La prima donna della Resistenza italiana a finire davanti ad un plotone d’esecuzione

Francesca “Edera” De Giovanni
Fonte: Bossy cit. infra

Edera [Francesca De Giovanni], nata a Monterenzio, in provincia di Bologna, il 17 luglio 1923, cresce in una famiglia di antifascisti e antifascista rimane per tutta la sua breve vita. Fin da bambina aiuta la madre nelle faccende domestiche e il padre, mugnaio, nel trasporto della farina. I suoi studi si interrompono in quarta elementare, e in seguito si sposta da Monterenzio per andare a servizio presso una facoltosa famiglia bolognese, presso una di quelle signore imbellettate a cui voleva tanto assomigliare. Nel paesello non c’è possibilità di lavoro, i fascisti non si curano di nulla se non del proprio benessere ed Edera, seppur ancora molto giovane, inizia ad intuire che qualcosa non va.
Edera ritorna a casa in un’occasione triste, la morte della madre, ed è allora che, anche grazie a lunghe conversazioni con il padre, si rende conto che è necessario farsi una nuova coscienza, più aperta, e che sarebbe di lì a poco giunto il momento di combattere per un diritto, per un miglioramento. Miglioramento che però non sarebbe mai venuto dal regime, ma dalla massa del popolo che non ha mai avuto nulla se non guai e angosce.
È così che Edera comincia il suo lavoro di propaganda antifascista, inizialmente guardinga, poi sempre più ardita, tanto che, con il fascismo ancora imperante, non esita a polemizzare pubblicamente con un gerarca del suo paese d’origine. Si trova in un’osteria e, fumando una sigaretta (una donna che fuma una sigaretta in pubblico portando anche un paio di pantaloni, poi!), si avvicina ad un impiegato comunale e, indicando la camicia nera che porta sotto la giacca, gli chiede sarcasticamente se non si vergogna a portare una camicia così sporca e si offre di lavarla lei stessa al fiume per poi restituirgliela pulita.
A causa di questo fatto, Edera viene arrestata e interrogata dai carabinieri, davanti ai quali ammette di aver effettivamente pronunciato quella frase, ma in tono scherzoso, dal momento che la camicia era sporca. Viene incarcerata e dopo due settimane viene diffidata e liberata.
[…] Il fascismo, quindi, cade di colpo, ma per poco. Le camicie nere ben presto ritornano più agguerrite di prima, pronte a sterminare senza pietà, questa volta assistite dai tedeschi.
Prima ancora che la Resistenza si organizzi, insieme ad altri giovani di Monterenzio Edera impone alle autorità del paese che il grano ammassato nei depositi venga distribuito a tutta la popolazione. Ormai è pronta e capace per la lotta, quindi si mette in azione per costituire la prima squadra di partigiani, che su suo impulso avrebbero poi costituito la 36a Brigata Garibaldi, e con essa entra in azione. Ciò che la squadra compie è tanto importante quanto rischioso: taglia i fili della linea del telefono e del telegrafo che collegava Roma al Brennero e a Berlino, bloccando così, almeno temporaneamente, le comunicazioni dell’Asse.
Edera diventa sempre più coraggiosa, ripensa ai primi tempi in cui ancora qualche brivido di paura le percorreva la schiena. Ma ora no, ora è pronta a tutto, con l’ardore dei suoi vent’anni.
Purtroppo, però, il suo giovane coraggio viene travolto da una delazione, che diventa la sua condanna a morte.
Il comando partigiano ha deciso che Edera, insieme ad altri cinque compagni, tra cui c’è anche Egon Brass, il suo fidanzato, deve partire per passare in un’altra formazione. L’ordine è quello di radunarsi la mattina del 25 marzo 1944 in Piazza Ravegnana, a Bologna, davanti alla bancarella di un venditore di penne stilografiche, anche lui partigiano, che avrebbe dovuto dare la parola d’ordine e preparare il gruppo alla partenza. I sei si avvicinano alla bancarella separatamente per non dare nell’occhio, ma una spia aveva già agito e all’improvviso i giovani si trovano circondati da un gruppo di brigata nera.
Tutti e sei vengono arrestati e rinchiusi nelle carceri di San Giovanni in Monte. Edera viene torturata per un giorno intero, ma non si lascia sfuggire nessuna informazione e non dà ai suoi carnefici la soddisfazione di vederla piangere.
A questo punto, Edera e i compagni catturati con lei vengono letteralmente gettati su un camion e portati dietro la Certosa, dove un plotone è pronto per la fucilazione.
Tuttavia, la giovanissima Edera, nonostante sia ben consapevole di essere in punto di morte, decide di compiere un ultimo atto di ribellione: si volta per guardare in faccia coloro che le stanno per togliere la vita ma soprattutto perché loro guardino lei. E con tutto il fiato che le rimane in corpo dopo le torture grida: “Tremate. Anche una ragazza vi fa paura!”.
