I risultati della razzia potevano essere quindi assai più tragici

Alla tragedia della comunità ebraica romana, culminata nella spietata caccia all’uomo all’alba del 16 ottobre 1943, Giacomo Debenedetti ha dedicato due opuscoli, se vogliamo usare l’espressione (tuttavia virgolettata) di Ottavio Cecchi, che è in ogni caso insufficiente soprattutto per quanto riguarda 16 ottobre 1943 cui meglio si addice l’intitolazione di “saggio-racconto” secondo la definizione di Giansiro Ferrata. (1) Si tratta comunque di due scritti, 16 ottobre 1943, appunto, e Otto ebrei non ampi ma nelle cui pagine « bellissime per vigore e rievocazione e lucidità di giudizio» , come le definì Natalino Sapegno, (2) si rivela al più alto livello « la fine e scontrosa severità morale » dell’autore. Debenedetti li compose nel settembre e nel novembre del 1944, cioè ad appena un anno da quei drammatici eventi cui lui stesso sfuggì solo perché, come ci dice, « passò la mattinata del 16 ottobre in casa di una vicina » (prima di trovare rifugio a Cortona dove visse accanto a Pietro Pancrazi e Nino Valeri e dove scrisse il saggio Vocazione di Vittorio Alfieri). L’uno e l’altro scritto, sia pure tra loro – come vedremo – nettamente differenziati per impostazione e svolgimento, recano chiari i segni ancora recenti dell’emozione e dello sdegno, ma insieme la volontà non certo di razionalizzare la barbarica offesa recata a un popolo innocente («Torto nostro a voler cercare una regola nel più spaventoso degli arbitrii» è scritto), ma soltanto di spietatamente raccontarla con una « cronaca al tempo stesso commossa ed esatta», secondo le parole di Moravia. (3)
Otto ebrei uscì a Roma nel 1944 nelle edizioni “Atlantica” con prefazione di Carlo Sforza; ristampato nel ’61 nella “Biblioteca delle Silerchie” del Saggiatore insieme con la Lettera a Hitler di Louis Golding (poi ancora insieme nel IV volume delle Opere di Debenedetti nelle edizioni del Saggiatore del 1973) fu unito a 16 ottobre 1943 nel volume degli Editori Riuniti del 1978 curato da Ottavio Cecchi e prefato da Alberto Moravia, un volume che ha avuto recentemente (1984) anche un’edizione scolastica sempre a cura di Cecchi. 16 ottobre 1943 uscì dapprima nella rivista romana “Mercurio” nel numero novembre-dicembre 1944, venne ristampato l’anno successivo a Lugano in “Libera Stampa” e nel volume delle edizioni romane O.E.T., nel ’47 uscì in traduzione francese in “Temps modernes”, nel ’55 ancora in rivista (“Galleria”), infine nelle “Silerchie” del Saggiatore prima di trovare collocazione, come si è appena visto, insieme con Otto ebrei.
[…] C’è un passo del 16 ottobre 1943 in cui si racconta del gesto di alcun cittadini romani in aiuto degli ebrei angariati dalla richiesta tedesca di cinquanta chili d’oro; Debenedetti non solo non rifiuta il gesto discreto e pieno di pudore di quegli uomini ma li descrive con grande simpatia e riconoscenza. Ecco le sue parole: “Ormai tutta Roma aveva saputo del sopruso tedesco, e se ne era commossa. Guardinghi, come temendo un rifiuto, come intimiditi a venire a offrire dell’oro ai ricchi ebrei, alcuni “ariani” si presentarono. Entravano impacciati in quel locale adiacente alla Sinagoga, non sapendo se dovessero togliersi il cappello o tenere il capo coperto, come notoriamente vuole l’uso rituale degli ebrei. Quasi umilmente domandavano se potevano anche loro […] se sarebbe stato gradito […] Purtroppo non lasciarono i nomi, che si vorrebbero ricordare per i momenti di sfiducia nei propri simili”.
Dunque, esiste una partecipazione attiva che non è mero capovolgimento simmetrico della persecuzione e fatta della sua medesima sostanza e perciò sua continuatrice? E se esiste, che cos’è che la distingue e la caratterizza rendendola non solo accettabile ma laudabile, da portare non quasi ad esecrazione come il gesto di Alianello, ma ad esempio? E continuiamo a dire che non si tratta delle mosse dei piccoli machiavelli di cui si è detto sopra (ma, al limite, non possiamo immaginare che anche questi generosi offerenti pensassero a una moneta di scambio per il futuro? ), ma degli uomini – anch’essi uomini fra gli uomini – nei cui gesti era compresa, voleva essere compresa anche la riparazione. II discrimine fra partecipazione cattiva e partecipazione buona, tra partecipazione interessata e disinteressata è forse quello tra pietà e pietismo? Ma non sarà solo questione di parole? e a quale punto mai sarà lecito tracciare la demarcazione? Certo Debenedetti non lo sa, o comunque non ce lo dice; ma qualcosa di molto importante forse finisce per dircela: che tra il ragionare se non in termini astratti per lo meno in termini generali e definitori, e il prender parte di persona ai drammi della storia e della vita scatta un di più di conoscenza, che non è negazione della ragione, anzi può concorrere a integrarla, a ulteriormente umanizzarla, a concederle quelle provvidenziali e doverose eccezioni che la rigida applicazione del rapporto logico non sempre è in grado di giustificare […]
