La confusione di Berto riguardo l’ideologia fascista

“In altre parole, il mio scopo è soltanto quello di attirare l’attenzione della gente su problemi sui quali mi sembra giusto che la gente si fermi un po’ a meditare, e per arrivarci meglio mi servo dell’esposizione di opinioni personali spesso volutamente arrischiate”. <683
Il brigante <684 e Guerra in camicia nera, <685 se nominati insieme, danno quasi l’idea di un ossimoro, tanta è la loro apparente distanza ideologica. Provocatore per vocazione, infatti, Berto «pare attraversare da destra a sinistra tutto intero lo spettro politico italiano», <686 non solo a uno sguardo generale gettato sull’intera parabola della sua vita, ma anche focalizzando l’attenzione sulla semplice composizione di questi due libri.
Tenendo conto, inoltre, del costante impegno etico della sua scrittura, Berto viene a collocarsi, tra ideologia ed esperienza vissuta, in una concettuale terra di nessuno, a cavallo tra cultura di destra, cultura di sinistra e cristianesimo. Si tratta, come è chiaro, delle tre correnti di pensiero che hanno acceso il dibattito italiano sin da prima della guerra, quelle impersonate in Conversazione in Sicilia dalle prosopopee di Ezechiele, Calogero e Porfirio.
Alessandro Vettori, nel suo recente studio su Berto, pone in tal modo la medesima questione: «Da una convinta ammirazione per il rigorismo ideologico fascista, senza però mai diventare vuoto trionfalismo, in testi come Guerra in camicia nera, si passa impercettibilmente a una altrettanto persuasiva esposizione delle convinzioni marxiste, ad esempio nel romanzo Il brigante, ma senza poter mai inquadrare l’autore in una singola corrente che lo identifichi politicamente. Altrettanto vale per il rapporto di Berto con la fede cristiana. Originario della cattolicissima provincia veneta ed educato in un collegio di Salesiani, lo scrittore non cede alle forti pressioni familiari e sociali senza vagliare il significato di un’appartenenza all’ortodossia cattolica. […] La sua prospettiva di non-allineato darà ai suoi scritti un’affascinante patina di novità su temi mai risolti, ma formulati nella dimensione del mistero e della fede». <687
La confusione di Berto riguardo l’ideologia fascista mi sembra qui piuttosto chiara. Il soldato volontario, cresciuto a pane e camicie nere, non ha chiarezza mentale, non trova la forza per poter dire di voler rovesciare il fascismo. La prima parte di questo testo è scritta da un uomo che vuol essere fascista, ma che tuttavia non lo è fino in fondo. Del fascista conserva qui l’ideale patriottico – il quale peraltro non è esclusivo dei fascisti – e la giustificazione della limitazione della libertà per il raggiungimento di un bizzarro bene comune. Tuttavia, nel suo futuro regime ideale, la libertà è molto meno limitata rispetto al presente, ovvero al 1943. Ritiene poi che debba esistere un’opposizione, rileva la presenza di una corruzione diffusa e, infine, fa suo più che mai il motto “andare verso il popolo”, dichiarandosi pronto a combattere Mussolini stesso per realizzarlo. In breve, Berto qui rifiuta la pratica totalitaria del partito unico, la corruzione del regime del tempo, il culto della personalità e promuove un motto fascista che, nel suo significato letterale, avrebbe avuto legittimità anche tra le labbra di un socialista – anche perché il popolo fascista non assume su di sé il significato razziale esplicitato nel Volk tedesco.
Mi sembra da questo testo che Berto, inconsapevolmente, sia diventato fascista accostandosi più agli aspetti dottrinali che il fascismo aveva in comune con il socialismo rivoluzionario: il fatto non dovrebbe destare clamore, dato che la stessa cosa è effettivamente accaduta a Davide Lajolo. L’autore del celebre Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare Pavese <691 è anche l’autore del meno noto Il voltagabbana, <692 in cui Lajolo racconta la propria esperienza di fascista che si rende conto, all’alba dell’8 settembre, di aver creduto in un fascismo diverso da quello ufficiale. Diventa quindi un voltagabbana, abbraccia il movimento della Resistenza in qualità di comandante e, dopo la guerra, entra in Parlamento tra le fila del PCI. Anche lui aveva creduto in quegli scampoli di socialismo che il regime cuciva sulla propria bandiera al fine di attirare i giovani e gli operai.
