La continua perdita di effettivi tra le fila della formazione costrinse Beltrami a un rapido ripiegamento tra le montagne sopra Megolo, in Val d’Ossola

Valle Strona: Lago e Cima di Ravinella. Archivio Fotografico Distretto Turistico dei Laghi. Foto di Marco Benedetto Cerini

Questa storia comincia nel 1943 a Cireggio, una frazione di Omegna, che si specchia nelle acque del Lago d’Orta. Siamo nella zona del Cusio, nella Valle Strona, caratterizzata da valloni scuri, sentieri che si inerpicano in una macchia di faggi, ontani, castagni, aceri, immersa in un silenzio grande quanto la montagna. A Cireggio, la famiglia Beltrami, d’estrazione borghese e residente a Milano, possedeva già da alcune generazioni una casa per le vacanze.
È qui che, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943, fuggito dalla caserma milanese in cui prestava servizio militare, l’architetto Filippo Maria Beltrami raggiunse sua moglie Giuliana e i tre figli, l’ultimo di soli pochi mesi. L’esercito italiano era ormai allo sfacelo e il nord Italia ostaggio delle truppe tedesche.
Proprio in questa confortevole abitazione sul lago d’Orta, il richiamo della legge morale si fece sentire ancora più forte. “Ti par che quelli che se ne sono andati, mollando tutto, abbiano fatto bene?”, chiese un giorno Filippo Maria a sua moglie; lui, che già precedentemente aveva sentito come vacuo, piatto e qualunquista l’ambiente borghese: “Il popolo è magnifico. Noi borghesi siamo marci”.
Dunque, restò. Quell’uomo – alto, con i baffi, taciturno, autorevole, con uno studio avviato, che avrebbe potuto senza troppe difficoltà rifugiarsi in Svizzera – scelse la montagna: ebbe inizio così la storia della figura più eroica, patriottica e per certi aspetti controversa dei primi mesi della Resistenza.
Solo qualche giorno dopo, alcuni giovani si rivolsero a Beltrami per offrirgli il comando della loro banda partigiana. Erano per lo più ex militari che si erano rifugiati sulle montagne di Omegna, nelle località tra Quarna e la Camasca. Beltrami accettò. Era stato scelto non tanto per le sue doti militari, quanto per la sua autorevolezza morale, che lo aveva portato a guadagnarsi la stima di tutta la popolazione locale.
Divenne il Capitano per eccellenza, il Capitano con la C maiuscola (celebrato qualche anno dopo anche da Montale): l’uomo capace di tenere uniti uomini provenienti dalle più disparate esperienze; colui che non disdegnò di portare avanti trattative con il nemico per il bene dei suoi uomini e della popolazione civile; colui che, anche nello sconforto, non perse mai la signorilità che lo contraddistingueva.
Il partigiano Enrico Massara raccontò che Beltrami era solito andare a trovare la sentinella in piena notte: “(…) era un modo come un altro per conoscere meglio i suoi ragazzi, per dare e chiedere fiducia, per farseli davvero amici. Rimase accovacciato di fronte a me per oltre un’ora, ascoltando, come lui voleva, il racconto dei miei primi venticinque anni, i miei dubbi, le mie ansie, le mie perplessità e le mie speranze (…) Non mi ero accorto del tempo passato”.
Quella originaria banda di uomini, sorta attorno a una figura tanto carismatica, diventò presto la brigata “Patrioti Valstrona”, che arrivò a comprendere 400 e più uomini. Così tanti da rendere necessario lo spostamento in una valle più ampia: la Val d’Ossola.
Fu nel corso di questa operazione che si verificò uno degli episodi cruciali della Resistenza novarese e uno dei più controversi. A Megolo, frazione di Pieve Vergonte – dove avevano deciso di fermarsi per alcuni giorni – la mattina del 13 febbraio del ‘44 Beltrami e un gruppo di uomini furono attaccati dalle truppe tedesche, vittime di una trappola. La disparità delle forze in campo non lasciava alcun dubbio: o la ritirata o la morte.
Beltrami diede l’ordine di non fuggire e si aprì un conflitto a fuoco che durò all’incirca quattro ore, mentre altre forze partigiane sopraggiungevano sul luogo. Morirono in 11. Tra i primi, cadde proprio il Capitano, colpito da una pallottola alla gola, forse mentre dedicava un ultimo pensiero alla Patria ferita […]
Carmela Moretti, O capitano! Mio capitano! La storia del partigiano Filippo Maria Beltrami, eroe della valle Strona, Santippe, 24 aprile 2021

Il nuovo anno si aprì per Beltrami con l’affissione di un manifesto a Omegna incitante gli italiani alla lotta contro i nazifascisti.
