Le azioni in appoggio della Resistenza non rientravano nei piani dei servizi alleati

Un esempio di dispaccio segreto dell’OSS

[…] Nell’assoluta necessità di reperire informazioni sulla consistenza, la dislocazione, i movimenti delle truppe tedesche, gli Alleati [settembre 1943] fecero ricorso ai propri servizi segreti (Special Operations Executive, SOE, britannico e Office of Strategic Services, OSS, degli Stati Uniti).
Nella difficile situazione brindisina, con mancanza di uomini, di mezzi, di spazio e con le continue interferenze alleate, il S.I.M. fu faticosamente ricostituito; al suo comando fu posto il colonnello Pompeo Agrifoglio, già appartenente al Servizio, caduto prigioniero in Africa e fatto rientrare apposta dagli Alleati dal campo di prigionia negli Stati Uniti dove si trovava.
All’interno del S.I.M. fu costituita la 1a Sezione “Calderini”, guidata dal tenente colonnello Giuseppe Massaioli, con compiti “offensivi”; da essa dipendevano: un “Gruppo bande e sabotaggio” (maggiore Antonio Lanfaloni), con compiti di collegamento e rifornimento, e un “Gruppo speciale” (maggiore
Luigi Marchesi), con compiti informativi. Date le difficoltà che i due Servizi anglo-americani avevano incontrato in precedenza, tutti e due ritennero opportuno prendere contatto con il S.I.M. per poterne avere l’appoggio, sia in uomini sia in mezzi. Il S.I.M., a sua volta, ritenne conveniente poter disporre dell’appoggio, specie in finanziamenti e mezzi, che la cooperazione con i Servizi alleati assicurava. Comunque, ognuno dei tre servizi continuò a perseguire, principalmente, i propri obiettivi e ognuno fece, innanzitutto, i propri interessi, ciò che a volte causò gravi inconvenienti con ripercussioni anche nel campo primario delle operazioni. Le azioni in appoggio della Resistenza, in fase di iniziale organizzazione, non rientravano nei piani dei servizi alleati. Invece il S.I.M. aveva interesse a che fossero appoggiate le organizzazioni “militari” nate dallo sbandamento dei reparti delle Forze Armate e che costituivano una forte opposizione alla tendenza in atto, nel nascente movimento partigiano italiano che andava assumendo connotazioni sempre più politiche di tipo comunista anti-monarchico.
Il reclutamento del personale per i Servizi alleati avvenne direttamente oppure, in particolare per quanto si riferisce al personale militare, attraverso il S.I.M. o, a Napoli, attraverso una organizzazione messa in piedi, ai primi di novembre, da Raimondo Craveri, ‘Mondo’, genero di Croce, che si definiva Organizzazione Resistenza Italiana (ORI); tale organizzazione raggiunse un accordo con l’O.S.S. in una apposita riunione che si tenne ad Algeri… Fra i primi ad aderire vi fu il sottotenente medico di Marina Enzo Boeri, ‘Giovanni’, figlio di un ex deputato antifascista, che all’armistizio si trovava a Napoli. Una volta paracadutato nel Nord Italia, Boeri divenne, dal 12 settembre 1944, il capo del servizio informativo del CVL (Corpo Volontari della Libertà).
