La collaborazione di La Cava a «Il Mondo» si conclude definitivamente nel 1954

Mario La Cava fu tra i primi collaboratori de «Il Mondo» <314, la rivista fondata da Pannunzio nel 1949, allo scopo di costituire una ‘terza forza’ fra lo schieramento cattolico e quello comunista, attorno alla quale convogliare la cultura laica e liberale della nazione. I primi contatti fra La Cava e Pannunzio risalivano, come si è detto, ai primi anni Trenta, quando alcuni racconti e caratteri lacaviani circolavano sui rotocalchi di Longanesi (di cui Pannunzio era stato redattore) e sulla rivista «Caratteri», fondata dallo stesso Pannunzio e da Delfini nel 1933. La collaborazione al settimanale romano fra i più diffusi del secondo dopoguerra, è stata, per La Cava, un’esperienza infelice: «provo un’invincibile ripugnanza a collaborare su quel giornale («Il Mondo»), forse per reazione alle umiliazioni infinite che io ho avute da parte di quella direzione arrogante e invidiosa» <315, si legge in una missiva del 1953 indirizzata a Sciascia. Potremmo senz’altro interpretare queste parole come lo sfogo di un intellettuale relegato in periferia e insofferente per le difficoltà riscontrate nell’intrattenere contatti stabili con i centri culturali ed i loro referenti, ma di certo il giudizio severo di La Cava si somma ad altre valutazioni negative del settimanale diretto da Pannunzio e degli intellettuali ad esso legati. Si pensi, in via esemplificativa, al giudizio espresso, a tal proposito, da Alberto Asor Rosa <316, il quale, nel polemizzare contro la natura superficiale e salottiera dell’impegno degli intellettuali gravitanti attorno alla figura di Pannunzio, definisce l’«aristocratico intellettualismo terzaforzistico» <317 incarnato dal settimanale da lui diretto un’involuzione della tradizione giornalistica di fronda antifascista cui aveva dato avvio Leo Longanesi, considerando «Il Mondo» un giornale strettamente legato agli ambienti mondani della capitale, l’espressione di un milieu intellettuale aristocraticamente chiuso in sé. Tuttavia, La Cava decise di continuare per alcuni anni la difficile collaborazione al settimanale romano che negli anni asfittici del revisionismo democristiano rappresentava uno dei pochi spazi d’intervento accessibili alle voci laiche e liberali in un quadro culturale, come si è detto in precedenza, fortemente compromesso dal controllo delle forze politiche <318. Un’altra valida ragione per la quale lo scrittore calabrese intese non rinunciare a questa problematica collaborazione sta nel fatto che, nel panorama giornalistico nazionale postbellico, si assiste al boom della stampa periodica e dei settimanali illustrati di cultura e di attualità, dei quali «Il Mondo» rappresentò una delle massime esemplificazioni, accanto a «L’Europeo» e a «L’Espresso» di Arrigo Benedetti. A differenza delle riviste specificatamente letterarie, e meglio di quei periodici come «Il Ponte» di Calamandrei che all’impostazione politica univano uno spazio riservato alla cultura e alla letteratura, i settimanali di attualità riuscivano ad appassionare un pubblico vastissimo e stratificato, per mezzo di una formula in cui l’informazione politica, la cronaca, la nota di costume, l’inchiesta e la scrittura letteraria erano fuse in maniera accattivante. La stampa ebdomadaria rappresentò in tal senso uno spazio giornalistico molto ambito dagli scrittori che trovavano in essa la possibilità di esprimersi in maniera più libera di quanto non fosse possibile attraverso la collaborazione alla terza pagina dei quotidiani d’informazione <319.