Poi arriva la scarica di pallottole, dritta nel petto.
Insieme ad Edera De Giovanni, quasi ventunenne, vengono fucilati i partigiani Egon Brass, Ettore Zaniboni, Enrico Foscardi, Attilio Diolaiti e Ferdinando Grilli. È il primo aprile 1944.
[…]
Fonti:
A.N.P.I.
Storia e memoria di Bologna
Albertazzi, Arbizzani, Onofri, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo bolognese (1919-1945).
Arbizzani, Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti – La stampa periodica clandestina. Istituto per la Storia di Bologna, 1969
Alice Picco, Tremate. Anche una ragazza vi fa paura: Edera De Giovanni, Bossy, 25 aprile 2016

Francesca “Edera” De Giovanni
Fonte: ANPI Bologna

[…] Il primo arresto avvenne il 28 Gennaio 1943, quando venne arrestata con l’accusa di aver risposto alle avance di un impiegato comunale (che indossava la camicia nera sotto alla giacca) dicendo: “Queste camicie nere… tra qualche anno dovranno sparire!”.
Francesca fortunatamente se la cavò con 15 giorni di carcere, e quando tornò a Monterenzio cominciò a lavorare nel molino del paese, luogo di ritrovo dei primi gruppi partigiani autonomi che organizzavano sabotaggi e scioperi, tra cui faceva parte anche il fratello Guerrino.
Ben presto Francesca, si avvicinò a questi gruppi, molti dei quali confluiranno poi nelle Brigate 36° Garibaldi e 62° Camicie Rosse. Qui conobbe Egon Brass, uno slavo scappato dal suo paese che decise di aderire alla Resistenza Italiana. Fin da subito si innamorò di Francesca, che divenne “Edera”, nome di battaglia.
Alla fine del Marzo 1944, Francesca lascia Monterenzio, per raggiungere con il fidanzato Egon Brass Bologna e unirsi ad alcuni gruppi di liberazione attivi nel capoluogo emiliano. Appena giunta a Bologna, venne catturata, torturata e rinchiusa nel carcere di San Giovanni in Monte a Bologna.
Edera non si lasciò sfuggire nessuna informazione ed il 1° Aprile 1944, viene portata sul retro del Cimitero della Certosa di Bologna, dove un plotone di esecuzione l’attende. Edera, decide però di compiere l’ultimo atto di ribellione; voltandosi per guardare in faccia ai suoi carnefici, grida “Tremate! Anche una ragazza vi fa paura!”.
Insieme ad Edera De Giovanni, vengono fucilati anche il suo compagno Egon Brass ed Ettore Zaniboni, Enrico Foscardi, Attilio Diolaiti, Ferdinando Grilli, tutti appena ventenni.
[…]
Redazione, Edera De Giovanni: “Tremate, anche una ragazza vi fa paura!”, La linea del ricordo, 17 luglio 2017

[…] Il ritratto fatto da Renata Viganò in Donne della Resistenza – edizioni S.T.E.B. – BOLOGNA
Era sempre stata buona e cara, fino da bambina. Aiutava la mamma nelle faccende, il babbo che aveva il mulino. Certe volte era tutta bianca per la farina, diceva: «Mi dò la cipria come una signora di città». Ma proprio dalle signore di città dovette andare a far la serva, che il guadagno era poco e al suo paese, Monterenzio, non esisteva la minima speranza di lavoro. Terra di mezza montagna, terra ingrata. Calanchi e slavine, poco per seminare. E c’erano i fascisti che non si curavano di niente, bastava che stessero bene loro, quei tre o quattro che avevano in mano tutto: la gente s’arrangiasse.
Così l’Edera venne in città a servire, chissà con quanta nostalgia e tristezza della sua casa, delle colline verdi e azzurre nell’amato paesaggio dell’infanzia. E poi, è veramente un duro stato quello delle servette. Sono giovani, quasi ancora bambine, scelte dalle famigliole borghesi «voglio e /non posso» come si dice in Toscana. Cioè quelle con pochissimi quattrini e molta spocchia, dove neppure il mangiare è mai sufficiente. Edera in fin dei conti stava bene con i suoi, c’era affetto, unione, anche coi pensieri e i disagi. Non vedeva l’ora di ritornare dalla mamma, spesso la sera piangeva prima di addormentarsi.
