite della C500T all’interno di 12 bidoncini collegati a dei detonatori elettrici. Dopo essere stati fatti calare di fronte all’entrata della grotta, vengono fatti oscillare ed esplodere. Il gas tossico inizia a invadere la porzione più esterna della caverna che viene colpita nuovamente con gas lacrimogeni. Gli effetti sono devastanti. Inizia l’inferno di Amazegna Washa.

Fonte: Q Code cit. infra

ll contatto iniziale con l’iprite è indolore, ma penetra nella pelle in profondità passando anche attraverso i vestiti impermeabili e causa il blocco proliferativo dei tessuti cutanei. Dopo qualche ora la pelle si gonfia in enormi vesciche che poi si trasformano in piaghe che espongono all’aria la carne viva. Il gas poi provoca gravi emorragie interne, oltre ad attaccare l’apparato respiratorio e a causare cecità. Il dolore è inesprimibile.
Con appena 0,15 mg d’iprite per litro d’aria questo gas è letale in circa dieci minuti, mentre con esposizioni minori l’azione è lenta e si muore anche dopo una giornata dopo atroci sofferenze.
Molti degli arbegnuoc che si trovano vicino all’entrata della grotta soccombono velocemente, mentre la maggior parte di coloro che si trovano all’interno subiranno gli effetti dell’esposizione successivamente. Fra urla di dolore e fughe disperate nella nebbia del gas, Teshome Shancut tenta una fuga a sorpresa assieme a 15 dei suoi, fuga che contro ogni previsione riesce.
Il resto delle persone rimaste dentro la grotta, capitanate da un vice di Shancut, Gelamt Esu Balew, resiste ancora un giorno. Ma l’iprite ha un’altra caratteristica: resta in sospensione a lungo, inquina il terreno e anche l’acqua. Come infatti avviene a Caia Zeret.
Con l’acqua del lago contaminata, i rifugiati nella grotta sono allo stremo delle forze. L’11 aprile, ricominciano a piovere raffiche di mitragliatrici, lanciafiamme, granate e proiettili lacrimogeni dal faraglione in cui erano appostati gli italiani. A quel punto i partigiani si arrendono e, attraversando la zona contaminata, iniziano ad uscire accompagnati da donne e bambini.
Gli uomini, circa 800, vennero immediatamente fucilati a gruppi di cinquanta sull’orlo del burrone, come da ordine supremo del duce, mentre donne e bambini furono trattenuti per breve tempo nei pressi dell’accampamento militare italiano e poi liberati. Là dove oggi sorge il già citato Kampo (da “campo militare”).
[…]
È questa la ricostruzione più plausibile di ciò che avvenne in quei giorni che macchiarono per sempre la storia italiana. Un massacro ignobile in cui venne violato ogni punto della Convenzione di Ginevra utilizzando armi chimiche illegali su donne e bambini e fucilando uomini che si erano arresi.
A quasi 80 anni di distanza la reale portata delle vittime di questo sterminio è avvolta in una nube di mistero. Difficile dire se gli italiani sapessero che all’interno della grotta c’erano anche donne, vecchi e bambini. Verosimilmente i morti dentro e fuori la caverna potrebbero aggirarsi tra gli 800 e i 1500, mentre sul fatto che gli alti ranghi fossero a conoscenza non sembrano esserci dubbi.
Questa strage è riemersa solo nel 2006 grazie agli studi del giovane ricercatore dell’Università di Torino e allievo dello storico Angelo Del Boca, Matteo Dominioni, che durante le sue ricerche si è imbattuto per caso in una serie di documenti dimenticati all’interno dell’ufficio storico dello Stato maggiore dell’Esercito.
In quel faldone ha trovato un telegramma del 14 aprile 1939 che riportava: “Si prevede che fetore cadaveri et carogne impediscano portare a termine esplorazione caverna che in questo sarà ostruita facendo brillare mine. Accertati finora 800 cadaveri, uccisi altri sei ribelli. Risparmiate altre 12 donne et 9 bambini. Rinvenuti 16 fucili, munizioni et varie armi bianche”.
Era il colonnello Lorenzini che si rivolgeva al generale Cavallero. Il ricercatore si incuriosisce. Nella cartella c’è anche un manoscritto anonimo in cui si descrive l’avvistamento delle salmerie, il plotone chimico e la fucilazione di 800 persone. Ulteriori ricerche portano ad altre conferme nelle memorie del maggiore Boaglio in cui si descrive l’utilizzo del gas. Poi parte per l’Etiopia in cerca della grotta assieme al ricercatore Yonathan Sahle, che qualche anno dopo tornerà per mapparla.
Dominioni pubblica la sua ricerca e poi scrive il libro Lo sfascio dell’impero nel 2008, portando alla luce i dettagli di un’altra vergognosa vicenda italiana dei tempi coloniali. Un evento andato ad aggiungersi agli altri casi emersi dopo che nel 1996 il governo Dini desecretò i documenti dell’epoca.
Non sono mancate le critiche che hanno impedito la dovuta divulgazione della scoperta. Oltre ai politici “nostalgici” come l’ex presidente della Camera, Gianfranco Fini, che nel 2010 definì “fesserie” le scoperte di Dominioni in un comizio di Alleanza Nazionale, ci sono anche quelle di chi vede intaccata la memoria delle forze armate.
Il plotone chimico che ha agito a Caia Zeret apparteneva alla 65ª Divisione fanteria “Granatieri di Savoia”, considerata tra le più nobili del nostro esercito. L’ufficiale degli alpini a capo del XX battaglione eritreo, Gennaro Sora, non era un militare qualunque, ma “l’Eroe del Polo” che combatté nel primo e secondo conflitto mondiale e nel mezzo partecipò a una spedizione nel Polo Nord. A Foresto Sparso, paesino natale dell’alpino in provincia di Bergamo, il suo nome è leggenda.