Gli interventi lacaviani sul periodico di Pannunzio s’inseriscono nel quadro del dibattito meridionalistico di matrice liberale e progressista al quale «Il Mondo» diede ampio spazio in tutto l’arco della sua esistenza, ospitando sia contributi d’impostazione teorica come quelli di Gaetano Salvemini, Manlio Rossi-Doria, Francesco Compagna, Ugo La Malfa, Vittorio De Caprariis, sia articoli dal taglio giornalistico come le inchieste di Anna Garofalo e i reportages di Giovanni Russo, Salvatore Rea e di molti altri scrittori <320. Sarà il gruppo di intellettuali formatisi all’Istituto di studi storici di Benedetto Croce (i già citati Compagna e De Capraris, oltre a Guido Macera e Renato Giordano), già collaboratori de «Il Giornale» e del «Mattino d’Italia», a convincere il direttore Pannunzio della necessità di «inserire la questione meridionale fra le battaglie per l’affermazione di un moderno Stato liberale» <321 e di trasferire il dibattito meridionalistico sulle pagine del settimanale romano dopo che i quotidiani meridionali, caduti sotto il controllo della classe dirigente locale, erano stati degradati a un livello di conformismo e di piattezza informativa esasperante. «Il Mondo» come luogo di discussione privilegiato, dunque, dei problemi del Mezzogiorno che l’Italia avrebbe dovuto necessariamente superare per avviarsi, all’indomani della guerra, sulla via del progresso con la stessa forza di tutte le altre nazioni europee. Ma le posizioni ideologiche dei singoli redattori del giornale differivano, e di molto, nella valutazione dei provvedimenti governativi finalizzati alla rinascita della depressa economia meridionale, come in quella di tutte le altre questioni politiche e sociali del dopoguerra italiano. Per questo motivo, le battaglie intraprese dalla rivista, in sé priva di una precisa e unanime linea politica, si conclusero spesso con risultati poco incisivi.
Tra i temi più dibattuti sulle pagine del settimanale di Pannunzio occupa un posto di primo piano la riforma agraria che, assieme al dibattito relativo all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno (1950), rappresentò uno degli snodi politico-economici più importanti del quadro politico italiano degli anni Cinquanta. In questo ambito, gli interventi di maggior rilievo furono quelli dell’economista Manlio Rossi-Doria, fra i principali artefici e sostenitori della riforma. Partecipando in prima persona agli esperimenti di esproprio e di redistribuzione delle terre in alcune aree del meridione, egli potè dare una testimonianza diretta sulle difficoltà insite nella messa in atto dei provvedimenti riformatori varati <322. Il limite maggiore della riforma risiederebbe, secondo Rossi-Doria, nel fatto di esser stata concepita come un insieme di provvedimenti manovrato dall’alto dagli enti governativi e applicato in blocco a tutte le regioni meridionali, senza tener conto della grande varietà territoriale delle diverse aree del Mezzogiorno, o dell’impatto sociale della riforma sulle masse contadine. A questa linea di pensiero si dimostra vicino anche La Cava in un articolo sui contadini di Melissa, la cittadina calabrese che fu teatro dei primi moti contadini del secondo dopoguerra <323. Determinante, per l’ideazione di questo articolo, è stato per La Cava l’incontro con Rocco Scotellaro <324 e il racconto di quest’ultimo relativo ad un viaggio in Calabria da lui compiuto nel 1952 in compagnia di Carlo Levi per osservare da vicino i primi risultati della riforma agraria nella regione <325. Ciò che i due visitatori di eccezione ebbero modo di vedere è riportato in una lettera datata 11 dicembre 1952 scritta da Scotellaro a conclusione del soggiorno in Calabria al suo maestro Rossi-Doria <326. Lo scenario è quello di «un mondo sconvolto dal di fuori con l’applicazione della legge per la Sila e intimamente restio e incredulo e cinico» <327, ma anche pieno di speranza e di entusiasmo per le grandi opere di ricostruzione in atto nei diversi villaggi. Inevitabilmente, però, Levi e Scotellaro si scontrano, nel corso della loro ricognizione, nell’atteggiamento di diffidenza dei lavoratori calabresi, i quali, prospettavano le loro condizioni di vita in un insieme indistinto di «speranza e malcontento, di protesta e di collaborazione» <328. Mentre Scotellaro si dimostra particolarmente interessato a valutare le deficienze di ordine tecnico della riforma, l’attenzione di Carlo Levi si rivolge invece ad analizzarne l’impatto sociale sulla secolare civiltà contadina. Egli comprende che la sola riforma fondiaria non sarebbe stata in grado di porre fine alla «lotta storica per il possesso della terra», dal momento che attorno ad essa si muovevano «tutte le forze politiche tradizionali del Mezzogiorno» <329, ognuna delle quali agiva in contrasto alle altre allo scopo di ristabilire il proprio potere e attrarre a sé il consenso delle masse contadine.