Il 2 gennaio 1944 si svolsero a Omegna i funerali di Franco Rossari così descritti dal notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana: “… sono riusciti grandiosi per l’imponenza della massa operaia e per il numero esagerato di corone. Prestava servizio un reparto di 200 partigiani al comando dello stesso capobanda Filippo Beltrami”.
Tra il 3 e il 5 gennaio ci furono dei contatti con esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale della provincia¹.
Dopo gli arresti di Donato Ferrari e Gino Vermicelli a Novara (4 gennaio) e di Lino Ferrari (il suo commissario politico) a Varallo Pombia (5 gennaio), Beltrami fece sequestrare il commissario prefettizio di Omegna inviando Alfredo Di Dio a Novara dal prefetto per trattarne la liberazione. In quell’occasione avvenne un durissimo scontro tra le diverse anime del fascismo locale, tra chi in sostanza (Prefetto e Questore) intravedeva nelle trattative un possibile modo per dividere le formazioni partigiane e chi (soprattutto gli esponenti del partito fascista repubblicano) non accettava alcun compromesso.
Si giunse così all’incontro di Ameno tra Beltrami e il Prefetto Tuninetti, il questore Abrate e la presenza in qualità di mediatore del Vescovo di Novara Monsignor Leone Ossola, che portò alla liberazione di Lino e Donato Ferrari e Gino Vermicelli, nonché alla proposta di creazione di una zona neutra nel Cusio. L’incontro creò nuove incomprensioni con i garibaldini, che furono superate solo successivamente.
Intorno alla metà di gennaio, infatti, il “Capitano” inviò circa un centinaio di uomini al comando del capitano AlbertoLi Gobbi, in aiuto alle formazioni di Vincenzo Moscatelli in Valsesia, dove era in corso un rastrellamento. A causa della scelta di Li Gobbi di coprirsi il volto, da cui il soprannome di “capitano mascherato”, si rischiò un nuovo incidente tra i due gruppi e lo stesso Li Gobbi d’esser fucilato come spia. Fortunatamente questi riuscì a dimostrare il proprio ruolo, ottenendo un rifornimento alleato per le formazioni. I partigiani di Beltrami ritornarono in Valle Strona il 18 gennaio. Nel frattempo, Beltrami aveva rioccupato Omegna per consentire il passaggio in Svizzera dei prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi nei mesi precedenti².
Verso la fine del mese di gennaio un collaboratore di Beltrami, l’avvocato Mario Macchioni fu obbligato a riparare in Valle Strona, ma la sua famiglia fu presa in ostaggio dalle SS e dovette fare da tramite tra il “Capitano” Beltrami e il comandante tedesco.
Tra il 27 e il 30 gennaio, in seguito all’arrivo di un forte contingente tedesco a Omegna, la Valle Strona fu abbandonata. La marcia di trasferimento verso l’Ossola in pieno inverno fu difficilissima: degli oltre trecento partigiani che costituivano la “Brigata Patrioti Valstrona”, molti abbandonarono la formazione, altri furono dipersi e attaccati, sì che soltanto una cinquantina di uomini riuscì a ricongiungersi col “Capitano”³ a Megolo, luogo prescelto per la ricostituzione della brigata.
Ma, il 13 febbraio a Megolo, ci fu lo scontro decisivo contro le truppe nazifasciste. Quella battaglia segnò l’apice e contemporaneamente la fine della formazione partigiana del “Capitano”.
Dopo quattro ore di combattimento accanito, terminate ormai le munizioni, senza la guida del loro “Capitano” , i partigiani superstiti furono costretti a ripiegare e disperdersi fra le rocce e nella boscaglia, cercando poi di raggiungere gli altri distaccamenti. Alcuni di loro giunsero fino a Rimella in Valsesia.
Redazione, Gennaio-Febbraio 1944 Dalla Valle Strona a Megolo, Isrn

Giuliana Gadola Beltrami.
Nacque nel 1915 a Milano.