NOTE
1. In Giacomo Debenedetti, a cura di C. Garboli, Milano, Il Saggiatore, 1968, pag. 131.
2. Ibid., pag. 101.
3. Prefazione a G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Otto ebrei, Roma, Editori Riuniti, 1978, pag. 25.
Giuliano Manacorda, Giacomo Debenedetti: 16 ottobre 1943 e Otto ebrei, Giacomo Debenedetti

Il Ghetto al Portico d’Ottavia a Roma in una vecchia fotografia. Fonte: Patria Indipendente art. cit. infra
Ebrei romani costretti ai lavori forzati sul greto del Tevere. Fonte: Patria Indipendente art. cit. infra

Si può quindi affermare con certezza assoluta che ciò che si ipotizzava, ovvero «hanno preso anche ebrei fuori del ghetto», è assolutamente vero e documentato.
La razzia iniziò alle 5,30 del mattino nel «ghetto», gli arresti furono effettuati intorno ad esso interessando i rioni e i quartieri vicini, prendendo poi una inspiegabile direzione verso i quartieri Trieste e Monte Sacro, dove furono arrestate rispettivamente 7 e 8 persone. Gli arresti non sembra siano stati programmati secondo la solita teutonica precisione. A disposizione di Dannecker vi erano pochi uomini e il tempo per organizzare l’operazione era ridotto, circa 10 giorni. Alcuni ebrei rimasti nelle loro abitazioni non furono arrestati, mentre di due nuclei famigliari abitanti sul pianerottolo dello stesso stabile, uno fu prelevato e l’altro ignorato. Anche nel «ghetto» alcune famiglie non furono arrestate. Lo stesso Dannecker non conosceva la città e pertanto i percorsi dei camion che dovevano caricare gli arrestati furono male organizzati. I nazisti prevedevano di prendere molte più persone, ma per fortuna la notizia della loro attività fu rapidamente comunicata telefonicamente da varie persone, anche da non ebrei, permettendo a molti di mettersi in salvo.
Ne è una conferma la lista trovata presso l’Archivio di Stato di Roma, relativa al Commissariato Salario, nella quale sono elencati nominativi di ebrei arrestati, di ebrei non trovati, o addirittura di ebrei non ricercati.
I risultati della razzia potevano essere quindi assai più tragici. Alla fine della giornata il 43% degli arrestati risultava abitare nel «ghetto» o nelle sue immediate vicinanze. Il resto risultò risiedere in zone distanti dal rione S. Angelo.
Tra i 1.016 deportati, 600 erano donne e 415 uomini. Un bambino, il cui nome è sconosciuto, nacque durante la detenzione della madre nel Collegio Militare, dal quale gli ebrei furono prelevati per avviarli nei lager. I bambini e gli adolescenti al di sotto dei 15 anni furono 273, tra questi 107 avevano meno di 5 anni.
A distanza di tanti anni, occorre sottolineare con grande tristezza che l’intervento del Vaticano in favore degli arrestati fu estremamente debole. Il tutto si risolse in un colloquio tra il cardinal Maglione, segretario di Stato Vaticano e Weizsäcker, ambasciatore germanico presso la Santa Sede. Ambedue per motivazioni convergenti avevano interesse a salvaguardare la politica adottata da Pio XII sin dall’avvento al potere di Hitler. Pertanto il 16 ottobre, a razzia già avvenuta, quando si sentì domandare «cosa avrebbe fatto il Papa… se le cose avessero a continuare», Maglione avvisò Weizsäcker che «la Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione». L’intervento era solo ipotizzato «se le cose avessero a continuare», evidentemente a sottintendere che per quanto già accaduto quella mattina non vi sarebbe stata alcuna iniziativa vaticana.
Anche la lettera inviata da monsignor Alois Hudal, noto per le sue simpatie naziste, al comandante della piazza militare di Roma generale Stahel paventava il peggioramento di queste relazioni a causa della razzia.
[…] L’altra informazione ormai acquisita nella memoria collettiva si riferisce alle liste utilizzate per ricercare gli individui da arrestare. Si asserisce che i dirigenti comunitari di allora furono tanto ciechi e ignari del pericolo incombente, da non distruggere gli elenchi dei contribuenti, che trovati in Comunità dai nazisti, furono poi utilizzati per la ricerca e l’arresto degli ebrei. Tale accusa fu rivolta sin dall’arrivo degli alleati a Ugo Foà, Presidente della Comunità di Roma nel 1943, il quale tentò più volte, anche mediante relazioni scritte, di discolparsi, non riuscendo mai a convincere tutti i suoi accusatori della falsità di quanto imputatogli.
Dalle ricerche e dai confronti effettuati si può affermare che al di là di ogni ragionevole dubbio, la fonte principale sia stata la documentazione depositata presso il ministero dell’Interno, o presso la Questura o la Prefettura. Possiamo escludere che sia stato utilizzato materiale presente presso il Governatorato o presso il Partito fascista. Quest’ultimo probabilmente non aveva liste di ebrei.