I britannici chiesero la collaborazione della Marina italiana per quanto riguardava l’impiego di MAS, VAS e sommergibili per l’avvicinamento alle coste italiane […]
A Napoli, a Brindisi e a Monopoli continuava l’attività di reclutamento e di addestramento di personale italiano da destinare alle missioni oltre le linee. I corsi (inizialmente tenuti ad Algeri, per una parte del personale reclutato) comprendevano l’addestramento al lancio col paracadute, quello alla voga (per il personale da inviare via mare) e quello al sabotaggio; vi erano, inoltre, corsi particolari per il personale destinato a compiti speciali, per istruttori, per il perfezionamento degli agenti, anti-sabotaggio, per operatori radio telegrafisti, ecc. Particolarmente delicato era il problema dei radiotelegrafisti. Grazie all’attività di Boeri, l’O.S.S. di Napoli riuscì a reclutare nove marinai radiotelegrafisti che facevano servizio a bordo dei sommergibili italiani inviati a Napoli per fornire elettricità al porto. Dalle loro basi iniziali, stabilite a Napoli, a Brindisi, a Monopoli e Bari, SOE e O.S.S. cominciarono la loro azione di penetrazione nel territorio italiano occupato dai tedeschi. Il S.I.M. fornì direttamente propri uomini e si adoperò per reclutare altro personale fra quello delle Forze Armate […] Giuliano Manzari, La partecipazione della Marina alla guerra di liberazione (1943-1945) in Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Periodico trimestrale – Anno XXIX – 2015, Editore Ministero della Difesa

Nell’Italia occupata dai tedeschi, la presenza di moltissimi militari in grado di condurre operazioni di guerriglia consigliò il Comando Supremo italiano ad inviare direttive intese a dare disposizioni per guidare unitariamente il movimento di resistenza. Il Comando Supremo diffuse, quindi, il 10 dicembre 1943, le Direttive per l’organizzazione e la condotta della guerriglia (“Lettera 333/0P”), che prevedevano la suddivisione del territorio italiano in mano tedesca in sette Comandi Bande Militari: Piemonte-Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna-Toscana, Umbria-Marche, Lazio-Abruzzo, Roma; le direttive si riferivano anche all’organizzazione delle Bande, ai collegamenti e all’amministrazione. Commissione Italiana di Storia Militare (CISM) – a cura di Giuliano Manzari -, La partecipazione delle Forze Armate alla guerra di Liberazione e di Resistenza. 8 settembre 1943 – 8 maggio 1945, Ente Editoriale per l’Arma dei Carabinieri, Roma, settembre 2003

[…] almeno sino all’estate del 1944, l’obbiettivo principale delle autorità militari italiane fu quello di sostenere attivamente lo sviluppo della Resistenza. A tale riguardo ricorderemo come spesso sia stata sottovalutata l’influenza che il cosiddetto “Memorandum di Québec” ebbe sul comportamento delle autorità italiane. Poiché tale documento affermava che il trattamento dell’Italia nel dopoguerra sarebbe dipeso dall’apporto militare che il governo e il popolo italiano avrebbero dato alle operazioni belliche alleate, a partire dal settembre 1943, l’obbiettivo principale del governo del Sud divenne quello di favorire in ogni modo la partecipazione italiana alla guerra contro i tedeschi. In questo senso il governo Badoglio si sarebbe adoperato sia per arrivare a una rapida riorganizzazione
dell’esercito, dopo che questo si era pressoché dissolto in conseguenza dell’armistizio, sia per fornire alle prime formazioni partigiane quegli aiuti militari indispensabili per la conduzione di una efficace guerriglia nell’Italia occupata […] I documenti recentemente declassificati (1998) dal governo degli Stati Uniti relativi all’attività dell’Office of Strategic Services (O.S.S.) – il servizio segreto americano – che durante la Campagna d’Italia si occupò di gestire i rapporti tra i comandi Alleati e la Resistenza nell’Italia occupata, confermano che, a partire dal settembre 1943, le autorità militari del Sud cooperarono lealmente con gli anglo-americani affinché si potesse arrivare a una effettiva cobelligeranza dell’Italia accanto agli Alleati, anche nel campo del sostegno alla Resistenza. Entro la fine del 1943, tale collaborazione portò alla costituzione dietro le linee tedesche di una vasta rete clandestina messa in atto dall’O.S.S., dalla controparte inglese dello Special Operation Executive (S.O.E.) e dal Servizio Informazioni Militari (S.I.M.) italiano. Già a partire dal settembre 1943 infatti diverse missioni clandestine composte da personale italiano e anglo-americano furono paracadutate o giunsero