Fonte: Q Code cit. infra

In una piccola capanna di Kampo vive una dei pochissimi testimoni di ciò che avvenne in quei giorni del 39. Tekabe Kershe ha 98 anni, è cieca e molto debole. La figlia Eifimesh Tegname parla per lei.
“Era incinta molto giovane e ha vissuto per almeno 15 giorni rifugiandosi nella caverna. Mio padre Femtik Tegname era un patriota e combatté nella grotta. Qualche giorno prima dello scontro mia madre partorì, così mio padre la inviò nella zona della chiesa copta che si trovava vicino al Wenchitriver. Per questo si salvò”. Posa una mano sulla spalla della madre e poi prosegue, “mio padre era valoroso e per questo tutti ci rispettano ancora adesso. Riuscì a fuggire prima che gli italiani fucilassero gli uomini che in gran parte sono stati anche legati assieme e buttati giù dalla rupe.”
Questo è uno dei tanti elementi in più che emergono nelle diverse versioni riportate da testimonianze etiopi dirette e indirette. Resoconti e interpretazioni oramai difficili da accertare.
Su una cosa tutti gli etiopi sembrano però essere concordi. Le vittime sarebbero state almeno 5000 dentro e fuori l’Amazegna Washa. “Anche se sono vecchio e dimentico molte cose. Quello che però vidi in quei luoghi non potrò mai dimenticarlo”, afferma Shewantasew Yimraw seduto su una sedia all’esterno del circolo dei patrioti etiopi di Addis Abeba, un altro degli ormai rari testimoni diretti dei fatti. È vestito in alta uniforme e mette bene in mostra le medaglie delle battaglie combattute durante il regime del Derg. “Ero un bambino e mio padre mi portava sempre con lui. Anche quando andò a vedere cosa era accaduto nella grotta. Morirono moltissime persone. Così iniziammo a recuperare i corpi per seppellirli”.
[…] C’è però anche chi da una versione decisamente ridotta della strage di Caia Zeret. Lo scrittore Dewit Kidane Afework, autore di diversi libri sulla storia etiope tra cui Netzaneneth (Libertà) in uscita a novembre, Sole nero e I racconti dell’Entoto, ritiene che senza un’adeguata documentazione dei fatti sia azzardato affermare che in quelle grotte ci fossero 5000 persone.
“Stando alle carte a disposizione non avranno superato qualche centinaio. Possiamo affermare con certezza che sia stato usato il gas, che siano stati uccisi uomini che si erano arresi e che all’interno ci fossero anche donne e bambini, ma sui numeri mi sento di dissentire. Quelle grotte non possono accogliere così tanta gente, non cerchiamo sempre scoop superficialmente. E poi, se è andata veramente così, perché questo fatto, tanto dibattuto dagli Italiani, venne da noi dimenticato o quasi nascosto?”.