Gabriele Rigano, «16 ottobre 1943: accadono a Roma cose incredibili» in (a cura di) Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, Edizioni Angelo Guerini e Associati SpA, 2006

Tuttavia, nonostante il raggiungimento della quota stabilita, i tedeschi fecero delle azioni a danno della comunità israelita romana, irrompendone gli uffici comunitari e nella biblioteca rabbinica. Come ha sottolineato Susan Zuccotti, a quel punto le mosse dei nuovi padroni parevano ambigue: «I nazisti volevano denaro, manoscritti preziosi o gli elenchi? Molti ebrei romani, però, non si arresero ancora all’evidenza dei fatti e rimasero nelle loro case» <49.
Per chi si trovò nella capitale, la trappola funzionò alla perfezione e nelle prime ore del 16 ottobre l’azione tedesca colpì di sorpresa <50. La razzia del ghetto, tolse ogni incertezza sulla possibilità che i tedeschi si esimessero dall’accanirsi contro l’ebraismo italiano: a ben vedere, fu una prova in grande stile che i nazisti anche in Italia non avrebbero agito diversamente da come – secondo quanto prima di allora nel paese si vociferava senza troppo crederci – erano soliti usare nei confronti degli ebrei nel resto dell’Europa da loro assoggettata <51.
Analizzando il rastrellamento tedesco del 16 ottobre 1943, Federica Barozzi ha rilevato che gli ebrei romani scampati all’arresto e fuggiti precipitosamente dalle proprie case, sul momento «spinti dall’emergenza di trovare un rifugio provvisorio, ritennero necessario affidarsi ad un aiuto esterno»: le prime persone a cui pensarono di chiedere un aiuto furono naturalmente gli amici non correligionari, ma, vista la gravità della situazione, molti si spinsero a contattare anche «amici di amici o persino semplici conoscenti (clienti di negozio, barbieri, portieri, fornai)» <52. A tal proposito, Mino Moscati, allora sedicenne, ha raccontato che dopo essere scampato per la rotta della cuffia alle SS, trascorse i primi giorni successivi al 16 ottobre con la sua famiglia sempre in posti diversi, accolti da persone che a volte essi conoscevano appena <53.
[NOTE]
49 S. Zuccotti, Il Vaticano e l’Olocausto in Italia cit., p. 178.
50 Per le testimonianze sui vari episodi del rastrellamento e sulla retata in generale si veda oltre ai già citati saggi di Gabriele Rigano e Susan Zuccotti, anche M. Impagliazzo (a cura di). La resistenza silenziosa. Leggi razziali e occupazione nazista nella memoria degli ebrei di Roma, cit., M. Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, cit.,, pp. 53-63, G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, Sellerio, Palermo 1993, F. Coen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma, Giuntina, Firenze 1993.
51 Considerato il numero di arrestati e di deportati, il rastrellamento tedesco compiuto «sotto le finestre del papa», la mattina di sabato 16 ottobre 1943, costituisce la più estesa operazione antiebraica mai svoltasi nella penisola durante la guerra.
52 F. Barozzi, “I percorsi della sopravvivenza” (8 settembre ’43-4 giugno ’44). Gli aiuti agli ebrei romani nella memoria di salvatori e salvati, Tesi di Laurea, A.A. 1995-1996, Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, p. 106. La ricerca di Federica Barozzi è stata pubblicata con il medesimo titolo in «La Rassegna mensile di Israel», anno 1998, n. 1, pp. 95-144.
53 «La prima notte», disse Mino Moscati a Federica Barozzi, «io, i miei genitori e mio fratello più piccolo, dormimmo a casa del fotografo ufficiale del Tempio, il signor Emilio, cattolico e amico di mio padre. La seconda, ci nascondemmo in un appartamento lasciato vuoto da un amico cattolico di mio zio che stava nel quartiere Flaminio. Anche da lì però fummo costretti ad andarcene perché l’appartamento stava in un grande condominio dove c’era il pericolo di spiate. La mattina del terzo giorno, 18 ottobre, ci ritrovammo con i miei genitori al Campidoglio: tutti ci spremevamo le meningi su dove si poteva andare… sembravano non esserci vie d’uscita… poi, a un certo punto, io mi ricordai di un certo Bruno Fantera, un ragazzo un po’ più grande di me che aveva lavorato per tanti anni nel negozio di mio zio. Sapevo che lui aveva fatto la guerra ma siccome si era ferito a Creta, era già stato congedato… abitava nel quartiere di San Saba in via Giotto 1. Andammo e lui ci accolse subito, ci mise a disposizione una stanza lasciata vuota da sua sorella, scappata da Roma per paura dei bombardamenti […] A casa sua ci siamo rimasti fino alla Liberazione. A tutto il palazzo si era detto che eravamo parenti sfollati da Frascati». F. Barozzi, “I percorsi della sopravvivenza” (8 settembre ’43-4 giugno ’44) cit., p. 106-107.
