Moretto, un pugno per la libertà

Nel settembre del 1943 dalla Germania arriva l’ordine perentorio di procedere al rastrellamento degli ebrei italiani.
Il tenente colonnello delle SS Herbert Kappler convoca i rappresentati della comunità ebraica di Roma e chiede loro di consegnare, entro 36 ore, almeno 50 kilogrammi d’oro. In cambio gli promette l’incolumità.
Tra di loro però ce n’è uno che alla promessa di Kappler proprio non ci crede. E ha ragione, perché nonostante gli ebrei tengano fede al patto, saranno rastrellati e deportati lo stesso.
Si chiama Pacifico Di Consiglio, ha 22 anni e una storia dura alle spalle.
Undici in casa, il padre a Torino a lavorare, la madre Emma costretta a fare i salti mortali per tirare avanti i figli. Una famiglia povera si, ma dignitosa e fiera delle proprie origini.
A “Moretto”, così lo chiamano tutti per i capelli neri e il colore un po’ scuro della pelle, i genitori insegnano a non chinare mai la testa, a non piegarsi alle ingiustizie. Così quando nel 1938 lo licenziano dai magazzini dove lavora perché è ebreo proprio non riesce a mandarla giù, così come non digerisce le prevaricazioni e le prese in giro delle camicie nere.
E allora Moretto, che si allena nella palestra del ghetto, reagisce e li prende a cazzotti.
Pacifico sì, ma solo di nome.
Forse anche per questa sua nomea di attaccabrighe quando dice alla gente del ghetto di non credere alle parole di Kappler, praticamente nessuno gli da ascolto. Lui sarà uno dei pochissimi a salvarsi dai rastrellamenti di ottobre 1943.
Prima di allora, in settembre, durante le fasi concitate seguite all’ignominiosa fuga dei Savoia, Moretto armato di un piccolo mitra va a combattere a Porta San Paolo con altri antifascisti per ostacolare l’avanzata della Wermacht. Fallita la resistenza cerca di unirsi ai partigiani ma non ci riesce e allora torna nel ghetto dove ingaggia una guerra personale con i fascisti.
Per ben tre volte viene preso e condannato a morte. La prima si salva colpendo a badilate il tedesco che lo tiene sotto tiro, la seconda gettandosi da una finestra, la terza saltando da un convoglio che ha come destinazione finale Auschwitz. Tra una fuga e l’altra zuffe da urlo, dentro e fuori Regina Coeli, dove prende a cazzotti una guardia che lo apostrofa “ebreaccio”.
Insomma Moretto non si arrende e mentre sopravvive da latitante va in giro armato di pistola per colpire i fascisti che hanno deportato la sua gente. Tutto questo fino all’arrivo degli alleati, quando armi in pugno contribuirà a liberare Roma.
Ma per Pacifico non è ancora finita. L’ultimo cazzotto lo tira ad uno dei suoi aguzzini durante uno dei processi alla fine della guerra a cui partecipa come testimone.
Muore nel 2006. Raccontano che le sue ultime parole siano state “fate casino”. Cannibali e Re

Per molti ebrei romani Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, rappresenta un eroe e un simbolo intramontabile. Il Moretto è infatti il pugile indomito che ha affrontato a mani nude decine di nazisti e fascisti, mettendo costantemente a rischio la propria vita. Una storia che ha dell’incredibile: pugni, arresti e fughe che si susseguono ciclicamente in una Roma dove la delazione è di casa.
A ripercorrere questa vicenda è Duello nel Ghetto (ed. Rizzoli), romanzo del giornalista Maurizio Molinari e dello storico Amedeo Osti Guerrazzi in uscita in questi giorni nelle librerie.
A Roma nel dedalo di viuzze che circondano il Portico d’Ottavia, chiamato confidenzialmente la Piazza dagli ebrei romani, Elena era considerata una tipa un po’ stramba, una visionaria. A tarda sera del 15 ottobre 1943, tutta scarmigliata, cominciò a bussare alle porte delle case. Il suo obiettivo? Convocare i capi famiglia. Ma quasi nessuno le diede retta. All’alba del mattino dopo, quando le SS bloccarono via di Sant’Angelo in Peschiera, via del Teatro di Marcello e gli altri accessi al Ghetto, gli ebrei romani capirono che la «matta» aveva ragione e che era in atto quella retata dei nazisti a cui la donna li sollecitava a reagire. Ma come?
Non era impossibile. C’era qualcuno in quelle strade e in quelle piazze che, fin dalla data dell’emanazione delle leggi razziali, aveva cercato di far capire ai correligionari che la rassegnazione era un passaporto per l’aldilà: si trattava di Moretto, al secolo Pacifico Di Consiglio. Questo pugile dilettante fu così uno dei pochi ebrei a mettere in atto un’eccezionale strategia di sopravvivenza: adesso a ripercorrere la vicenda di questo piccolo-grande ribelle sono Maurizio Molinari e Amedeo Osti Guerrazzi in Duello nel Ghetto (in uscita per Rizzoli, pp. 265, € 20) . Un romanzo-verità che con materiali d’archivio e testimonianze inedite ricostruisce, come recita il sottotitolo, «La sfida di un ebreo contro le bande nazifasciste nella Roma occupata».