via terra e via mare nell’Italia occupata, con lo scopo di aiutare le formazioni partigiane a ricevere i rifornimenti Alleati. Queste missioni, che previdero sempre la presenza di radiotelegrafisti, rappresentarono il primo contatto diretto tra la Resistenza e i comandi Alleati e si occuparono di gestire tanto la fase logistica della ricezione dei rifornimenti quanto quella dell’attività informativa. Successivamente esse si occuparono di istruire i partigiani sull’uso degli armamenti forniti e di coordinarne l’attività di guerriglia con l’avanzata degli eserciti regolari. È evidente che i documenti dell’O.S.S. confermano quanto sostenuto in studi più recenti, pensiamo in particolare a quello di Massimo De Leonardis sui rapporti tra la Gran Bretagna e la Resistenza italiana secondo cui, per lo meno sino alla fine del 1944, le decisioni anglo-americane furono sempre determinate dalla loro strategia militare complessiva, e dai suoi relativi aggiustamenti in conseguenza dell’evolversi del conflitto, e non da presunte preoccupazioni politiche. Poiché gli anglo-americani considerarono molto presto la Campagna d’Italia come una manovra puramente diversiva, soprattutto dopo l’accanita Resistenza opposta dai tedeschi sulla linea Gustav, il fronte italiano divenne del tutto secondario rispetto ad altri teatri europei e in particolare a quello francese. Claudia Nasini, Una guerra di spie. Intelligence anglo-americana, Resistenza e badogliani nella sesta Zona operativa ligure partigiana (1943-1945), Tangram Edizioni scientifiche, Trento, 2012

[…] Una buona parte della storiografia ha più volte insistito sul timore britannico per il rafforzamento del comunismo in Italia e per la prospettiva che la guerra di liberazione si saldasse a quella di classe; un timore che avrebbe portato a rifornire selettivamente le formazioni partigiane discriminando quelle “rosse” [7]. Dalla documentazione delle missioni Special Force, emerge piuttosto come in questo organismo le Brigate Garibaldi non venissero considerate come un pericolo. Per l’SOE il Partito Comunista oscillava tra l’essere troppo debole per fare una rivoluzione socialista con successo e l’essere compromesso con la formula togliattiana della democrazia progressiva [8]. La visione delle direttive sul rifornimento delle formazioni partigiane e della realizzazione dei lanci dimostra che non ci furono pratiche “volontarie” di discriminazione, confermando piuttosto l’impegno britannico a favore di tutti i “colori” della Resistenza[9].
Dalla primavera del 1944, quando venne deciso di inviare gli ufficiali di collegamento britannici nelle formazioni partigiane, per rispondere alle necessità di controllo/sviluppo della guerriglia e alle incognite del dopo liberazione di Roma, le bande vennero rifornite grazie al contatto che gli ufficiali avrebbero mantenuto con la Specie Force, contatto che avrebbe permesso agli Alleati di utilizzarle per operazioni belliche in coordinamento con quelle regolari. Le direttive dell’SOE dimostrano come nella valutazione delle formazioni venissero considerati tre fattori: la «forza numerica» delle bande, «il presente stato dell’organizzazione ed il grado di attività» ed «il potenziale [raggiungibile] se adeguatamente assistiti»[10]. Non veniva valutata solo la formazione, ma anche il settore strategico dove questa si trovava; una scelta che, come affermava il colonnello Cecil L. Roseberry (J), comandate della Special Force, non prevedeva alcuna «discriminazione, eccetto la possibilità di utilizzo [della formazione] e la priorità militare dell’area»[11]. Un ordine ripetuto da Our attitude towards resistance che ricordava di appoggiare chiunque, senza tener «conto del colore politico di nessuna delle organizzazioni […] previa la nostra valutazione che siano capaci e desiderosi di eseguire operazioni offensive contro il nemico»[12]. Ed effettivamente i report dei British Liaison Officers (BLO) confermano che se la posizione “tenuta” dalle formazioni era strategicamente importante, i partigiani vennero riforniti ugualmente; anche prendendo «un immenso rischio, le armi [avrebbero potuto] essere usate in altre modo»[13]. A smentire la tesi della “discriminazione programmata”, nell’estate del 1944, le aree dell’Italia che ricevevano una quantità maggiore di lanci erano quelle centrali, dove operavano formazioni politicamente più problematiche; quelle del Piemonte settentrionale o delle colline lombarde, le migliori per il grado di organizzazione, erano invece le meno rifornite[14].