Allo stesso modo, anche La Cava nel suo resoconto del viaggio a Melissa, raccoglie la testimonianza di tanti lavoratori che criticano la riforma da ogni punto di vista. Dinnanzi al coro di lamentele dei contadini che gli si affollano attorno, egli ha inizialmente un moto d’indignazione: quegli uomini «che nemmeno Salomone in persona» avrebbe messi d’accordo, appaiono ai suoi occhi talmente chiusi nella loro antica diffidenza verso lo Stato e le sue istituzioni, da aver smarrito il valore storico di quella riforma che, pur tra ritardi ed inefficienze, rappresentava il primo tentativo concreto di modernizzazione del Mezzogiorno. Nel finale del suo articolo però, lo scrittore, dopo aver tentato in ogni modo di dare spiegazioni razionali all’irrazionale sfiducia contadina, conclude il suo resoconto, com’era prevedibile, nella convinzione che l’atteggiamento dei lavoratori derivasse da un pesante retaggio storico, fatto di soprusi e di ingiustizie subite nel corso dei secoli e che nessuna riforma avrebbe potuto facilmente cancellare:
Ma che cosa è da pensare di questi contadini abbruttiti da uno stato perenne di guerra? Per i quali la menzogna e la frode sono stati sempre necessari alla vita? E che non hanno mai conosciuto altri che l’uomo brutale, interessato soltanto alla loro resistenza fisica e cieco dei bisogni dell’anima? Quando verrà il giorno in cui l’asservimento sia un ricordo lontano?” <330
L’esperienza di Melissa rinsalda nello scrittore una convinzione più volte ribadita nei Misteri della Calabria: la riforma agraria ideata per risolvere le problematiche contingenti di tipo materiale del meridione avrebbe dato i suoi frutti soltanto se avesse saputo determinare un cambiamento nelle coscienze individuali e una nuova consapevolezza civile fra gli italiani. E quanto lontano fosse questo traguardo La Cava racconta in un altro articolo di qualche anno precedente <331. Il brano è il racconto breve in prima persona di un ‘complotto’ ai danni dello Stato, cui egli stesso prende parte per aiutare un’anziana colona alle prese con una contravvenzione che anche il suo datore di lavoro aveva puntualmente tentato di non pagare. Una piccola occasione, al solito, offre allo scrittore lo spunto per una riflessione più approfondita: da un lato, egli non può fare a meno di biasimare il malcostume dei suoi concittadini evasori, ma valutando la condizione dei più deboli, egli è consapevole del fatto che essi vedano nello Stato un’entità lontana e nemica che li costringe a una quotidiana lotta contro la miseria. Insomma, La Cava descrive, in questo bozzetto dedicato al suo paese natale, una situazione piuttosto complicata, un microcosmo ancora pressoché completamente dominato dall’ignoranza e dalla povertà, che non lascia tempo alla riflessione né spazio agli ideali, in quanto «la vecchietta era là sul campo punteggiato di ulive cadute, ad attendere una parola di consiglio e di aiuto!» <332 E così, lo scrittore, ritorna a casa con «il cuore tranquillo» solo dopo aver complottato per evitare all’anziana donna il pagamento della multa e facendo ricorso a un piccolo imbroglio «da tessere allo stato, per fare un’opera buona» <333.
Numerosi articoli lacaviani di questo periodo sono ascrivibili al genere dell’inchiesta e del reportage di viaggio che ebbe ampia diffusione nell’Italia postbellica. Alla molteplicità degli interessi cultuali e alla diversa formazione dei vari scriventi si deve la natura ibrida di queste inchieste, il cui contenuto oscilla tra l’interesse letterario e l’indagine socio-antropologica sui luoghi visitati. Emblematiche in tal senso furono le inchieste di Rocco Scotellaro che Carlo Levi definì, mettendone in rilievo sia il sostrato letterario sia l’interesse scientifico, una «sociologia poetica del Mezzogiorno» <334. In particolare La Cava scrive nei primi anni Cinquanta, su incarico di Felice Filippini, alcune inchieste radiofoniche trasmesse su Radio Monte Ceneri sul tema della cultura nell’Italia meridionale, e nel biennio 1955-1956 alcuni resoconti di viaggio per «Il Giornale» di Napoli, allora diretto da Carlo Zaghi <335. Il modello di riferimento per questi scritti lacaviani può essere individuato nei reportages della scrittrice francese Maria Brandon Albini, nei quali la riflessione sulle condizioni sociali e culturali delle regioni meridionali è sempre mediata da una conoscenza ‘letteraria’ dei luoghi visitati <336. L’aspetto originale delle corrispondenze lacaviane consiste nella scelta di raccontare i paesi e le città visitate non attraverso la consueta denuncia del loro degrado, ma dando rilievo alle realtà positive ed apprezzabili presenti in esse. La Cava impronta le inchieste nel segno del risveglio civile, della rilevazione di attività culturali che si sviluppano nonostante i limiti materiali delle realtà provinciali e mette in risalto il lavoro di case editrici, riviste, biblioteche, gallerie d’arte e musei che con il loro operato contribuivano alla rinascita culturale della nazione.