Si sposò nel 1936 con Filippo Maria Beltrami da cui ebbe tre figli: Luca, Giovanna e Michele. Durante gli anni ’30 i coniugi Beltrami ebbero frequentazioni di ambienti antifascisti soprattutto a Milano. Nell’autunno 1942, in seguito a un disastroso bombardamento su Milano, decisero di trasferire tutta la famiglia nella casa di Cireggio sul lago d’Orta.
Dopo l’8 settembre 1943, i coniugi valutarono l’opportunità di rifugiarsi in Svizzera finché un gruppo di ragazzi del luogo e di soldati sbandati non offrì a Filippo il comando della nascente formazione partigiana. Giuliana seguì il marito nell’impresa anche durante le prime operazioni. Anche lei rimase ferita nello scontro a Buccione con gli uomini dei fratelli Alfredo e Antonio Di Dio, il 18 dicembre 1943.
Strinse amicizia con Lino Ferrari e con molti altri appartenenti il primo gruppo di partigiani. Nei primi tempi fu coinvolta anche nella ricerca di finanziamenti per la formazione. Il marito la mandò spesso dagli industriali con questa convinzione: “Con te si vergogneranno magari di più a rifiutare”.
I figli furono nascosti nella zona di Varese a casa dei genitori di lei; l’antivigilia di natale del ’43, con il precipitare della situazione, Giuliana lasciò il marito e la formazione. Successivamente si nascose in Val d’Aosta, nel Canavese, presso amici antifascisti.
Il 1° febbraio 1944 il Capitano, tramite l’avvocato Mario Macchioni e una suora di Omegna, ordinò a Giuliana di espatriare in Svizzera con i bambini. Lei si trovava a casa di Piero Malvezzi, vicino Ivrea (Parella), quando seppe di Megolo e della morte del marito.
Divenne un personaggio da leggenda e girarono voci sul fatto che avesse preso il comando della formazione dopo la morte del Capitano: “con una raffica di mitra la Signora ha ucciso sei tedeschi” sentì dire di sé, da alcuni viaggiatori in treno mentre leggevano un articolo de “La Stampa”.
Nei giorni della Liberazione sfilò a Milano con Bruno Rutto e la Divisione Alpina dedicata al marito […]
Redazione, Giuliana Gadola Beltrami, Isrn

Filippo Beltrami nacque a Cireggio, facente parte dell’attuale provincia del Verbano-Cusio-Ossola, il 14 luglio 1908. Negli anni giovanili, trascorsi nel paese natale, ebbe modo di attendere agli studi elementari e medi e, successivamente, venne ammesso al liceo ginnasio statale Alessandro Manzoni di Milano.
Iscrittosi alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, ebbe modo di intessere i primi contatti con alcuni rappresentanti dell’antifascismo locale e, dopo aver terminato gli esami previsti, nel 1932 discusse la propria tesi e conseguì il diploma di laurea. Terminato il percorso accademico, venne richiamato per assolvere i propri obblighi di leva e fu ammesso alla scuola allievi ufficiali di complemento nel 21° reggimento artiglieria nel quale, dal 1° luglio 1931 al 21 gennaio 1933, prestò servizio di prima nomina assumendo il grado di sottotenente.
Conclusa la formazione militare, il giovane ebbe modo di aprire uno studio privato per svolgere la propria opera di architetto nel capoluogo lombardo, riprendendo la tradizione familiare che vedeva nel prozio paterno, Luca Beltrami, un professionista molto affermato in questo campo. Nel corso del 1938 rispose a un bando presentando il progetto, classificatosi come secondo nella selezione finale, per la sistemazione di piazza Duomo, che aveva intenzione di dedicare alla memoria dei soldati caduti nel corso della I Guerra mondiale. Nella presentazione del lavoro egli scrisse: «Alle magnanime ombre del passato per cui virtù alta volò nei secoli la fama del lombardo suolo. Alle generazioni degli avi, accorse al suono della rotta campana, spiegando al vento dell’eroico Marzo il tricolore della Patria. Ai silenziosi fanti della grande prova. A Voi, ardenti creature, balzate dall’ombra del Covo fatale nella vivida luce della gloria, a Voi, infine, giovinetti guerrieri, che esanimi cadeste in barbara terra, donatori di imperi, eroi di un mito che sempre si rinnova, dedico questa mia fatica. Il vostro sublime dramma, eternato nel candido marmo della fronte, sia alle future generazioni incitamento e sprone».