Con questo non voglio sostenere che non ci furono effettive discriminazioni e preferenze, ma solo che tali episodi rientrarono nella gestione della guerra, fatta di sviste ed errori, malintesi, ritardi. Un conflitto dove, da parte britannica, la Special Force era costretta ad un compito per il quale non era preparata logisticamente e tecnicamente, mentre da parte italiana pesavano l’impreparazione e i casi in cui le formazioni cercavano di giocare le missioni[15], ed anche i lanci[16], in funzione della competizione politico-istituzionale. Rientrano in questo tragico quadro le formazioni «over-armed», o quelle costrette ad abbandonare il materiale inviato perché già equipaggiate[17]. Se è vero che in certe zone la cooperazione “terra-aria” era così valida che si parlava con tono enfatico della «Partisan Air Force»[18], in altri gli stessi BLO si lamentavano di essere abbandonati[19], e richiedevano dei lanci come unica possibilità per «save our bacon»[20]. Per la tanto perversa quanto “naturale” logica distributiva dei mezzi in un contesto di risorse limitate, ciò significò che ad un eccesso di lanci in un settore corrispondesse la scarsezza di materiale inviato ad un altro. Alla frustrazione derivante dall’impossibilità di rifornire tutte le formazioni esistenti, la Special Force faceva fronte ricordando che, anche nei casi più fortunati, i partigiani non sarebbero comunque mai stati soddisfatti «della quantità dei lanci effettuati»[21]. […]
[7] La letteratura in merito è enorme. Possiamo prendere come esempi di due posizioni diverse Giuseppe Vaccarino, I rapporti con gli Alleati e la missione al Sud (1943-1944), “Il Movimento di Liberazione in Italia”, 52-53 (1958), pp. 50-71 e Massimo Salvadori, Storia della Resistenza italiana, Venezia, Neri Pozza 1955.
[8] Si veda Mireno Berrettini, La Special Force britannica e la “questione” comunista nella Resistenza italiana, “Studi e Ricerche di Storia Contemporanea”, 71 (2009), pp. 37-62.
[9] Su questo argomento anche Mireno Berrettini, Le missioni dello Special Operations Executive e la Resistenza italiana, “Quaderni di Farestoria”, 3 (2007), pp. 27-47.
[10] 6/776 11-7-44, Supplement to paper dated July 1st, 1944. Gubbins aveva chiesto questo report in cui venisse esplicitato concretamente «il volume e il valore del movimento di resistenza italiano e una previsione di come si propone di svilupparsi nel suo futuro». Il rapporto doveva valutare la Resistenza evidenziando «a) Le aree principali dove la resistenza sta fiorendo; b) una breve affermazione del potenziale di ciascun area insieme come il numero di risorse, apparecchiature radio, eccetera, che sono state inviate; c) una stima del numero di lanci e tonnellaggio di pacchi che è stimato essere richiesto da ognuna delle aree»; significativa la mancanza di una valutazione sulla natura politica delle formazioni, in 6/776 7-7-44, CD/G a AD/H.
[11] Peraltro si trattava di una scelta elastica perché non escludeva che gli arerei potessero svolgere delle piccole azioni di rifornimento anche per «servire altri terreni entro raggio tattico», in 6/785 29-11-44, J a Berna.
[12] 6/862, Appendix C, Our attitude towards resistance in North Italy.
[13] 6/791 10-5-45, Holland a Tac HQ N.1 Special Force, Partisan Activities.
[14] 6/776 11-7-44, Supplement to paper dated July 1st, 1944; 6/776 11-7-44, J a AD/H.
[15] In genere questa tentazione era tipica delle formazioni più a destra nell’arco politico che interpretavano la presenza di un ufficiale britannico come un bilanciamento della presenza comunista nell’area. Un esempio in 6/840 16-6-45, Amoore a ?.
[16] In alcune aree le formazioni partigiane erano solite rubarsi i lanci a vicenda con una frequenza tale da indurre il BLO di riferimento a minacciare che se tale pratica non fosse cessata «immediatamente non ci sarebbero stati più lanci», in 6/861 12-11-44, Temple a ?, Flap Mission.
[17] Il termine è in 6/843 26-5-45, McMullen a ?. Altri rapporti che parlano di formazioni sovra-equippaggiate in 6/856 22-3-45, Stevens a Commander SOM e 6/844 15-6-45, Snapper a ?.