Paolo Tagini, “Le prefazioni di una vita”. I bambini ebrei nascosti in Italia durante la persecuzione nazi-fascista, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, 2011

Una lapide al Portico d’Ottavia di Roma, dedicata agli ebrei rastrellati nel Ghetto. Fonte: Patria Indipendente art. cit. infra

Questo che pubblichiamo è un documento eccezionale, mai reso noto integralmente in precedenza. Si tratta della vicenda del ricatto nazista agli ebrei romani ai quali venne promessa la salvezza in cambio di cinquanta chilogrammi di oro da versare nelle mani della polizia nazista di Roma. Si trattò di un vero e proprio terribile ricatto, carico di angoscia e di terrore. Voi – dissero i nazisti – ci date l’oro entro poche ore e sarete lasciati in pace. Insomma, l’oro in cambio della vita di donne, vecchi, bambini. La vicenda è notissima, ma i dettagli, i particolari del ricatto, la trattativa, parte avuta dalle autorità repubblichine, sono poco conosciute. I nazisti ebbero l’oro ma, dopo pochi giorni, unità speciali delle SS rastrellarono il Ghetto portando via 1.200 ebrei. Ne tornarono a casa soltanto sedici. Dunque una infamia che strappò dalle loro case centinaia di innocenti. La tragedia si concluse con le Fosse Ardeatine, nel 1944. Dei massacrati nelle Cave, più di cento erano ebrei.
Il documento che pubblichiamo è il “rapporto” scritto “a futura memoria” per gli alleati, per la storia e l’Italia intera, sulla faccenda dell’oro e sul rastrellamento del Ghetto, dal presidente della Comunità israelitica di Roma avvocato Ugo Foà, già Sostituto Procuratore Generale del Re. Ne aveva affidata una copia, con dettagli e particolari, nella città ancora occupata dai nazisti, ad una persona di fiducia, in “caso di mia morte o deportazione”. Così spiegava allora. L’eccezionale documento è custodito tra le carte del processo contro Herbert Kappler, il tenente colonnello delle SS e comandante della polizia di sicurezza a Roma, processo che ebbe inizio il 3 maggio del 1948 e che si concluse con la condanna all’ergastolo dell’ufficiale. Era lui che aveva ordinato e fatto eseguire la strage delle Ardeatine dai suoi soldati e dai suoi ufficiali. Lui stesso aveva sparato contro cinque martiri, nel buio delle grotte, mentre all’esterno il capitano Erik Priebke continuava il conteggio delle vittime. Kappler aveva il proprio ufficio nel palazzotto di via Tasso dove furono reclusi e torturati, in modo infame, decine e decine di partigiani, di ebrei e di antifascisti. Foà ebbe la fortuna di non essere deportato e di rimanere in vita. Consegnò quindi personalmente il suo rapporto alle autorità alleate e italiane.
Lo pubblichiamo integralmente lasciando date, titoli e sottotitoli così come furono scritti allora.
[…] Le misure di polizia e gli episodi più salienti nei quali si concretò l’atteggiamento di estremo rigore assunto dai comandi tedeschi nei confronti degli israeliti romani non di altro colpevoli se non di appartenere ad una stirpe fedele al proprio millenario passato e ad essi invisa, possono, in ordine di tempo, così elencarsi:
a) estorsione di Kg 50 di oro (26-28 settembre 1943);
b) invasione degli uffici della Comunità, loro perquisizione ed asportazione di tutti i registri, di gran parte del materiale d’archivio e di carte varie, nonché della somma di L. 2.021.540=(29 settembre 1943);
c) vessazioni minori compendianti una battuta d’aspetto fra il saccheggio degli Uffici di Amministrazione della Comunità e quello delle due Biblioteche (dal 30 settembre al 12 ottobre 1943);
d) saccheggio della Biblioteca della Comunità, una fra le più ricche di Europa per quanto concerne gli studi ebraici, e della Biblioteca del Collegio Rabbinico Italiano (13 ottobre 1943 e segg.);
e) prelevamento e deportazione di un ingente numero di Israeliti senza riguardo né all’età, né al sesso, né alle condizioni di salute (16 ottobre 1943 e segg.)
[…] Circa la fonte cui furono attinti gli elenchi delle vittime devesi anzi tutto escludere che essi possano essere stati tratti dal materiale documentario asportato dagli Uffici della Comunità il 29 settembre 1943.
Invero come già nel narrare il saccheggio di quegli uffici ponemmo in evidenza, il materiale anagrafico e di stato civile della Comunità non era stato preso perché tempestivamente tolto. Soltanto le cartelle dei contribuenti erano state trovate. Ma dalla razzia del 16 ottobre esulò completamente il criterio della capacità economica delle vittime come risulta comprovato dalla circostanza che il quartiere di Monte Savello ove fu compiuto il grosso del prelievo era abitato da popolo minuto non iscritto fra i contribuenti, e come resta confermato che anche negli altri rioni dell’Urbe vennero ricercate e rapite molte persone non iscritte nell’elenco dei contribuenti mentre non ne furono ricercate altre che in quello invece figuravano.
Altrove dunque che negli incartamenti della Comunità va ricercata la fonte delle liste germaniche e a dire il vero non vi è per trovarla che l’imbarazzo della scelta. Ove infatti tengasi presente che dopo l’obbligo della dichiarazione razziale conseguente alle note leggi, elenchi completi e schedari aggiornati della popolazione ebraica dell’Urbe esistevano presso il Ministero degli Interni, presso la questura centrale e presso il Governatorato (senza tener conto delle note parziali in atto presso i vari Commissariati di P.S. e presso le organizzazioni fasciste centrali e rionali), non è difficile individuare in uno qualunque di quegli elenchi e schedari l’accennata fonte. E ciò tanto più appare evidente quando si ponga mente che il Ministero degli Interni, gli uffici di P.S., il Governatorato di Roma ed i Fasci si trovavano sotto il controllo delle Autorità Tedesche. L’avvenire dirà poi a quale tra quegli elenchi sia stato precisamente attinto.