La collaborazione di La Cava a «Il Mondo» si conclude definitivamente nel 1954 con un articolo polemico dal titolo “Letterati a convegno” <337, redatto a pochi giorni dalla partecipazione al Convegno sulla narrativa siciliana tenutosi a Palermo nel 1953 <338. Si tratta di una pesante invettiva nei riguardi di quanti, fra i presenti all’evento, si erano contraddistinti agli occhi di La Cava per un atteggiamento distaccato e altezzoso. Il brano è una critica dal tono irriverente rivolta ai letterati a caccia di ritrovi mondani e, pur non contenendo riferimenti espliciti, suscitò indignazione negli ambienti vicini alla rivista di Pannunzio che, da quel momento, interrompe pressoché definitivamente i contatti con lo scrittore calabrese. Una conseguenza negativa inevitabile dell’irriverente articolo lacaviano, che Sciascia aveva preconizzato: «Mio caro Mario, sei stato terribile con quella noticina sui letterati a convegno. L’ho trovata deliziosa. Ma qualcuno, che vi si riconoscerà, non te la perdonerà mai» <339.
[NOTE]
314 Tra i numerosi studi dedicati alla rivista di Pannunzio segnaliamo: AA. VV., I diciotto anni de «Il Mondo», Roma, Edizioni della Voce, 1966; P. Bonetti, «Il Mondo» 1949/66: ragione e illusione borghese, prefazione di V. Gorresio, Roma-Bari, Laterza, 1975; G. Spadolini, La stagione del «Mondo»1949-1966, Milano, Longanesi, 1983; E. Scalfari, La sera andavamo in via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» alla «Repubblica», Milano, Mondadori, 1986; G. Spadolini, «Il Mondo». Indici analitici, Firenze, Passigli, 1987; G. P. Carocci,«Il Mondo». Antologia di una rivista scomoda, Roma, Editori Riuniti, 1997; Mario Pannunzio da Longanesi al «Mondo», a cura di P. F. Quaglieni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010.
315 M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo cit., pp. 141-142.
316 A. Asor Rosa, Il giornalista: appunti sulla fisiologia di un mestiere difficile, in Storia d’Italia, vol. IV, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 1225-1257, in part. pp. 1236-1253.
317 Ivi, p. 1251.
318 Anche la stampa locale calabrese di quegli anni era in una fase di stallo: nella regione, priva di un quotidiano di riferimento, il giornale più diffuso era la «Gazzetta del Sud», alla quale lo scrittore collaborava solo saltuariamente per incompatibilità con l’orientamento politico di quella testata. Nel 1956 vide la luce per brevissimo tempo (dall’ottobre al dicembre di quello stesso anno) il quotidiano «La Calabria», fondato a Cosenza ma costretto alla chiusura per motivi finanziari e per l’interferenza della classe politica locale. Cfr. P. Sergi, Quotidiani desiderati. Giornalismo, editoria e stampa in Calabria cit., pp. 75-96.
319 Sul rapporto fra letteratura e giornalismo nella storia del giornalismo italiano, sull’origine della terza pagina ed i suoi sviluppi, rimandiamo ad alcuni testi della ricchissima bibliografia dedicata all’argomento: Parola di scrittore. Letteratura e giornalismo nel Novecento, a cura di C. Serafini, Roma, Bulzoni, 2010; C. Bertoni, Letteratura e giornalismo, Roma, Carocci, 2009; O. Bergamini, La democrazia della stampa: storia del giornalismo, Roma-Bari, Laterza, 2006; B. Benvenuto, Elzeviro, Palermo, Sellerio, 2002; P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, Bologna, Il Mulino, 2000; A. Papuzzi, Letteratura e giornalismo, Roma-Bari, Laterza, 1998; E. Falqui, Giornalismo e letteratura, Milano, Mursia, 1968. Sull’influsso della scrittura letteraria nella formazione del linguaggio giornalistico in Italia, si veda: T. De Mauro, Giornalismo e storia linguistica dell’Italia unita, in Storia della stampa italiana, vol. V, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, Roma-Bari, Laterza, 1976, pp. 455-510.