[18] 6/854 30-5-45, Brietsche a ?; 6/853 30-9-4?.
[19] Nella guerra partigiana ogni errore, anche il più banale, aveva conseguenze drammatiche, si veda 6/831 del 20-12-44, Lett a McKirth. «In agosto avevo richiesto» un lancio di scarpe, «sono passati 3 mesi e abbiamo avuto poco». Nell’ultimo erano stati inviato loro 78 paia di stivali, ma di una misura troppo grande.
[20] 6/831 30-11-44, Lett a Charles.
[21] 6/853 29-11-44, Vincent a ?. Report from BLO in North East Italy; 6/832 20-1-45, Oldham-?.
[22] 6/856 3-3-45, Stevens a ?, Condition in Piedmont.

Mireno Berrettini, Resistenza italiana e approccio internazionale, Officina della Storia, 29 settembre 2014

Fin dal settembre 1943 l’ORI collaborò alla spedizione della prima missione alleata (Law) nel Nord. Trasportata da un sottomarino e diretta a Lavagna in Liguria, essa era guidata da un nipote di Matteotti, Guglielmo (Minot) Steiner, e comprendeva Fausto Bazzi e Guido De Ferrari. Alla missione si aggiunsero poi Piero Caleffi del PDA di Genova e altri, tra cui il radiotelegrafista Giuseppe Cirillo che più tardi proseguì la sua attività presso la direzione milanese della Resistenza. Nell’ottobre l’ORI di Craveri stabilì un contatto radio con il servizio informazioni clandestino della Otto, appena organizzato a Genova da Ottorino Balduzzi, sostenitore a quell’epoca del PDA. [..] Parri fu in grado di servirsi frequentemente dei servizi della Otto e di comunicare grazie a essa con gli Alleati. Sia l’ORI che le SF si servirono in seguito regolarmente del servizio informazioni della Franchi che le succedette, istituito da Edgardo Sogno e da altri autonomi. ANPI Brindisi

[…] Il S.I.M. si ricostituì, seppur in embrione, già alla metà di settembre [1943], a Brindisi come Ufficio Informazioni e Collegamento del Reparto Operazioni del Comando Supremo, con diretta dipendenza dal Capo Reparto, disponendo solo di una decisa volontà per ricostruire qualcosa che si era sciolto, dopo tanto lavoro e tante amarezze. Fu strutturato agli inizi della nuova fase dello sforzo bellico, con un Capo Servizio e tre addetti.
A dirigere questa organizzazione fu nominato il colonnello Agrifoglio, fatto rientrare dalla prigionia in America il 25 settembre; era già pratico del Servizio, essendo stato a capo del Servizio Informazioni Militare del Comando Supremo dall’ottobre 1943, dopo essere stato addetto al S.I.E. dal 1941.
Era stato catturato l’8 maggio 1943 a Tunisi, mentre era Capo dell’intelligence italiana in quella sede. Rilasciato dal campo di prigionia americano, per via aerea fu trasferito ad Algeri e poi a Brindisi, al Comando Supremo.
Avrebbe tenuto l’incarico fino al dicembre 1945, a guerra ultimata.