A casa ritornò, ma fu un brutto giorno dopo averlo tanto desiderato. La mamma era morta e lei doveva prenderne il posto. Il vuoto di quella perdita la rese diversa da prima. Cominciò a pensare a tante cose. Perchè i signori hanno se vogliono la loro famiglia unita e i poveri spesso non possono. Era stata una crudeltà la lontananza finché la mamma era viva, e tornare ora per andare a trovarla al cimitero. Si rendeva conto a poco a poco, anche parlando col babbo, di idee e di vita socialista, che bisognava farsi una nuova coscienza, più chiara, più aperta, e che sarebbe venuto il momento di combattere per un diritto, un avanzamento, un miglioramento dovuti a coloro che non hanno mai avuto nulla, se non guai, fatiche, angoscie, e sono la maggior parte della gente, la massa del popolo a confronto di una minoranza privilegiata.
Così imparò a odiare i fascisti scatenati da questa minoranza, prepotenti e sanguinari, torturatori, nemici di ogni più pallida figura di giustizia. Già c’era la guerra che mieteva la vita umana come fa il contadino col frumento quando è maturo. L’Edera cominciò il suo lavoro di propaganda antifascista, dapprima guardinga, poi sempre più ardita. Una volta a Savazza si trovò in un locale pubblico a prender parte a una discussione. Le scappò detto rivolta a un fascista che si lavasse la camicia ormai troppo sporca. La denunciarono, ma non fece in tempo per il processo.
Il fascismo cadde di colpo, e le camicie nere furono tutte messe non in bucato ma in solaio, almeno al momento. Per poco purtroppo, chè si rifecero ben presto e più nere che mai. Se prima i fascisti uccidevano, adesso, validamente assistiti dai tedeschi, avrebbero sterminato senza pietà.
L’8 settembre insieme al babbo distribuì alle famiglie il grano del mulino. «Meglio mangiarlo noi piuttosto che lo portino via i tedeschi» — diceva. E il giorno dopo organizzò un gruppo di antifascisti, quelli del paese e altri sfollati da Bologna. Andarono alla caserma dei carabinieri, fecero tanto che persuasero il maresciallo a dare alla popolazione il frumento dell’ammasso. Così tedeschi e repubblichini in arrivo non ne trovarono a Monterenzio neppure un chicco.
L’Edera era già considerata adatta e capace per la lotta. Aveva poco più di vent’anni, era nata il 25 luglio del 1923 (in realtà nasce il 17 luglio. N.d.R.). La caduta del fascismo era stato un bel regalo per il suo compleanno, ma poi non se n’era fatto di nulla, bisognava davvero difendersi in qualche altro modo. Ed ecco l’Edera mettersi in moto a costituire la prima squadra di partigiani, e con essi andare in azione. Fecero una cosa molto importante, senza contare il rischio: tagliarono i fili della linea del telegrafo e telefono che collegava Roma al Brennero e a Berlino. Era quasi tutta sotterranea, ma in un tratto del territorio di Monterenzio passava aerea. Tac, tac, che gioia! Per il momento l’Asse era ridotta al silenzio almeno di telegrafo e telefono. E ci volle il suo tempo a trovare il guasto, chè la strada era lunga. L’Edera si sentiva felice come se fosse andata a spasso con l’innamorato. Continuò il lavoro nella formazione, tutto ciò che si chiedeva da lei. Ogni volta aveva più coraggio, le sembrava niente. Pensava a quando aveva cominciato, allora forse qualche brivido le correva per la schiena. Adesso no. Era allegra, rideva spesso con un bel riso felice. Così ci è rimasta pure nella fotografia, fatta poco prima che la prendessero.
La presero a causa di una sporca spia. Altrimenti forse sarebbe viva, ancora giovane e sorridente, e forse sarebbero vivi i cinque compagni che andarono con lei per la stessa via: il suo fidanzato Egon Bras, Ettore Zamboni, Foscardi, Attilio Diolaiti, Ferdinando Grillini.
Il comando partigiano aveva deciso che partissero insieme per passare in altra formazione. Ancora un disegno ed un compito importante. Alcuni di loro erano di Monterenzio, uno o due di Bologna. Perciò ebbero l’ordine di trovarsi tutti la mattina del 25 marzo 1944 in piazza Ravegnana. Davanti alle Torri c’erano dalle bancherelle; l’appuntamento era fissato dal venditore di penne stilografiche, un partigiano anch’esso, che avrebbe dovuto attraverso la parola d’ordine avviarli a preparare la partenza. Puntuali, disinvolti, vennero a guardare le stilografiche, mostrando di non conoscersi, o almeno non tutti. Ma la spia aveva agito, insospettata, anzi tenuta in conto di compagno, dagli stessi che avevano avuto l’incarico della azione. Intorno alla bancarella si strinse ad un tratto un gruppo di brigata nera. I sei furono arrestati e chiusi nelle carceri di San Giovanni in Monte. Un giorno fortunato per i repubblichini. Infatti il questore Tebaldi ne restò così compiaciuto che decise di fucilarli subito, senza processo. Erano segnalati come gente in gamba, meglio cavarli di mezzo al più presto. «Bisogna dare un esempio» – disse – «Che imparino questi briganti fuori legge».