Il libro di Molinari e Osti Guerrazzi ridà anima e corpo al prestante Pacifico e al suo scontro all’ultimo sangue con Luigi Roselli, uno dei più crudeli collaborazionisti dei nazisti. Ma la vicenda all’Ok Corral tra Moretto e il fascista s’intreccia con una narrazione corale di cui fanno parte gli Spizzichino, i Di Segni, i Pavoncello, i Di Porto e tutti gli altri esponenti della Comunità ebraica romana, costituita in gran parte da diseredati, da coloro che praticavano i mestieri più umili e vari, dagli «stracciaroli» ai «ricordari» o «urtisti» (quelli che vendono cartoline-ricordo e statuette nel centro capitolino buttandosi «a urto» sui turisti).
È tutto un mondo unito, solidale e colorato che frequenta il bar di Monte Savello e il ristorante Il Fantino in via della Tribuna Campitelli, e che diventa protagonista di una storia fino a oggi mai raccontata: la resistenza dei «dannati della terra», di coloro che non se ne vanno, fieri di essere italiani e ebrei. Che, quando viene applicata la legislazione antisemita, non hanno rapporti con gli alti papaveri dei ministeri, non hanno aderenze o amici importanti che permettano loro di essere «discriminati» e di scapolarsela di fronte ai provvedimenti razziali. Che vogliono comunque dimostrare che Roma appartiene anche a loro e alla loro tradizione.
Se quindi, da un lato, l’ebreo Mario Fiorentini entra a far parte dei Gap, i Gruppi di Azione Patriottica del Partito comunista, Paolo Alatri da prima della guerra cela un deposito di armi e una tipografia clandestina e l’editore Ottolenghi crea un’organizzazione di combattenti, vi sono anche altri oppositori del regime, proprio come Moretto, ragazzo di bottega che dopo l’8 settembre, privo di relazioni e di conoscenze, cerca senza riuscirci di aggregarsi ai primi gruppi di partigiani.
Da quando aveva compiuto 17 anni nel fatidico ’38 dell’emanazione delle leggi razziali, Pacifico era un perseguitato speciale: le camicie nere del quartiere, come Roselli di professione rigattiere, non tolleravano il suo disprezzo. Il pugile Pacifico era tale di nome ma non di fatto, i suoi uppercut erano ben mirati e non chinò mai la testa di fronte alle più violente smargiassate.
Dopo che è stata diffusa la notizia dell’armistizio con gli anglo-americani, Moretto, impugnando una mitraglietta, è con tanti altri antifascisti a Porta San Paolo e cerca di ostacolare l’avanzata della Wehrmacht. Invece Elena «la matta», con un manipolo di ebrei, prova a procurarsi armi e munizioni. Sfuggito per un pelo al rastrellamento del 16 ottobre, Di Consiglio sarà nel mirino di Roselli il quale, dopo l’occupazione nazista della Capitale, aveva messo su una vera e propria industria della morte e del ricatto: in cambio di quattrini, prometteva agli ebrei la libertà e poi li denunciava al colonnello Kappler.
Pacifico elaborò un piano audace per aiutare gli abitanti del ghetto: sedusse la nipote di Roselli e, tramite le informazioni che gli passava la ragazza, da moderno Scaramouche si faceva beffe dei persecutori e strappava loro le vittime. L’ora fatale arrivò anche per lui: arrestato e picchiato a sangue venne portato in via Tasso e poi a Regina Coeli. Caricato su un camion con destinazione prima Fossoli e poi Auschwitz, riuscì a scappare. Però non abbandonò Roma e tornò sempre lì dove erano le sue radici, a Portico d’Ottavia. La Comunità è falcidiata da deportazioni, lutti, miseria e Pacifico-lupo solitario sotto l’impermeabile bianco maschera la pistola per freddare nazisti e fascisti. Nel giugno 1944, quando le truppe alleate entrano nella capitale, combatte al loro fianco e aiuta i soldati americani a liberarsi degli ultimi cecchini tedeschi, quindi prenderà la tessera del Partito d’Azione. E gli aguzzini?
Roselli e il suo gruppo di accoliti, di cui faceva parte la nota «Pantera nera», una bellissima ebrea che denunciava i correligionari, furono processati nel marzo del 1947: Moretto è uno dei testimoni determinanti per la condanna. Quando arriva in tribunale, alto un metro e ottanta e con le sue spalle possenti, si fa largo tra la folla, supera lo sbarramento dei carabinieri e molla un cazzotto in faccia a uno dei suoi ex torturatori. Gli imputati verranno condannati a pene dure ma l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti cancellerà parecchi anni di carcere.