Una delle prime attività dell’embrionale Ufficio fu quella di riprendere i contatti con Roma, occupata dai tedeschi: al momento di lasciare la capitale, il Comando Supremo aveva nascosto nella città una delle due radio clandestine con le quali, in fase armistiziale, aveva mantenuto i contatti con i Comandi anglo-americani. Intanto anche il S.I.A. era riuscito a dare origine ad un nucleo informativo e soprattutto a costituire un Centro radio clandestino (che sarà poi conosciuto con sigla B.L.Z.). I primi collegamenti tra Roma e Brindisi avvennero il 19 settembre. […] Il funzionamento del Centro ‘R’ coprì l’arco di tempo tra il 15-16 settembre 1943 e la liberazione di Roma, il 4 giugno 1944. A mano a mano il Centro riuscì a organizzarsi e ad articolarsi con un Capo Servizio, uno schedario, un Gruppo Centrale, che elaborava le notizie operative, sulla base delle quali compilava gli importanti messaggi giornalieri da trasmettere al Comando Supremo, all’Ufficio Informazioni e Collegamento; sulla base delle richieste del vertice forniva dati e precisazioni e soprattutto provvedeva a intensificare e a dirigere l’attività dei Gruppi dipendenti. […] Al Centro ‘A’ (Aeronautica, derivato dal nucleo informazioni del S.I.A.) e al Centro ‘M’ (Marina), integrati nel Centro ‘R’, voluti per ordine del generale Armellini, affluivano quelle notizie note ai Comandi delle due Forze Armate e quelle che giungevano al Centro dal Comando delle bande
interne di Roma. Peraltro anche la Marina era riuscita a stabilire un proprio Servizio Informazioni Clandestino (S.I.C.). L’attività da svolgere era sicuramente difficile, ma fu seguita con grande interesse da parte dei Comandi alleati, che utilizzarono le informazioni raccolte, con concreti
riscontri. […] A Roma si trovarono dunque ad operare una serie di enti informativi: vi fu una certa collaborazione tra i servizi di matrice militare, mentre sembra che non ve ne fu assolutamente tra quelli militari e i civili, organizzati nell’ambito di ricostituiti partiti politici, collegati al Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), che aveva alle proprie dipendenze anche esso un proprio organo informativo clandestino. Bisogna poi aggiungere che anche l’Arma, tra il 20 e il 30 settembre 1943 aveva organizzato una rete informativa militare, inquadrata nel Fronte Clandestino dei Carabinieri
Reali. Stessa cosa accadde per la Guardia di Finanza.
Tra le attività iniziali furono organizzati gli interrogatori degli evasi dai territori in mano ai tedeschi, attivate le comunicazioni radiotelegrafiche con il Comando alleato e con le Unità italiane in Albania e il collegamento con la Missione Militare alleata, nonché ripristinati i servizi cifra. […] Occorreva monitorare con cura anche l’attività portuale e cioè controllare minuziosamente le persone che raggiungevano i porti, via mare o via terra: oltre al personale specializzato appartenente al S.I.M. che avrebbe diretto il servizio, potevano svolgere questa attività la Guardia di Finanza e la Milizia Portuale, che già nel passato si erano distinti in questo tipo di lavoro, chiaramente scegliendo elementi di sicura fede.
Era evidente che il personale del controspionaggio, già specializzato e rimasto fedele alla Monarchia, non poteva comunque assolvere tutti i compiti, sia perché non era numeroso sia perché la carenza di risorse umane sarebbe peggiorata con l’avanzata al nord delle truppe anglo-americane: era quindi assolutamente necessario che quella deficienza fosse ampiamente integrata con un elevato numero di nuovi informatori. Bisognava però utilizzare le risorse fìnanziarie con la massima parsimonia, anche perché non erano molte e dovevano comunque assicurare un notevole rendimento.
Il Capo Sezione Bonsignore notava che specie in sottocentri e nuclei aveva notato un certo sbandamento che poteva essere giustificabile nei primi giorni post armistizio, ma non tollerabile in un futuro. Naturalmente tutta questa complessa attività doveva essere svolta nella massima assoluta
collaborazione con gli organi di controspionaggio anglo-americani.

[…] Già i contatti con quelli anglo-americani non erano facili e la collaborazione avveniva, soprattutto nei primi tempi, sul filo del rasoio, in quanto gli alleati avevano bisogno assoluto della professionalità, che a volte peraltro contestavano, degli italiani nel settore informativo. […] Non fu facile, da quanto risulta dai documenti, convincere soprattutto la Special Force a utilizzare i movimenti della Resistenza e a dare loro un aiuto concreto, in quanto gli alleati ritenevano che i movimenti clandestini non sarebbero riusciti ad operare efficacemente per far terminare il
conflitto; quell’aiuto che si materializzò poi specialmente con le missioni.
Queste si suddivisero in missioni di collegamento e operative; speciali; di istruttori per sabotaggio; rifornimenti; finanziamento; propaganda.