Il 31 marzo, la sera tardi i fascisti andarono a prendere i sei condannati, gli raccontarono la storia di un trasferimento a Castelfranco. Essi non ci credettero. L’Edera disse: «Non è vero, ci portate alla morte», ma non dette alle brutte facce il piacere di sentirla piangere, e lamentarsi. Nel carcere non erano venuti a capo, nè con tranelli nè con sevizie a cavare una sola parola dalla bocca, e anche i compagni avevano taciuto. Ora li buttarono legati su un camion, a spintoni come bestie, il camion partì.
L’ultimo viaggio attraverso il cuore addormentato della città. Le cose guardate con occhi sani, case, alberi, luci oscurate. Era una notte di aprile, pacifica. In alto il cielo pallido, con un quarto di luna. La vita intatta, meravigliosa, pareva impossibile di andare a morire.
Il camion girò dietro la Certosa, si fermò. I brigatisti neri saltarono a terra, trascinarono i condannati, li allinearono con il viso al muro. Volevano anche loro disfarsi di quelle figure diritte e ferme, seccanti per il coraggio. Si misero a sparare subito a raffiche lunghe. Cinque uomini giovani e una ragazza di ventanni. Cadevano sotto i proiettili fitti. Ma prima la ragazza si voltò, sputò con disprezzò, muta. La videro bene alla luce della luna. E lei prese la scarica nel petto.
Fonti:
– Dizionario biografico – Alessandro Albertazzi, Luigi Arbizzani, Nazario Sauro Onofri – Bologna, 1986
– Luciano Bergonzini – Luigi Arbizzani – La Resistenza a Bologna Testimonianze e Documenti – La stampa periodica clandestina – Istituto per la Storia di Bologna – 1969
Comandante Lupo, Francesca Edera De Giovanni (Nome di battaglia Edera), Storie dimenticate, 7 luglio 2014

Negli ultimi giorni del marzo 1944 grazie alla delazione di Remo Naldi – informatore al servizio della Polizia Ausiliaria – sono fermati a Bologna Egon Brass, Enrico Foscardi, Attilio Diolaiti, Ferdinando Grilli e sua nipote Francesca Edera De Giovanni, tutti in precedenza sfollati presso Monterenzio e operanti in un gruppo partigiano formatosi a Savazza (in seguito inquadrato nella 36 Brigata Garibaldi Bianconcini). Il giorno seguente è arrestato in Piazza Ravegnana anche Ettore Zaniboni, brigadiere dei vigili urbani di Bologna, in contatto con il gruppo.
Gli arrestati sono rinchiusi prima presso la camera di sicurezza della caserma dei CCRR di via del Fossato, dove vengono interrogati dal capitano dei CCRR Salvatore Palermo, che il 31 marzo 1944 presenta denuncia a loro carico al Tribunale militare di Bologna. In seguito sono trasferiti nelle carceri di San Giovanni in Monte, dove nella notte del 31 marzo 1944 sono prelevati dal commissario Caputo e dal comandante Renato Tartarotti – comandante della Compagnia autonoma speciale della Polizia Ausiliaria – per un presunto trasferimento presso le carceri di Castelfranco Emilia ordinato dal questore Tebaldi.
Caricati su un camion e condotti fino a via della Barca, nella prima periferia cittadina, sono scortati a piedi fino a via della Certosa. Giunti a ridosso del muro di cinta nella zona nord del cimitero sono quindi fucilati alla schiena da un plotone di esecuzione composto di agenti della Polizia Ausiliaria e della GNR. I 6 corpi, privati delle scarpe, sono quindi deposti in altrettante bare dagli stessi agenti della Compagnia autonoma speciale della Polizia Ausiliaria e trasportati all’ingresso del cimitero, dove sono inumati la mattina successiva.
La notizia della loro esecuzione, riportata da «Il Resto del Carlino» del 2 aprile 1944, è presentata quale risultato di una imponente operazione di polizia, attraverso la quale è stata catturata una pericolosa banda armata; e quale legittimo atto di rappresaglia per i continui attentati operati in città ai danni di fascisti e civili da piccoli gruppi terroristi “che agi[scono] fulmineamente disperdendosi con altrettanta rapidità” (che hanno provocato la morte di 11 persone nel corso degli ultimi due mesi).
Tra gli attentati gappisti l’ultimo in ordine di tempo risulta infatti l’uccisione avvenuta la mattina del 31 marzo 1944 in via del Ricovero (zona stazione San Vitale) di due ufficiali della GNR appartenenti alla milizia artiglieria contraerea di Riolo: il capitano Mario Mele e il tenente Giuseppe Massobrio.
Toni Rovatti, Via della Certosa, Bologna, 1.04.1944, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia