Le riviste coloniali anche prima del 1926-1927 condividevano una visione unidirezionale circa il discorso coloniale

Nonostante negli ultimi vent’anni l’interesse del mondo accademico sia aumentato, c’è ancora molto da riflettere e da studiare sul colonialismo italiano, non solo nell’ambito della ricerca storiografica tour court ma anche sul piano della cultura visuale. La propaganda prima liberale e poi fascista ha dato vita a un vero e proprio immaginario stereotipico fatto di invenzioni, manipolazioni e fascinazione, diffuso in Italia attraverso i mezzi più disparati come le riviste, le cartoline, le esposizioni, i film a tema, la pubblicità, la letteratura, l’arredamento.
Lo scopo principale di questa vasta mobilitazione sul piano propagandistico consisteva nel costituire e valorizzare la cosiddetta “coscienza coloniale”, ovvero promuovere la conoscenza delle colonie fra gli italiani per potenziare traffici e scambi commerciali, facilitare i trasferimenti e, più in generale, diffondere l’idea di una nazione forte ed efficiente, capace di imporsi sul piano internazionale nonostante i numerosi «nemici» e di trovare la propria strada verso una grandezza a lungo rincorsa.
Il discorso coloniale in Italia è stato tanto pervasivo da spingere migliaia di giovani ad arruolarsi per combattere in Africa, come accade al protagonista di “Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano, nonché centinaia di donne a seguire i mariti come nel caso della scrittrice Augusta Perricone Violà; la speranza di un’esistenza migliore ha portato i famosi “ventimila” di Balbo sulle navi dirette in Libia a condurre una vita di stenti in un territorio non sempre ospitale e altri, più fortunati, in villeggiatura nei lussuosi hotel presso Leptis Magna e Cirene. L’interventismo degli italiani interessava inoltre migliaia di persone che, pur non avendo mai messo piede in Africa o nelle colonie dell’Egeo, hanno devoluto anni della propria vita a questa causa: basti pensare agli impiegati del Ministero delle Colonie e dell’Istituto Coloniale Fascista ma anche agli artisti, agli scrittori, ai giornalisti, ai critici d’arte, agli architetti, ai musicisti, agli sceneggiatori e ai registi – i cosiddetti «costruttori dell’impero» secondo una felice espressione coniata da Nicola Labanca -, che si erano assunti il compito di tratteggiare con mano non sempre salda i confini di un immaginario variopinto. Nonostante oggi il ricordo delle colonie sembri sfocato, c’è stato un periodo in cui questi territori hanno fatto parte della vita degli italiani con tutto l’abbacinante splendore rappresentato dall’espressione della pura potenzialità. Le colonie italiane, infatti, dovevano essere lo strumento migliore per dar prova delle capacità sommerse della nazione: il genio ingegneristico che avrebbe dovuto domare la natura ribelle, l’indomita volontà dei braccianti che avrebbe strappato al deserto ampie porzioni di terra, l’arguzia dei commercianti che avrebbe potuto far conoscere i prodotti italiani a un bacino sempre più ampio di acquirenti, l’abnegazione delle mogli capace di addolcire le asprezze di una vita da pionieri.

Figura 6 Fiera di Budapest, padiglione del Ministero dell’Africa Italiana 1938. Fonte: ASMAI, vol. III, b. 42, p. 9. Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

Le colonie sono state presentate agli italiani forgiando nuovi miti e riplasmandone altri consolidati, facendo la propria apparizione nelle sale dei musei, tra le pagine delle riviste e dei quotidiani, nelle sale cinematografiche. Le esposizioni coloniali si inseriscono a pieno titolo in questo quadro di diffusione della coscienza coloniale, presentandosi ai nostri occhi come eventi complessi, dimenticati, poco indagati dalla critica e difficilmente riconducibili ad altri eventi analoghi svoltisi nella penisola.
Nate all’interno di un programma riconoscibile, le esposizioni coloniali corrono il rischio di essere liquidate quali eventi di “folklore politico” distanti dalla cultura ufficiale, senza che si presti attenzione al profilo allestitivo e si prendano in considerazione i fattori che le hanno poste in essere. Le manifestazioni di tipo coloniale sono infatti state allestite nella maggioranza dei casi utilizzando linguaggi in contraddizione con le sperimentazioni perpetrate dalla museografia storico-artistica italiana che, soprattutto negli anni Trenta, andava interrogandosi sulla ragion d’essere del museo, sulla forma che esso avrebbe dovuto assumere, sui rapporti tra spazio, visitatori e opere d’arte.

Figura 8 Ambiguità nell’attribuzione di documentazione fotografica in relazione alla partecipazione italiana a due fiere avvenute a Losanna nel 1925 e nel 1933. Fonte: ASMAI, vol. III, b. 42, p. 9. Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

Questa distanza dalla museografia ufficiale è un elemento importante che ha molto probabilmente contribuito a relegare le esposizioni coloniali in un territorio altro, lontano dal campo di pertinenza degli storici dell’arte. D’altra parte, considerare questi eventi scorporandoli dal resto della cultura visiva coloniale italiana del tempo sembrerebbe avvilente: le mostre coloniali sono il frutto di una temperie specifica di cui è necessario tenere conto per pervenire a una loro comprensione profonda.

Figura 1 Esempio delle condizioni in cui versano i documenti. Fonte: ASMAI, vol. III (1879-1955), B.42, p. 9 Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

Procedere allo studio di questo argomento e alla stesura del presente lavoro è stato dunque complesso: ci si è ritrovati in un territorio pressocché deserto, potendo contare su un numero molto ristretto di pubblicazioni, nessuno delle quali prevedeva una visione globale del fenomeno, occupandosi piuttosto di singoli eventi espositivi o di specifici aspetti storiografici. Tuttavia il problema non ha riguardato solo la povertà del panorama storiografico quanto soprattutto mancanza di codifica delle fonti da cui attingere per lo studio sistematico di questi eventi espositivi. Quali selezionare? Secondo quali criteri?

Figura 2 Esempio di numerazione apposta su alcuni documenti fotografici. Fonte: ASMAI, vol. III, b. 42, p. 9. Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

Uno dei momenti più importanti della ricerca è quindi consistito nel loro reperimento e nella loro selezione, un’attività difficoltosa che ha portato a fare i conti con la residualità storiografica di cui le manifestazioni in oggetto sono vittime.

Figura 9 Esempio di cartellino della Fototeca del Museo Coloniale. Fonte: ASMAI, vol. III, B. 42, p.9. Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

[…] Il cartellino permette di venire a conoscenza delle informazioni basilari relative al documento fotografico: nome, data e luogo dell’evento raffigurato. Altre voci quali “categoria”, “formato” e “numero categorico”, sebbene presenti, non sono state compilate nella totalità dei casi. L’etichetta ci fornisce notizie preziose circa l’originaria posizione dei documenti, collocandoli all’interno della fototeca del Museo Coloniale. Questo, nato in seno al Ministero delle Colonie, disponeva infatti di una Fototeca e di una Cineteca. La fototeca non è stata mai aperta ufficialmente al pubblico ma era utilizzata per documentare le realizzazioni italiane in Africa e vi si attingeva in occasione di mostre e pubblicazioni edite dal Ministero o da questo affidate a case editrici. È stata ampiamente consultata da testate giornalistiche, studiosi o enti che facevano richiesta al Ministero di prestiti «a scopo di propaganda» come testimoniano i documenti <16 relativi a prestiti e restituzioni di un’abbondante quantità di materiale fotografico. <17

Figura 3 – A sinistra: Esposizione Coloniale Internazionale di Parigi 1931, pagine di un album smembrato. A destra: Prima mostra d’arte coloniale a Bengasi, esempio di fotografia staccata da un supporto sconosciuto. Fonte: ASMAI vol. III b. 42 p. 9. Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

Silvana Palma già nel 1989 aveva avuto modo di sottolineare le condizioni di caos in cui versava la fototeca dell’ex Museo, della quale stava cercando di portare a termine un riordino. Questa, infatti, non conservava repertori, inventari, registri ordinati cronologicamente né note di accompagnamento. <18
La presenza di questo cartellino è significativa perché fa luce anche su un altro dettaglio non trascurabile: il Museo Coloniale disponeva all’interno della propria fototeca non soltanto di fotografie da esporre in occasione di mostre, ma anche di immagini che raffiguravano le mostre stesse, come documentazione dell’attività di diffusione della cultura coloniale. <19 Un doppio livello di documentazione, dunque, ad uso prevalentemente interno e a beneficio dell’attività propagandistica del Ministero.