I motivi possono essere trovati nella storia. Quando l’Imperatore Hailé Selassié tornò al potere nel 1941, non c’era molto interesse a raccogliere informazioni sull’occupazione. Il sovrano era fuggito nel Regno Unito nel 1936 e molti lo criticavano ancora per questo. Per ragioni politiche, sia il re che parte dell’élite fuggita all’estero con lui evitava di scavare nelle tragedie degli anni dell’occupazione fascista. Anche durante gli anni del regime comunista del derg, fare ricerche del genere non fu certo prioritario.
“Contemporaneamente c’è il ruolo di noi inglesi”, aggiunge lo storico Ian Campbell, uno dei massimi esperti del periodo e autore del libro The Addis Ababa Massacre Italy’s National Shame del 2017, nella sua villa stracolma di oggetti di antiquariato etiopi in un quartiere periferico di Addis.
“Il governo di Londra in quel momento faceva da garante per quello etiope. Anche loro non avevano interesse a rendere pubblici i crimini di guerra commessi dagli italiani. Prima di tutto perché ne avevano riconosciuto l’occupazione nel 36 e poi perché ora l’Italia faceva parte degli alleati. Quindi era una questione di immagine. Non era conveniente parlare di quello che avevano fatto.” Campbell ne fa anche una questione di memoria fra generazioni. “La memoria è qualcosa di complesso. C’è quella di chi ha visto e quella di chi ha solo ascoltato. Se si salta la generazione di chi ha visto per i motivi suddetti si perde già una fetta del racconto. 20 o 30 anni fa c’era ancora qualcuno che ricordava… ma ora giochiamo con le probabilità”.
Nella cultura etiope, come del resto in Africa, non è usuale tramandare la storia per iscritto. Si racconta di padre in figlio o tramite canzoni. “Da qui nasce la tendenza all’esagerazione. Gli etiopi del dopoguerra avevano la tendenza ad aumentare i numeri per ingigantire tragedie e vittorie. Una pressione psicologica legata all’orgoglio”, continua lo studioso inglese.
Dall’altro lato non si possono nemmeno considerare attendibili i contenuti dei documenti ufficiali dei fascisti. “I resoconti non erano sempre professionali. Gli ufficiali spesso sovrastimavano o sottostimavano a seconda della convenienza. Si doveva far vedere che ‘l’impero” era sotto controllo”. Le beffe subite da Abebe Aregai avrebbero esposto i comandi italiani al ridicolo. Dunque “cifre, stime, informazioni sull’occupazione italiana coprono sempre un ampio ventaglio e la verità, anche nel caso della strage di Caia Zeret, è probabilmente nel mezzo” per ciò che riguarda numeri e particolari ormai inverificabili.
“Sono stati dei diavoli – afferma il vecchio Shewantasew Yimraw, mentre si alza per allontanarsi sorreggendosi su un vecchio bastone. Mette in ordine le decine di medaglie appese al petto, poi si volta – I fascisti ci hanno fatto del male. Ma solo loro…non il popolo italiano. Ditelo ai giovani del vostro paese. Non siate come loro!”.

Fonte: Q Code cit. infra

Franco ZambonDavide Lemmi – Marco Simoncelli, Etiopia. Come li aiutammo a casa loro, Q Code, 11 settembre 2018