320 Cfr. F. Erbani, La questione meridionale ne «Il Mondo» di Mario Pannunzio, Roma-Bari, Laterza, 1990. Se non meridionalista, di ambientazione meridionale sono anche gli altri contributi di carattere letterario di La Cava ospitati sul periodico: Bovalino mio paese, I, n. 3, 5 marzo 1949, p. 7; Id., Caratteri, I, n. 6, 26 marzo 1949, p. 10; Id., La moglie ideale, I, n. 10, 23 aprile 1949, p. 12; Id., Caratteri, I, n. 18, 18 giugno 1949, p. 7; Id., Le donne oneste, I, n. 30, 10 settembre 1949, p. 10; Id., Un nemico degli alberi, I, n. 39, 12 novembre 1949, p. 7; Id., Il volto assorto dell’altro, II, n. 2, 14 gennaio 1950, p. 10; Id., La vecchia diva, II, n. 38, 23 settembre 1950, p. 16; Id., Un uomo nella sommossa, IV, n. 14, 5 aprile 1952, p. 10; Id., L’uomo e la gente, IV, n. 30, 26 luglio 1952, p. 12; Id., I morti e i santi, V, n. 23, 6 giugno 1953, p. 8.
321 F. Erbani, La questione meridionale ne «Il Mondo» di Mario Pannunzio cit., p. XI.
322 Francesco Erbani specifica a tal proposito che nell’ambito del dibattito sul tema della riforma agraria si svilupparono sulla rivista diretta da Pannunzio due scuole di pensiero: la prima facente capo a Nicolò Carandini, che condanna in toto l’esito della riforma, e la seconda, vicina a Rossi-Doria, la quale ne sostiene invece la validità, pur ammettendo la necessità di modificarne i tanti inconvenienti di natura tecnica.
323 M. La Cava, I contadini di Melissa, in «Il Mondo», V, n. 42, 20 ottobre 1953, p. 8.
324 L’incontro con il poeta di Tricarico è narrato in: M. La Cava, Scotellaro, primo e ultimo incontro [1954], in «Gazzetta del Popolo», 11 luglio 1978, p. 3.
325 Si tratta della breve visita in Calabria di Rocco Scotellaro e Carlo Levi risalente al dicembre 1952, di cui lo stesso Levi parla nell’introduzione a Le parole sono pietre: tre giornate in Sicilia, Torino, Einaudi, 1955. Una descrizione del viaggio è contenuta anche in: C. Levi, Contadini di Calabria, in «L’illustrazione italiana», n. 5, 1953, pp. 27-30; n. 6, 1953, pp. 28-32. L’itinerario percorso dai due visitatori comprese i territori direttamente interessati dalla riforma: partendo da Cosenza, essi visitarono i paesi facenti parte del comprensorio del Marchesato di Crotone.
326 Uno stralcio della lettera è stato pubblicato in: G. Settembrino, Levi e Scotellaro tra i contadini in Calabria, in Dall’occupazione delle terre alla Riforma Agraria, numero monografico di «Basilicata Regione Notizie», n. 3, 1999, pp. 103-108.