Figura 7 Fiera di Milano, 1936. Fonte: ASMAI, vol. III, b. 42, p. 9. Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

Un’ulteriore considerazione circa il materiale rinvenuto nei fondi dell’Ex Ministero dell’Africa Italiana riguarda l’autorialità dei documenti esaminati. È evidente che queste fotografie sono state scattate da professionisti e non da semplici visitatori o appassionati. Gli elementi che rendono plausibile tale ipotesi riguardano, ad esempio, la mancanza di pubblico nelle fotografie, dettaglio che fa pensare al privilegio esclusivo di un professionista; le inquadrature, che vengono scelte tra quelle capaci di dar conto nel migliore dei modi dell’allestimento delle sale, privilegiando uno sguardo generale e di ampio respiro sui dettagli; l’uso consapevole dell’illuminazione, risultato di uno studio e di conoscenza approfondita del mezzo. È lecito chiedersi chi può avere incaricato i fotografi della realizzazione di questi servizi. Nei documenti consultati presso l’Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri non è stata trovata alcuna traccia né dell’iter burocratico che avrebbe dovuto portare il personale del Ministero a incaricare i professionisti della realizzazione delle fotografie, né del relativo pagamento per la prestazione lavorativa. Probabilmente l’incarico non era attribuito dal Ministero delle Colonie ma da agenzie che si occupavano della vendita di materiale fotografico alle redazioni di periodici e quotidiani, confluendo solo in un secondo momento nella fototeca del Museo Coloniale. È stato stilato un elenco di tutti gli studi fotografici riportati nelle didascalie e tra questi sono presenti agenzie per la stampa (nazionale e internazionale) che parrebbero dar ragione di quest’ipotesi. <20

Fonte: Biblioteca Centrale Nazionale di Roma
Fonte: Biblioteca Centrale Nazionale di Roma

[…] Il primo elemento da evidenziare riguarda una certa varietà nella struttura e nell’approccio ai temi presentati dalle redazioni, da ricollegare non solo al target di pubblico di riferimento ma anche alla personalità dei fondatori. Ad esempio, Africa Italiana: rivista di storia e d’arte a cura del Ministero delle Colonie (1927-1941) nata all’interno di un contesto ministeriale e diretta da Rodolfo Micacchi, archeologo e capo dell’Ufficio Scuole e Servizi Archeologici, era una pubblicazione molto elegante, ricca di immagini fotografiche a colori e dall’impostazione prettamente accademica. Trattava esclusivamente di archeologia e storia dell’arte e gli articoli si presentavano come veri e propri saggi di settore.

Figura 10 Copertine di «Esotica, mensile di letteratura e valorizzazione coloniale, cronache d’arte e vita», a. II, n. 3 e 4. Qui ripresa da Monica Palmeri, Op. cit. infra

Tuttavia, solo un anno prima era stata fondata su impulso del direttore Mario de Gaslini Esotica Mensile di Letteratura e Valorizzazione coloniale, cronache d’arte e di vita. Divisa in rubriche eterogenee, capaci di coprire temi che spaziavano dalla moda allo sport in colonia, dalla letteratura coloniale alla biografia romanzata dei principali amministratori d’oltremare, Esotica si rivolgeva ad un pubblico di appassionati di “cose coloniali” prediligendo un atteggiamento poco improntato alla scientificità dei contenuti ma entusiasta, propositivo, ricco di chiamate alle armi. Questa varietà interna al settore della pubblicistica coloniale, qui solo sommariamente esemplificata, concorre a dare un’idea di quanto diversificata sia stata la promozione della coscienza coloniale in Italia e in quanti modi fossero declinati i contenuti, grazie da una parte all’attività del regime e all’iniziativa personale di alcuni sostenitori.