La differenza tra Lajolo e Berto sta nel fatto che il primo ha ampiamente operato al fine di cancellare la propria vergogna, operando scelte politiche di impegno e iscrivendosi al partito comunista. Anche Berto ha più volte dichiarato, nel corso del tempo, la propria abiura definitiva al fascismo, perfino nel paratesto di Guerra in camicia nera; tuttavia, la propria ansia di giustificazione lo ha portato a scrivere un libro il cui contenuto, all’altezza del 1955, era assai fraintendibile. Più che spiegare la propria vergogna di fascista e i propri ripensamenti, in quell’occasione Berto ha solo creato un’aria di ambiguità intorno alla sua persona.
Guerra in camicia nera, tuttavia, non fu il suo unico errore di percorso: anche la pubblicazione del Brigante infatti ebbe conseguenze poco gradevoli. Da un punto di vista letterario, si faceva promotore di una scrittura neorealista fuori tempo massimo. Emilio Cecchi, com’è noto, stroncò il libro facendo uso di un’arma retorica da lui usata raramente, ovvero l’ironia: «Poco è da stupirsi che, per esempio in America, storie come Il brigante debbano piacere. Laggiù vanno matti anche di certe economiche tazzine da caffè, stile Cena delle beffe, marcate “Italy”, e che sono fabbricate in Giappone». <693 In America e in Russia, infatti, Berto aveva venduto più di due milioni di copie, <694 ma si tratta per lui di una magra consolazione, di fronte all’insuccesso di pubblico e critica in Italia.
Da un punto di vista politico, invece, la guerra di Corea scoppiata nel 1950 aveva provocato una sorta di reazione anticomunista e Il brigante, a detta dell’autore, è insieme a Le terre del Sacramento di Francesco Jovine <695 l’unico romanzo veramente marxista mai pubblicato in Italia. <696 Il brigante è il romanzo marxista di un ex fascista, pubblicato nel 1951: per noi posteri, avvantaggiati da una visione più lucida, è più facile individuare qui un vero e proprio suicidio politico.
La pubblicazione marxista del ’51 e quella politicamente ambigua del ’55 condurranno Berto non solo all’emarginazione dell’establishment letterario, ma addirittura a una nevrosi d’angoscia decennale, dalla quale si libererà solo con la pubblicazione del Male oscuro.
[NOTE]
683 G. Berto, Due risposte, in Soprappensieri, cit., p. 151, già in Il resto del Carlino, 2 febbraio 1964.
684 Giuseppe Berto, Il brigante, Einaudi, Torino, 1951.
685 Giuseppe Berto, Guerra in camicia nera, Garzanti, Milano, 1955.
686 Alessandro Vettori, Giuseppe Berto: La passione della scrittura, Marsilio, Venezia, 2013, p. 123.
687 Ivi, pp. 123-124.
691 Davide Lajolo, Il “vizio assurdo”. Storia di Cesare Pavese, Il Saggiatore, Milano, 1960.
692 Davide Lajolo, Il voltagabbana, Il Saggiatore, Milano, 1963.
693 Emilio Cecchi, Troppi morti in Di giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Garzanti, Milano, 1954, p. 247.
694 Dario Biagi, Vita scandalosa di Giuseppe Berto, cit., p. 110.
695 Francesco Jovine, Le terre del Sacramento, Einaudi, Torino, 1950.
696 Dario Biagi, Vita scandalosa di Giuseppe Berto, cit., p. 248. Cfr. inoltre Giuseppe Berto, Prefazione, in Il brigante, Marsilio, Venezia, 1997.
Saverio Vita, Autobiografi della vergogna. La vergogna come dispositivo narrativo nella letteratura autobiografica e testimoniale del secondo dopoguerra, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2016