327 Ivi, p. 103.
328 Ibidem.
329 Ivi, p. 105. Secondo Carlo Levi, la riforma agraria non aveva affatto posto fine alla lotta per il possesso della terra, ma aveva solo determinato un mutamento nelle forze in campo: non più servi e padroni si davano la guerra, bensì contadini e funzionari. Di questi nuovi protagonisti dello scontro lo scrittore ci consegna un suggestivo ritratto psicologico: «Dappertutto avevamo trovato, gli uni di fronte agli altri, contadini e funzionari: contadini diversamente atteggiati, in condizioni diverse, ma tutti seppur diversamente, diffidenti verso la nuova situazione che avevano desiderato per secoli, per cui avevano combattuto, ma a cui, ora che essa pioveva dal cielo come una inaspettata elargizione paterna, non sapevano e non potevano credere; funzionari che avrebbero dovuto lavorare per loro e con loro, ma che celavano un antico odio ereditario, e che erano portati a usare la Riforma, essi che venivano dalla piccola borghesia dei paesi, per riconquistare il pericolante secolare prestigio: sempre presenti, con gli occhi aperti e le orecchie tese, i pantaloni stirati, i baffetti sottili sul labbro, pronti a tornare padroni, a modo loro, delle terre abbandonate e divise». Cfr. C. Levi, Le parole sono pietre: tre giornate in Sicilia cit., pp. XIII-XIV. A conclusione del suo resoconto di viaggio in Calabria, Carlo Levi ripone le sue speranze nella proposta politica di un autogoverno dei contadini che avrebbe reso possibile la loro partecipazione attiva ai lavori di riforma e allo stesso tempo avrebbe diminuito l’ingerenza delle forze politiche. Di tono ben più pessimistico è invece il dialogo epistolare tra Scotellaro e Rossi-Doria, per i quali la presa di coscienza delle problematiche che inficiavano l’esito della riforma equivalse ad una sconfitta personale sul piano politico e intellettuale. Nella sua missiva il poeta di Tricarico descrive a Rossi-Doria le proprie impressioni sulle condizioni dei villaggi calabresi attraverso l’immagine di un malato lasciato in balia del suo destino: «ti è mai capitato di vedere trasportato sul letto operatorio una persona la cui vita o morte interessa la famiglia e tutto il paese? Un piccolo paese meridionale dove le donne si mettono a strillare e non muovono una mano, gli uomini si accalcano con le mani penzoloni, guardie e carabinieri accorrono a fare i cordoni, e i medici bisogna andare a cercarli a casa e arrivano alla spicciolata, e la malattia e l’intervento del povero uomo vengono discussi mille volte, e quello sta lì con gli occhi feroci, non parla e non si muove, ma dicono le donne, l’angelo e il diavolo se lo litigano?» G. Settembrino, Levi e Scotellaro tra i contadini in Calabria cit., p. 106. Nella lettera di risposta, anche Rossi-Doria esprime sconforto e pessimismo per la situazione del Mezzogiorno d’Italia, e confessa che il viaggio in Sudamerica, ove egli si era trasferito nel 1952 per studiare l’economia del Brasile e del Messico (un paese, quest’ultimo, «che ha fatto non solo una radicale riforma agraria, ma l’ha fatta non con i sottosegretari democristiani, ma con un’autentica e potente rivoluzione contadina»), rappresentò per lui un «volontario distacco e allontanamento dal luogo della sconfitta». Cfr. M. Rossi-Doria, Una vita per il sud. Dialoghi epistolari 1944-1987, a cura di E. Bernardi, Roma, Donzelli, 2011, pp. 86-87.
330 M. La Cava, I contadini di Melissa cit.
331 Id., Contravvenzione in Calabria, in «Il Mondo» I, n. 43, 10 dicembre 1949, p. 5. L’articolo è incluso nella raccolta I misteri della Calabria con il titolo Una giornata tra la gente, pp. 63-67.
332 Ivi, p. 64.
333 Ivi, p. 67.
334 C. Levi, Premessa, in R. Scotellaro, L’uva puttanella.Contadini del Sud, a cura di F. Vitelli, Roma-Bari, Laterza, 1986, p. VII.
335 Undici di questi articoli si posso leggere in: M. La Cava, Corrispondenze dal Sud Italia, a cura di G. Briguglio, Reggio Calabria, Città del sole Edizioni, 2010. Notizie relative a un lungo viaggio compiuto da La Cava attraverso «le province disastrate del sud» si leggono in una missiva a Sciascia del dicembre 1952. Cfr. M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo cit., p. 62.
336 La Cava recensisce il libro della Brandon Albini, Calabre, Paris, Arthaud, 1957 (ora: Id., Calabria, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2008) con grandi parole di lode, cfr.: M. La Cava, Il vero volto della Calabria descritto in un’opera francese, in «Tribuna del Mezzogiorno», 27 giugno 1957.