Fonte: Biblioteca Centrale Nazionale di Roma
Fonte: Biblioteca Centrale Nazionale di Roma
Fonte: Biblioteca Centrale Nazionale di Roma

In questa sede viene proposta una panoramica, purtroppo non pienamente esaustiva per ragioni di opportunità tematica e di spazio, sul fenomeno delle riviste coloniali italiane e sulla loro importanza propagandistica, con un affondo su come queste abbiano contribuito alla creazione del discorso coloniale anche attraverso il racconto delle esposizioni coloniali.
È già ben noto alla critica il valore che la pubblicistica riveste nel panorama culturale del Novecento, come ad esempio già sottolineato da Il secolo dei manifesti di Lupo e Langella, un testo che ha avuto anche il merito di far emergere una fitta rete di micro-storie che restituiscono il ritratto della temperie culturale del secolo breve in Italia. Le riviste coloniali si inseriscono a pieno titolo in questo panorama frammentario e discontinuo, condividendo con le riviste generaliste l’andamento “a meteora”, ovvero relativo alla breve durata di molti progetti editoriali che nascono e muoiono nel giro di pochissimi numeri. Questo trend è evidente soprattutto nel periodo precedente il biennio 1926-1927 quando, in coincidenza con la fase di organizzazione dello stato fascista, giornali e riviste furono sottoposti a un riassetto generale. <21

La costruzione dello stato totalitario, iniziata all’indomani dell’assassinio Matteotti, aveva infatti previsto la soppressione delle forme di dissenso e la conseguente irreggimentazione della società. La stampa fu sottoposta a censura in modo che potesse diventare «lo strumento principale per l’organizzazione del consenso». <22
Il risultato più immediato nel campo della pubblicistica coloniale è stata la contrazione del numero di pubblicazioni, tanto che molti dei periodici esistenti prima del 1926 scomparvero e tra il 1927 e il 1934 furono pubblicate soltanto tre nuove riviste coloniali. <23

Attraverso questi provvedimenti il governo mirava alla messa a punto di una macchina del consenso formidabile, sotto il suo diretto controllo. Un dato significativo quando si tratta di riviste coloniali riguarda inoltre l’impossibilità di chiarire i rapporti tra propaganda e consenso. Le riviste coloniali, infatti, anche prima del 1926-1927 condividevano una visione unidirezionale circa il discorso coloniale, molto vicina al regime e di chiaro supporto alle sue iniziative, questo porta a due ordini di riflessioni: in primo luogo non si può verificare una corrispondenza tra ciò che viene scritto e ciò che viene recepito e accolto dal pubblico, ovvero non è possibile verificare l’impatto della stampa e della propaganda attraverso l’osservazione della struttura della macchina propagandistica stessa. <24

In secondo luogo, se è vero che si riscontra una certa varietà nella struttura delle riviste e nel modo di trattare alcuni argomenti, al tempo stesso non è possibile riscontrare quella complessità e varietà di posizioni intellettuali che, invece, hanno costituito l’aspetto più rilevante dell’analisi di riviste culturali del Ventennio. La storiografia, com’è noto, ha da tempo evidenziato la molteplicità delle posizioni all’interno di numerose redazioni: per esempio nel caso di «Primato», rivista fondata da Giuseppe Bottai, convergono energie e posizioni ideologiche non univoche ma accomunate dalla volontà di creare un “inventario” delle situazioni intellettuali durante il fascismo, che lasciano trapelare piccole fratture all’interno dell’apparentemente compatta compagine culturale del tempo. <25 Lungi dal rappresentare roccaforti di dissenso, casi esemplari come quello di «Primato», tra le cui pagine troviamo molti nomi di quella che sarà l’élite culturale del dopoguerra, evidenziano la complessità del rapporto tra intellettuali e regime, soprattutto avvicinandosi alla fine degli anni Trenta. Il volto solo all’apparenza monolitico della cultura sembra sgretolarsi in prossimità dello scoppio della Seconda Guerra mondiale, rivelando un’anima estremamente complessa dalla quale prenderà le mosse la cosiddetta «generazione dei redenti». <26
Per ciò che riguarda le riviste coloniali, il trascorrere del tempo non fa che inasprire e radicalizzare le posizioni dei redattori, rendendole l’ultimo baluardo del più convinto interventismo militare e culturale. Sotto la fitta coltre di annunci sensazionalistici, dichiarazioni di ostilità e bilanci vittoriosi (ma non sempre verosimili) delle azioni militari in Africa, è appena visibile un serpeggiante senso di sfiducia. È uno degli elementi più interessanti che emerge dalla lettura diacronica delle riviste coloniali: in modo impercettibile e inaspettato diventa sempre più evidente il complesso d’inferiorità che accompagna l’Italia coloniale fin dagli esordi, nutrito dalla frustrazione nei confronti delle scarse potenzialità dei territori coloniali e dai modesti risultati ottenuti in prestigio internazionale e sviluppo economico. Un complesso che si esprime attraverso il ricorso a toni sfrontati, palesemente aggressivi, soprattutto nel caso di pubblicazioni indipendenti <27 e in relazione a scottanti temi di politica internazionale. Gli autori non nascondevano osservazioni al vetriolo e non lasciavano passare l’occasione di denigrare i «nemici» ogni volta che ciò fosse possibile. <28