Per quanto riguardava le missioni di collegamento, nel maggio 1945 esse erano riuscite a coprire l’intero territorio, avendo così assicurato la possibilità a tutte le formazioni clandestine di essere in contatto con il territorio che veniva liberato progressivamente. Se molte missioni furono effettuate
con aviolanci, alcune, particolarmente favorevoli, furono fatte infiltrare via terra: da ricordare, come segnalato nella citata relazione al generale Messe che, nell’ottobre del 1943, una missione attraversò le linee tedesche dell’Adriatico; nel dicembre 1944, una, partita da territorio neutrale; nel marzo 1945, una, partita da territorio francese; nell’aprile del 1945, due missioni infiltrate attraverso le linee tedesche in ripiegamento sulla pianura padana.

L’organizzazione del Servizio Informazioni negli Stati Uniti, come risultava al S.I.M.

[…] Vi furono le missioni speciali, suddivise in organizzative; antisabotaggio; costruttive; con compiti particolari. Normalmente fu evitato l’intervento organizzativo per lasciare ampia libertà ai partigiani o ai patrioti locali di agire secondo quanto richiesto e necessario per i Comandi italiani e alleati, ma alcune volte fu necessario invece dare un aiuto concreto agli sforzi locali. Quelle missioni speciali furono: nel gennaio 1944 (nelle Marche), la denominata ‘MAN’; la ‘ORO’, in Lombardia presso il Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (C.L.N.A.I).; la ‘RRR’ e la ‘SSS’ nell’agosto del 1944, la prima e la seconda nel Veneto, ambedue presso i locali Comandi Militari. Maria Gabriella Pasqualini, Le carte segrete dell’intelligence italiana, 1919-1949 (Parte Terza, 8 settembre 1943 – 1° settembre 1949), 2007, Editore Ufficio Storico Ministero Difesa

Al pari di tutte le altre attività dello SOE, anche per l’invio di missioni di collegamento era necessaria una notevole preparazione organizzativa, che risentiva della scarsa disponibilità di mezzi della Special Force, trovando ostacoli per la pianificazione e l’esecuzione, e che costringeva a scegliere le priorità. […] Nel novembre del 1944 il maggiore Vincent tracciava un ottimo rapporto sulla situazione delle missioni nell’area in cui operava, ma soprattutto si faceva portavoce di quegli ambienti della Special Force che erano ambienti critici rispetto al decentramento operativo […] In verità una gestione centralizzata era impossibile se anche all’interno delle formazioni gli inviati britannici erano costretti a delegare parte dei loro compiti a figure di cornice come l’Italian Intelligence Liaison Officer […] Nel relazionarsi con le formazioni invece i Liaison Officers erano aiutati dal fatto di condividerne la stessa vita. Ciò permetteva loro di non essere percepiti come burocrati militari estranei alla guerriglia. Alcune volte le difficoltà erano date dalla scarsa disponibilità a collaborare dei partigiani, espressione di un risentimento che non si dirigeva verso l’Inghilterra, ma solo verso gli ufficiali: “[…] il sentimento antibritannico ed antialleato non esisteva, quello del Partito Comunista e del Partito d’Azione era diretto esclusivamente verso la missione”. Un atteggiamento acuito dalla questione dei rifornimenti. Un lancio mancato, o semplicemente in ritardo, aveva delle ripercussioni sul morale delle formazioni screditando gli ufficiali dello SOE […] I BLO non avevano possibilità di comunicare direttamente con la centrale della Special Force e nemmeno con la squadra aerea in missione. Le richieste raggiungevano la propria destinazione solo dopo essere stato ripetute numerose volte, con una conseguente dilazione temporale. Le coordinate indicate per il rifornimento potevano essere soggette ad errori di trascrizioni o di ricezione. Anche nel migliore dei casi però erano sempre vaghe, visto che fotografavano una situazione in costante mutamento, che avrebbe potuto cambiare in breve tempo non corrispondendo più ai dati in possesso dallo squadrone aereo […] Grazie ai Liaison Officers gli italiani non si percepivano abbandonati, anche perché si adoperavano concretamente per migliorarne la situazione […]  Mireno Berrettini, Le Missioni dello Special Operations Executive e la Resistenza Italiana, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea della provincia di Pistoia, QF, 2007, n° 3