Redazione, Il ricatto dell’oro agli ebrei e poi la deportazione, Patria Indipendente, 11 aprile 2010

Fig. 1. La razzia del 16 ottobre disegnata dal pittore Aldo Gay (1914-2004), testimone diretto degli arresti. Si intravedono gli uomini con le divise della Ordnungspolizei (Collezione privata Sandro Gai). Fonte: Sara Berger, art. cit. infra

Nella memoria collettiva <1, la razzia del 16 ottobre a Roma sembra sia stata opera esclusiva delle SS. Film di ogni genere, documentari e fiction, hanno rappresentato e rappresentano ancor oggi gli agenti che hanno eseguito gli arresti come uomini con le tipiche divise nere. Anche studi accreditati, come il recente libro del teologo Kühlwein, <2 parlano del ruolo degli uomini delle SS.
Questi errori fondamentali nella rappresentazione dei persecutori sono stati commessi nonostante il fatto che fossero noti sia il rapporto di Kappler sull’impiego di 365 uomini provenienti dalla Polizia di sicurezza (Sicherheitspolizei – Sipo) e dalla Polizia d’ordine (Ordnungspolizei – Orpo), sia quello del comandante di piazza Stahel sull’utilizzo di tre compagnie di polizia.
Le tre compagnie di Stahel impiegate nella razzia e citate nel rapporto erano sì denominate SS-Polizei-Regimente, ma in realtà continuavano a far parte della Polizia d’ordine. Chi all’epoca li ha visti e dipinti, come due pittori testimoni della razzia, Aldo Gay (fig. 1) e Pio Pullini, li ha infatti rappresentati nelle proprie opere (quadri e disegni) con le loro divise, ben diverse da quelle delle SS. <3
Oltre alle informazioni contenute nei due rapporti di Kappler e Stahel, esistono altre fonti per gettar luce sui persecutori della retata del 16 ottobre.
Tra queste, le più rilevanti rimangono gli atti giudiziari, in particolare le dichiarazioni dei persecutori stessi nell’ambito delle istruttorie per la deportazione degli ebrei dall’Italia. Questa documentazione fa parte del materiale prodotto al momento delle indagini dai magistrati dell’Ufficio centrale di Ludwigsburg e dalle magistrature di Dortmund e di Berlino. Informazioni sul tema specifico si trovano in parte anche nel Berlin Document Center del Bundesarchiv, dove sono archiviate le carte personali di appartenenti al partito, alle SS e alle altre formazioni naziste. Il responsabile della retata, il “consigliere ebraico” Theodor Dannecker, è stato infine oggetto di studio da parte di Claudia Steur. <4
La preparazione della retata durò alcune settimane e vide il coinvolgimento di tutte le forze di occupazione della città – anche nei tentativi di evitarla.
Il primo ordine di preparare la deportazione degli ebrei della capitale giunse a Herbert Kappler, il capo della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza (SD) della città, direttamente dal Reichsführer Himmler ancora nel settembre del 1943, poco tempo dopo l’occupazione dell’Italia da parte delle truppe tedesche. <5 Tuttavia Kappler, come anche il comandante di piazza della città, Rainer Stahel, il reggente dell’ambasciata tedesca, Eitel Friedrich Moellhausen, e il comandante della Wehrmacht, Albert Kesselring, decisero di fare un tentativo per evitare la razzia o almeno per rimandarla. <6 In ottobre proposero ai vertici diplomatici e della polizia nel Reich di impiegare gli ebrei nei lavori forzati, come era avvenuto in Tunisia, piuttosto che «liquidarli» – come scrisse espressamente Moellhausen in un telegramma il 6 ottobre 1943. <7 Le ragioni di questa posizione erano motivate, da un lato, dalla mancanza di risorse necessarie a svolgere una tale operazione – sia l’esercito che la polizia non possedevano forze in numero consistente, ma soprattutto non volevano sottrarre i propri uomini ai compiti che stavano svolgendo, dal mantenimento del fronte meridionale alla lotta contro gli avversari politici -; dall’altro, dalla preoccupazione per le possibili reazioni del Vaticano, e conseguentemente dell’opinione pubblica internazionale. Peraltro Roma era stata dichiarata «città aperta» e Kappler cercava di non esacerbare i rapporti difficili fra italiani e tedeschi. <8 Le loro richieste furono però respinte con veemenza. Il capo dell’Ufficio centrale di sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt – RSHA), Ernst Kaltenbrunner, criticò tali richieste sostenendo che, se si fosse prodotto un ritardo nell’operazione, gli ebrei avrebbero avuto il tempo per nascondersi. <9
A Berlino i vertici del Ministero degli Esteri fecero addirittura riferimento all’ordine diretto di Hitler (Führerbefehl) di deportare gli «8.000 ebrei di Roma». <10 Anche Moellhausen fu in seguito criticato dal plenipotenziario del Reich, Rudolf Rahn, per la sua tattica troppo «aperta», quindi controproducente, e per l’utilizzo di parole troppo «evidenti». La preoccupazione dei diplomatici tedeschi che informazioni così delicate potessero giungere in mani sbagliate era fondata: il telegramma di Moellhausen venne intercettato e consegnato all’Office of Strategic Services negli Stati Uniti attraverso le attività clandestine del diplomatico Fritz Kolbe (1900-1971). Kolbe fece parte dell’ufficio degli Esteri tedesco dal 1925 al 1945 e durante la guerra era referente dell’uomo di collegamento fra gli Esteri e la Wehrmacht (Karl Ritter).