337 M. La Cava, Letterati a convegno, in «Il Mondo», V, n. 50, 15 dicembre 1953, p. 11. L’articolo è seguito dall’ultimo racconto lacaviano apparso sul periodico: Id., Il profumo della signora, in «Il Mondo», VI, n. 1, 5 gennaio 1954, p. 15.
338 La Cava prese parte al Convegno (10-13 novembre 1953) con un intervento su Antonio Aniante.
339 M. La Cava, L. Sciascia, Lettere dal centro del mondo cit., p. 116. Si tratta della missiva datata 14 dicembre 1954. Riportiamo di seguito i passi più significativi dell’articolo di La Cava: «Si sono riuniti. ‘A che scopo?’ mi chiese Lolò, giovane impiegato alle poste che si era formato sui giornali che restano in giacenza, con l’aria di chi sa che uno scopo ci si debba trovare nelle cose che si fanno. Già, non ci avevo pensato. Davvero che uno scopo ci doveva essere. Forse per mangiare a sbafo? Oh, no. Come siete volgare! A casa loro non si mangiava bene? Ed ognuno di loro non era un grande letterato abituato per i grandi guadagni che faceva alle più lussuose raffinatezze di mensa? Forse per dormire nella camera del più lussuoso albergo della città? Di quell’albergo maestoso dove venivano i grandi regnanti della terra, per chiudere in pace i loro occhi delusi? Mi fate ridere, amici! Come se il loro letto matrimoniale avesse le molle rotte! Come se essi non fossero stufi di tutto, per la tanta pratica che ne avessero fatta, sempre e dovunque. E allora perché? Per incontrare amici, conoscenti, persone di pregio? Ahimè chi è che non avrebbe meritato di essere intervistato a casa da mezzo mondo e chi è che si troverebbe nella condizione di guadagnare qualcosa avvicinando qualcuno? No. Nessuno dei letterati trova il suo degno collega. Egli è solo, grandissimamente solo.
Potrebbe mai discutere amichevolmente con qualcuno di loro? Per carità! Non si diminuirebbe? Basta qualche breve, stentato saluto, in un silenzio marmoreo. Piuttosto gli piacerebbe parlare da oratore a mezzo mondo e da mezzo mondo essere ascoltato. Chi lo fa e chi non lo fa, a seconda delle tattiche usate. Chi non lo fa soffre che non sia costretto a farlo per forza militare. Ma per i pochi che parlano, come trattenere il gregge che scappa, se non dimostrando a loro volta dignitosa attenzione al discorso degli altri? Per cui anche quelli si fossero sentiti obbligati ad ascoltare! E che martirio è questo di poter parlare solo a patto di ascoltare? Sarebbe la finzione degli uni nell’ascoltare pari a quella degli altri che dovranno ascoltare? E gli applausi di questi avrebbero lo stesso valore di quelli? Oh, che tormento per i poveri letterati ai quali non basta l’ossequio comune e che ben si aspetterebbero la lode spiegata! Sorgono incomprensioni e capricci tra la massa compatta dei letterati da una parte e quella degli ospiti invitati dall’altra. Chi è che avrebbe ricevuto maggiore lustro dall’incontro? Un semplice sospetto turba il letterato profondo. Pugni cadono sui tavoli, epigrammi volano nell’etere, scintillando. Siamo nel regno dell’intelligenza, tutti sono intelligenti. E chi sono i cafoni? Loro! i poveri ospiti invitanti! E allora costoro resistono, costoro intendono dimostrare, egregi letterati, l’uso che avete fatto degli apparecchi di volo, si dimostratelo, e ogni spesa vi sarà pagata in contanti. O che non lo sappiamo che sareste capaci di viaggiare in carro bestiame, pur di risparmiare il biglietto! Dio che schifo simile diffidenza! I letterati non resistono a star bene sino alla fine del convegno. Quel mangiare, quel dormire si trasformano in veleno. Partono, per amor di prestigio, prima del tempo stabilito; impavidi l’un l’altro additando i conforti della loro vita di famiglia, sacrificano una mensa riccamente imbandita per la tavola calda della rosticceria e un letto sfarzosamente addobbato per il divano affossato del loro appartamento privato». M. La Cava, Letterati a convegno cit.
Eleonora Sposato, Oltre le cose, la sostanza che non muta. Mario La Cava. La figura e l’opera, Tesi di dottorato, Università degli Studi della Calabria, 2013