[NOTE]
16 ASMAI, Vol. IV, pacco 19, fascicolo 4/2.
17 S. Palma, La Fototeca dell’Istituto Italo-Africano, in «Africa: rivista trimestrale di studi e documentazione dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente», a. 44, n. 4 (dicembre) 1989, p. 598.
18 La fototeca dipendeva, come il Museo, dal Ministero delle Colonie. Quando il Museo dell’Africa Italiana entrò a far parte del patrimonio dell’Istituto Italo-Africano nel 1953, nella vasta raccolta fotografica andò a confluire anche il materiale dell’archivio fotografico che lo stesso Istituto Italiano per l’Africa aveva istituito nel 1932-33. Cfr: Ivi, pp. 597-8.
19 La fototeca dell’ex ISIAO è confluita nel patrimonio della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, tuttavia risulta inaccessibile per lavori di ristrutturazione, come confermato da uno scambio mail con la responsabile, dott.ssa Daniela Bartoccini. Non si conosce il momento in cui il materiale tornerà disponibile al pubblico.
20 Si veda Appendice 1.1, p. 375.
21 V. Deplano, Per una nazione coloniale. Il progetto imperiale fascista nei periodici coloniali, Perugia, Morlacchi Editore, 2018, p. 17.
22 Ivi, p. 71.
23 Ivi, p. 75.
24 Ivi, p. 12.
25 Per i riferimenti a «Primato» si veda: V. Zagarrio, «Primato». Arte, cultura, cinema del fascismo attraverso una rivista esemplare, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007.
26 L’espressione richiama il titolo di un famoso testo di Mirella Serri (I redenti. Intellettuali che vissero due volte 1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005) in merito al quale si ricordano anche le interessanti tesi di Zagarrio.
27 Tra le riviste oggetto di spoglio è necessario sottolineare che solo alcune possono essere considerate indipendenti («Esotica», «Etiopia», «Libia») mentre la maggioranza nasce per interessamento di organi istituzionali o istituti vicini al mondo della politica.
28 Non sono state riscontrate palesi attestazioni di amicizia verso alcuno stato europeo a parte la Germania di Hitler nella seconda metà degli anni Trenta, tuttavia la presenza di contributi in senso antibritannico è superiore alla media, soprattutto via via che ci si avvicina allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. La Gran Bretagna viene criticata in tutto: dalle scelte di politica estera (ricordiamo la famosa distinzione tra nazioni «plutodemocratiche» e proletarie proposta da Mussolini) alla gestione amministrativa delle colonie, senza tralasciare sottintesi e accenni di carattere morale. Proporre un censimento approfondito di questi contenuti è impresa ardua, tra le riviste oggetto di spoglio nelle quali il tema si è rivelato ricorrente ricordiamo «Vita coloniale rassegna politica» pubblicazione mensile de «Il regime fascista» (Direttore: Giovanni Preziosi) ed «Etiopia rassegna illustrata dell’Impero» (1937-1943).
Monica Palmeri, Esposizioni, fiere e cultura visiva coloniale italiana fra le due guerre, Tesi di dottorato, Università degli studi della Tuscia di Viterbo, 2019