Dal 1943 collaborava – con il nome in codice di Georg Wood – con l’intelligence americano fornendo documenti su questioni militari, ma anche sulla Shoah. Il telegramma di Moellhausen che Kolbe intercettò per gli americani venne tradotto in inglese e consegnato al presidente Roosevelt. Anche l’intelligence britannico, con la Government Code and Cypher School, fu in grado di intercettare telegrammi relativi alla retata. <11
In seguito non vennero fatti altri tentativi per evitare la razzia, anzi, sia Stahel sia Kappler misero a disposizione di Dannecker i loro uomini per realizzarla senza più pronunciare una parola di dissenso. In Danimarca, dove negli stessi giorni di inizio del mese di ottobre si stava progettando una retata in grande stile, gli ebrei ebbero invece la possibilità di fuggire in Svezia e di mettersi così in salvo anche grazie alla condotta quasi “resistenziale” del diplomatico tedesco Georg Ferdinand Duckwitz. <12
Kappler e Stahel, e con loro la Polizia di sicurezza e la Polizia d’ordine, furono per di più protagonisti di azioni persecutorie contro gli ebrei romani anche prima e durante i tentativi di evitare la razzia. Il caso più clamoroso ebbe luogo il 26 settembre 1943, quando Kappler diede avvio alla cosiddetta Goldaktion, pretendendo 50 chili d’oro dal presidente dell’Unione delle Comunità israelitiche italiane, Dante Almansi, e dal presidente della Comunità israelitica di Roma, Ugo Foà. Nel caso in cui non fossero stati in grado di consegnarli entro 36 ore, sarebbero stati deportati 200 ebrei. L’oro raccolto, principalmente fra le famiglie ebraiche della capitale, fu portato in via Tasso e inviato in seguito al RSHA di Berlino. <13 Dopo la guerra, Kappler e alcuni dei suoi collaboratori cercarono di giustificare l’azione sostenendo di aver tentato con questo di evitare ulteriori e ben più gravi atti persecutori contro gli ebrei. <14
Ma la politica persecutoria non si limitò alla Goldaktion: alcuni giorni dopo, agenti della Polizia di sicurezza e della Polizia d’ordine sequestrarono l’archivio degli uffici della Comunità ebraica della capitale sottraendo soldi, una parte dei registri, corrispondenze, protocolli delle sedute del Consiglio e gli elenchi dei contribuenti; inoltre poco prima della razzia furono saccheggiate, questa volta sotto la responsabilità dell’Einsatzstab Rosenberg, le biblioteche della Comunità e del Collegio rabbinico, ricche di volumi di inestimabile valore e in gran parte mai più ritrovati. <15
Il maggiore responsabile della retata non fu un membro permanente delle forze di occupazione della città, bensì Theodor Dannecker (fig. 2), SS-Hauptsturmführer (capitano), uomo appartenente all’ufficio di Eichmann, il IV B 4 del RSHA, specializzato nelle “azioni” antiebraiche. Nato a Tubinga nel 1913, dopo la scuola dell’obbligo iniziò gli studi commerciali, che però dovette interrompere dopo la morte del padre per occuparsi del negozio di famiglia. Si iscrisse al partito nazionalsocialista (la NSDAP) ed entrò nelle SS nel 1932. Dopo l’ascesa al potere di Hitler prestò servizio come guardia nel carcere del Columbia-Haus a Berlino e poi addestrò le reclute a Oranienburg. Dal 1935 lavorò nel SD occupandosi di “questioni ebraiche”; in seguito venne assegnato all’ufficio IV B 4 del RSHA, diretto da Adolf Eichmann, e quindi inviato come Judenreferent (consigliere per le questioni ebraiche) a Parigi. Dal 1940 al 1942 si occupò prima degli atti discriminatori contro gli ebrei francesi, successivamente delle loro deportazioni ad Auschwitz. Fu lui a condurre la retata del Vel d’Hiv, il 16 e 17 luglio 1942, nel corso della quale circa 13.000 ebrei furono arrestati, rinchiusi nel velodromo d’inverno di Parigi e successivamente deportati. Dal gennaio 1943 fu incaricato di svolgere lo stesso ruolo in Bulgaria, dove riuscì a organizzare la deportazione a Treblinka degli ebrei dalle zone neo-bulgare di Tracia (Grecia) e Macedonia (Jugoslavia). Dopo l’8 settembre del 1943, il RSHA decise di impiegarlo in Italia coadiuvato da una piccola squadra di collaboratori. Giunse nella capitale attorno al 30 settembre e fino al gennaio 1944 rimase nella penisola, dove organizzò la retata del 16 ottobre a Roma e altri successivi arresti nel Nord del paese. In seguito ritornò in Bulgaria, per poi trasferirsi in Ungheria, dove prese parte alla deportazione di oltre 430.000 ebrei. Arrestato dagli americani dopo la fine della guerra, si tolse la vita il 10 dicembre 1945 nel carcere di Bad Tölz, in Baviera. <16