Fu in questi anni, inoltre, che B. si iscrisse alla sezione milanese dei Laureati di Ac, movimento fondato nel 1933 da Igino Righetti e mons. Giovanni Battista Montini con l’obiettivo di dare continuità al percorso di formazione religioso e intellettuale dei giovani che uscivano dalla Fuci dopo gli anni universitari.
Nel 1936, dopo tre mesi di fidanzamento, convolò a nozze con Giuliana Gadola, con cui qualche anno più tardi avrebbe condiviso l’esperienza resistenziale, da cui ebbe tre figli. In quell’anno, inoltre, fece richiesta per frequentare un corso di istruzione per essere promosso a tenente e ottenne il grado a scelta ordinaria il 1° luglio. Richiamato alle armi per mobilitazione, il 5 giugno 1943 B. venne assegnato, dopo specifica richiesta da lui avanzata, al deposito del 27° reggimento artiglieria di stanza a Milano dove, nel corso dei quarantacinque giorni successivi alla caduta del governo fascista, venne promosso al grado di capitano. Fu proprio in questo contesto che venne raggiunto dalla notizia della firma dell’armistizio di Cassibile e, visto sciolto il reparto e constatato lo sbandamento di molti dei commilitoni, decise di raggiungere la famiglia e di trasferirsi con moglie e figli nuovamente a Cireggio, presso una villa di famiglia nella quale avrebbero potuto evitare i bombardamenti che funestavano Milano.
Ben noto per le sue idee antifasciste, B. venne presto avvicinato da personaggi legati al movimento resistenziale lombardo e, con questi, decise di organizzare e prendere il comando di un modesto gruppo di ex militari del regio esercito che erano riusciti a sfuggire dalle deportazioni in Germania. Organizzata una formazione di partigiani e assunto il nome di battaglia de «Il Capitano», raggiunse la zona di Quarna, in Val Strona. Fu in questo periodo di consolidamento della banda che sua moglie collaborò attivamente allo scopo di garantire continui rifornimenti e l’equipaggiamento necessario attraverso dei finanziamenti ottenuti dai frequenti contatti con gli industriali della zona e, allo stesso tempo, fu lei a curare i primi rapporti con il Cln locale.
Incrementato il numero di uomini a disposizione, arrivando fino a poter contare su circa duecento effettivi, la banda da lui guidata raggiunse quella dei fratelli Alfredo e Antonio Di Dio, anche loro soci della Giac di Cremona e future medaglie d’oro al valor militare della Resistenza, dando corpo nel dicembre del 1943 a una nuova formazione che prese forma dalla fusione dei due gruppi e venne denominata Brigata patrioti Valstrona. Il comando venne assunto proprio da B., mentre Alfredo Di Dio ne divenne il vice comandante con la responsabilità del comando operativo, occupandosi delle questioni più prettamente tecniche e coordinando le azioni militari. Nel capodanno del 1944, inoltre, la firma del «Capitano» comparve su un manifesto che, rivolgendosi alla popolazione civile, invitava a considerare l’anno che stava per cominciare come quello «della liberazione della Patria», mettendo però in guardia dal ritenere l’obiettivo già raggiunto in quanto, egli sottolineò, «più la meta sarà vicina, più dura sarà la lotta; lotta contro l’invasore straniero, lotta contro l’infame oppressore fascista».
L’ottimistica previsione sulla fine della lotta di liberazione dovette ben presto scontrarsi con la realtà degli eventi che si susseguirono. Constatata la grande difficoltà nel reperire armamento e munizioni, infatti, la banda venne fortemente colpita dai duri scontri che dovette affrontare contro reparti nazifascisti impegnati in operazioni di rastrellamento nel corso dei primi mesi del 1944. La continua perdita di effettivi tra le fila della formazione costrinse B. a un rapido ripiegamento tra le montagne sopra Megolo, in Val d’Ossola, per tentare di riorganizzare i reparti e coordinare la propria azione con le altre bande presenti nel territorio.
Nel corso di questo periodo, invece, non fu del tutto chiaro il tipo di rapporto che a più riprese B. tentò di intessere con alcuni ufficiali delle truppe d’occupazione per trattare tregue momentanee o scambi di prigionieri. Durante una riunione tenuta il 26 gennaio insieme ai membri del Cln provinciale a Campello Monti, nei locali del comando della sua formazione autonoma, si era detto favorevole alla possibilità di accettare offerte di «colloqui» o di «tregua» da parte del nemico. Allo stesso modo, però, già nel dicembre del 1943 egli aveva perentoriamente risposto allo stesso Cln che non avrebbe accettato «nessuna tregua, per nessuna ragione». Nonostante questo, comunque, contatti più o meno diretti vi furono, come, ad esempio, quello che lo portò all’incontro con il capo della provincia di Novara, Dante Maria Tuninetti, con il quale cercò di trattare una «tregua armata», ottenendo una veemente reazione delle brigate comuniste presenti nella zona, fortemente contrarie ad accordi con le forze nazifasciste. Egli, inoltre, tentò di instaurare contatti per preservare la popolazione civile dalle rappresaglie ordite dopo le azioni partigiane e, anche attraverso la mediazione del vescovo di Novara mons. Leone Ossola, organizzò lo scambio di prigionieri portato a termine con la sua approvazione dal vice comandante Di Dio con Tuninetti.
Il 13 febbraio dello stesso anno, dopo aver rifiutato la possibilità di salvarsi con un salvacondotto offertogli da un ufficiale tedesco della guarnigione di stanza a Meina, che chiedeva in cambio il disarmo della sua banda, la formazione di B. venne fatta oggetto di una vasta operazione di rastrellamento condotta da ingenti truppe nazifasciste che, raggiunta la zona di Megolo, ingaggiarono battaglia con i partigiani per piegare l’ultimo baluardo di resistenza nella zona e renderla nuovamente sicura. La formazione da ex militare indusse il «Capitano» a un effimero tentativo di difesa contro l’offensiva dei tedeschi e repubblichini.
Visto lo squilibrio delle forze in campo e la mancanza di armamento e munizioni, la brigata cominciò ben presto a cedere davanti all’avanzata nemica e a sbandarsi nel tentativo di una ormai impossibile ritirata. Più volte ferito, B. volle ricompattare le fila dei suoi uomini e tentare una strenua resistenza, asserragliandosi con un piccolo contingente in un casolare per evitare il combattimento in campo aperto. In questo ultimo tentativo, però, egli dovette ingaggiare un durissimo scontro a fuoco nel corso del quale, colpito ripetutamente, perse la vita. La salma di B. venne recuperata solo il giorno successivo insieme a quella di molti dei suoi compagni tra i quali, tra gli altri, vi era Alfredo Di Dio.
Dopo la sua morte, in onore del suo estremo sacrificio, la brigata da lui guidata assunse il suo nome, divenendo Brigata alpina «Beltrami» e al comando salì Bruno Rutto, ufficiale del 3° Reggimento alpini. Alla memoria di B. venne decretata la medaglia d’oro al valor militare con la qualifica di tenente di complemento d’artiglieria e partigiano combattente con la seguente motivazione: «Primissimo fra i primi volontari della libertà, organizzava la resistenza nelle sue valli ed in pianura, conducendo personalmente le più temerarie imprese. Ferito una prima volta, non desisteva dalla durissima vittoriosa attività e rapidamente conquistava al suo nome una leggendaria e cavalleresca aureola. Di ritorno da un’azione, veniva attaccato da forze venti volte superiori, ma sdegnoso di ripiegare o di arrendersi, si asserragliava con pochi compagni in un casolare e accettava l’impari combattimento. Riportava diverse ferite e continuava nella lotta ardente finché dopo altre tre ore di combattimento cadeva gloriosamente insieme a tutti i suoi compagni. Megolo, 13 febbraio 1944».
Onorificenze
Medaglia d’oro al valore militare
Primissimo fra i primi volontari della libertà, organizzava la resistenza nelle sue valli ed in pianura, conducendo personalmente le più temerarie imprese. Ferito una prima volta, non desisteva dalla durissima vittoriosa attività e rapidamente conquistava al suo nome una leggendaria e cavalleresca aureola. Di ritorno da un’azione, veniva attaccato da forze venti volte superiori, ma sdegnoso di ripiegare o di arrendersi, si asserragliava con pochi compagni in un casolare e accettava l’impari combattimento. Riportava diverse ferite e continuava nella lotta ardente finché dopo altre tre ore di combattimento cadeva gloriosamente insieme a tutti i suoi compagni. Megolo, 13 febbraio 1944.
Andrea Pepe, Beltrami Filippo, Isacem