Il piccolo Einsatzkommando Italien di Dannecker era composto da meno di dieci persone, fra cui due SS-Untersturmführer (sottotenenti) – Albin Eisenkolb e un altro uomo di cui non si conoscono le generalità – e alcuni SS-Unterführer (gradi medio-bassi) – fra cui Hans Arndt e Hans Haage -; gli altri possedevano gradi ancor minori. La maggior parte dei loro nomi, delle loro identità e provenienze non è nota, mentre si hanno informazioni su Eisenkolb e Haage. <17
[…] Per preparare la razzia furono compilati gli elenchi delle persone da arrestare: ciò avvenne grazie all’aiuto di alcuni poliziotti italiani assegnati a questo compito dall’ufficiale di collegamento Raffaele Alianello. Occorre rilevare il fatto che alcuni di questi uomini tentarono di sabotare la retata mettendo insieme indirizzi di persone che abitavano lontani l’uno dall’altro, così come avvertendo alcuni ebrei romani dell’imminente pericolo. <21

Fig. 2. Foto di Theodor Dannecker, mandata nel 1941 al Rasse- und Siedlungshauptamt (Bundesarchiv Berlin, VBS 283 6005012644, p. 2v). Fonte: Sara Berger, art. cit. infra

[NOTE]
1. Questo saggio è frutto della ricerca svolta per la Fondazione Museo della Shoah in occasione della realizzazione dell’esposizione – presso il Vittoriano di Roma – sulla razzia del 16 ottobre 1943 in occasione del settantennale. Cfr. il catalogo Marcello Pezzetti (a cura di), 16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma, Roma 2013. Il lavoro sui persecutori è stato effettuato insieme a Libera Picchianti. Ringrazio inoltre Marcello Pezzetti per la revisione dello stesso saggio.
2. Klaus Kühlwein, Pius XII. und die Judenrazzia in Rom, Berlin 2013.
3. Marcello Pezzetti, Umberto Gentiloni Silveri (a cura di), 16 ottobre 1943. Gli occhi di Aldo Gay, Roma 2007; Angela D’Amelio, Maria Elisa Tittoni, Simonetta Tozzi (a cura di), Pio Pullini e Roma, Roma 2010, pp. 41-42.
Sara Berger I persecutori del 16 ottobre 1943
4. Claudia Steur, Theodor Dannecker. Ein Funktionär der ‘Endlösung’, Essen 1997.
5. Cfr. Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia e lo sterminio degli ebrei, in Marcello Flores, Simon Levis Sullam, Marie-Anne Matard-Bonucci, Enzo Traverso (a cura di), Storia della Shoah in Italia. Vicende, memorie, rappresentazioni, vol. 1, Torino 2010, pp. 432-453: 435, 448-449; Dichiarazione di Herbert Kappler, 20-28 agosto 1947, in Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano, Giancarlo Spizzichino (a cura di), Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, Milano 2006, p. 157; Frauke Wildvang, Der Feind von nebenan. Judenverfolgung im faschistischen Italien 1936-1944, Köln 2008, p. 235.
6. Eitel Friedrich Moellhausen, Die gebrochene Achse, Alfeld (Leine) 1949, pp. 82-87; Gabriele Rigano, 16 ottobre 1943: accadono a Roma cose incredibili, in Antonucci [et al.], Roma [nota 5], p. 26; Wildvang, Der Feind [nota 5], p. 253; Steffen Prauser, Rom in deutscher Hand. Die deutsche Besatzungszeit in der ewigen Stadt. September 1943-Juni 1944, EUI PhD theses, Firenze 2005, p. 213.
7. Politisches Archiv des Auswärtigen Amts (PAAA), Berlin, R 100872, ff. 318 e 320, Lettere di Moellhausen a Ribbentrop del 6 e 7 ottobre 1943; Liliana Picciotto, Il libro della memoria. Gli Ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 2002, pp. 877-884; Dichiarazione di Kappler [nota 5], p. 157.
8. Landesarchiv Nordrhein-Westfalen, Abteilung Westfalen (LAM), Münster, Q 234, n. 3026, ff. 1-9, Dichiarazione di Johannes Quapp del 20 settembre 1963; LAM, Q 234, n. 3024, ff. 6-15, Dichiarazione di Karl Schütz del 27 agosto 1963; Prauser, Rom [nota 6], p. 158; Steur, Theodor Dannecker [nota 4], p. 117.
9. Kaltenbrunner a Kappler, 11 ottobre 1943, citato in Wildvang, Der Feind [nota 5], pp. 255-256.
10. PAAA, R 100872, f. 324, Von Thadden a Moellhausen del 9 ottobre 1943; Wildvang, Der Feind [nota 5], p. 255; Picciotto, Il libro [nota 7], pp. 877-884.
11. LAM, Q 234, n. 8349, ff. 70-77, Dichiarazione di Rudolf Rahn del 3 agosto 1962; Moellhausen, Die gebrochene Achse [nota 6], p. 90; National Archives and Records Administration (NARA), Washington, RG 226, Entry 210, Box 534, Kappa message 1494-5, Telegramma di Moellhausen del 6 ottobre 1943 (tradotto); Robert Katz, The Möllhausen Telegram, the Kappler Decodes, and the Deportation of the Jews of Rome: The New CIA-OSS Documents, 2000-2002, in Joshua D. Zimmerman (a cura di), Jews in Italy under Fascist and Nazi Rule. 1922-1945, Cambridge 2005, pp. 224-242; The National Archives, Kew, HW 19/352, telegrammi intercettati.
12. Bo Lidegaard, Il popolo che disse no. La storia mai raccontata di come una nazione sfidò Hitler e salvò i suoi compatrioti ebrei, Milano 2014.
13. LAM, Q 234, n. 3033, ff. 121-129, Dichiarazione di Max August Banneck del 24 giugno 1964; LAM, Q 234, n. 3032, ff. 44-51, Dichiarazione di Karl Fritz del 30 aprile 1964; Rapporto di Ugo Foà del 15 novembre 1943, in Comunità Israelitica di Roma (a cura di), Ottobre 1943: Cronaca di un’infamia, Roma 1961; Piero Modigliani, I nazisti a Roma. Dal diario di un ebreo, Roma 1984, pp. 15-16; Picciotto, Il libro [nota 7], pp. 877-884; Wildvang, Der Feind [nota 5], pp. 238-242.
14. Dichiarazione di Quapp 1963 [nota 8]; LAM, Q 234, n. 3027, ff. 78-89, Dichiarazione di Erich Steinbrink del 10 gennaio 1964; LAM, Q 234, n. 3052, ff. 50-56, Dichiarazione di Norbert Mayer del 28 aprile 1966; Dichiarazione di Kappler [nota 5], pp. 158-160; Wildvang, Der Feind [nota 5], pp. 242-243.
15. Wildvang, Der Feind [nota 5], pp. 246-249; LAM, Q 234, n. 3049, ff. 25-32, Dichiarazione di Karl Sommer del 17 gennaio 1966; Dichiarazione di Kappler [nota 5], p. 164; Picciotto, Il libro [nota 7], pp. 877-884; Patricia Kennedy Grimsted, Roads to Ratibor. Library and Archival Plunder by the Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg, in Holocaust und Genocide Studies 19 (2005), pp. 390-458: 402-403.
16. Cfr. Steur, Theodor Dannecker [nota 4]; Bundesarchiv Berlin (BArch B), Berlin Document Center, RS A 5415, documenti mandati da Theodor Dannecker nel 1941 al Rasseund Siedlungshauptamt per il matrimonio.
17. Wildvang, Der Feind [nota 5], p. 252; LAM, Q 234, n. 3025, ff. 122-137 e 177-183, Dichiarazioni di Alwin Eisenkolb del 18 settembre 1963 e del 24 novembre 1959; LAM, Q 234, n. 3042, ff. 18-28, Dichiarazione di Hans Haage del 30 aprile 1965; LAM, Q 234, n. 3056, ff. 158-166, Dichiarazione di Wilhelm Berkefeld del 15 gennaio 1968. Di un’altra composizione del comando parla Michael Tagliacozzo, La Comunità di Roma sotto l’incubo della svastica. La grande razzia del 16 ottobre 1943, in Guido Valabrega (a cura di), Gli ebrei in Italia durante il fascismo, vol. 3, Milano 1963, p. 19. Secondo Tagliacozzo, sarebberero giunti a Roma per la retata 14 ufficiali e sottufficiali e trenta militi delle Waffen-SS Totenkopf-Verbände distaccati da reparti di Einsatzgruppen del fronte orientale. Questo fatto, tuttavia, non è confermato da alcun documento.
21. Dichiarazione di Quapp [nota 8]; Steur, Theodor Dannecker [nota 4], p. 119; Wildvang, Der Feind [nota 5], pp. 236, 257-260; Dichiarazione di Kappler [nota 5], p. 166; Giacomo Debenedetti, 16 ottobre 1943, Torino 2001, p. 4, racconta che un carabiniere avrebbe avvisato una donna ebrea di nome Celeste.
Sara Berger, I persecutori del 16 ottobre 1943, Ricerche dell’Istituto Storico Germanico di Roma, Band 10 (2016)

Martedì 31 gennaio 2006 alle ore 17.00 presso la Sala Auditorium della Discoteca di Stato, Palazzo Mattei di Giove (Via Michelangelo Caetani, 32 Roma), verrà presentato il volume di Amedeo Osti Guerrazzi, Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper, 2005. Intervengono: Stefano Caviglia, Lutz Klinkhammer, Leone Paserman.
Attraverso una scrupolosa ricerca, basata sui documenti dei processi contro collaborazionisti e delatori, Amedeo Osti Guerrazzi riapre la questione della responsabilità dei nostri connazionali nella persecuzione antiebraica. Perché sono stati molti gli italiani che, motivati da antisemitismo e per fini di lucro, hanno portato alla cattura degli ebrei. Ma nella vulgata, tra l’amnistia del 1946 e i racconti di gratitudine di quanti erano stati salvati, si è continuato ad alimentare il mito degli “italiani brava gente”, creando una precoce rimozione delle reali connivenze e colpevolezze. Con una prefazione di Leone Paserman, presidente della Comunità ebraica di Roma.
Amedeo Osti Guerrazzi insegna Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. Tra le sue pubblicazioni: Grande industria e legislazione sociale in età giolittiana (2000), L’utopia del sindacalismo rivoluzionario (2002), Una repubblica necessaria (2004). Per Cooper ha già pubblicato Poliziotti. I direttori dei campi di concentramento italiani, 1940-1943 (2004).
Redazione, Giornata della Memoria 2006: Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Ministero della Cultura, gennaio 2006