Nemmeno a guerra finita però Moretto «ha perso la voglia di lottare», scrivono gli autori, «e la battaglia ora si chiama memoria». Negli anni condividerà le proprie avventure e la propria esperienza con le nuove generazioni. Dunque anche grazie ai ricordi di Moretto (scomparso nel 2006) i due scrittori hanno potuto restituirci la voce e la superba Resistenza dei poveri e dannati in uno dei periodi più oscuri della storia italiana.
Mirella Serri, La Stampa – 13 gennaio 2017
Redazione, Moretto, un pugno per la libertà, Moked, 13 gennaio 2017

Pacifico Di Consiglio (Moretto)
Fonte: I percorsi della Shoah

Ogni gruppo, collettività, nazione o popolo ha i propri eroi. Gli ebrei romani hanno avuto Pacifico Di Consiglio, detto Moretto. Cresciuto senza il padre fra gli stenti di una Comunità assillata dalla povertà, ribelle per carattere e combattente per vocazione, Moretto è il giovane che reagisce alle leggi razziali scegliendo di allenarsi a fare il pugile, per difendere la propria libertà e in attesa dei prevedibili scontri con i fascisti. Nella Roma in camicia nera, capitale del regime di Benito Mussolini, gli ebrei vengono espulsi dalle scuole, cacciati dai posti di lavoro, discriminati sui luoghi pubblici ma Moretto resta a testa alta. Non abbassa gli occhi di fronte ai gagliardetti del fascio che sfilano su via Arenula, non accetta ingiurie personali e offese al popolo ebraico. Reagisce sempre. E spesso in solitudine. Dopo l’8 settembre 1943, l’arrivo dei tedeschi e la razzia degli ebrei di Roma da parte delle SS lo trasforma in un uomo braccato. Sfugge in continuazione agli occupanti che gli danno la caccia ricorrendo a ogni mezzo, incluse le spie. Viene arrestato ma evade. In una cella di via Tasso è picchiato a sangue ma non cede all’aguzzino che gli chiede nomi e indirizzi. Nel carcere di Regina Coeli trova il momento giusto per beffare le guardie e riuscire ad andare a farsi la barba. Ogni volta che lo prendono tenta la fuga. Non si arrende mai all’ipotesi di finire inerme nelle fauci dello sterminio. Evade dalle celle della polizia a piazza Farnese lanciandosi dal secondo piano. Si getta dai camion tedeschi sorvegliati da militari italiani, inseguito da raffiche di mitragliatrice. Torna a Roma, a Portico d’Ottavia, vi vive nascosto, quasi lo presidia, con i tedeschi a Roma. Per lui è una sfida per la vita. Passeggia spavaldo per le vie della città occupata come testimonia la foto della copertina di questo libro. Uccide numerosi tedeschi con ogni arma a disposizione, incluse le sue mani. Impara ad usare fucili e pistole, è un resistente solitario di una Comunità falciata da deportazioni, uccisioni, lutti e miseria. Non cede mai, dentro di sé si batte con l’orgoglio dei Maccabei, gli eroi che difesero l’antico Tempio di Gerusalemme dalle profanazioni ellenistiche. Oltre ai pugni, con o senza guantoni, sa usare pistole e fucili tedeschi strappati agli occupanti. Nel 1944 prende la tessera del Partito d’Azione, è con i gruppi partigiani che sorvegliano i ponti sul Tevere per impedirne la distruzione da parte dei tedeschi in fuga. E quando le truppe alleate nel giugno 1944 entrano a Roma gli va incontro, combatte con loro, aiuta i soldati americani a liberarsi degli ultimi cecchini tedeschi. Sono giorni in cui la lotta di liberazione costituisce il primo riscatto dal nazifascismo rappresentando per Moretto una svolta che terrà sempre con sé, assieme alla tessera delle associazioni degli ex partigiani.
Le pagine de “Il ribelle del Ghetto” raccontano il quotidiano eroismo di un ebreo romano che non si è mai arreso all’inevitabilità dello sterminio, che ha sempre creduto nel riscatto del popolo ebraico e nella sua straordinaria capacità di sopravvivere. Lo ha fatto anche grazie a Fortunata Di Segni, la giovane ragazza di cui incise il soprannome “Ada” su un cucchiaio di legno nei giorni più bui passati a Regina Coeli che dopo la guerra ritrovò, corteggiò rispettando il galateo dell’epoca e sposò, trasformandola nella dolce e determinata “Anita”, come venne soprannominata dai tanti che vedevano in Moretto il Garibaldi di Portico d’Ottavia. A guerra finita la Comunità è a pezzi, somma vittime e disastri, e Moretto è uno dei protagonisti della ricostruzione. Raccoglie intorno a sé i reduci dello sterminio, e i loro figli, in maniera da potersi opporre alle scorribande dei nostalgici fascisti che a breve distanza dalla cocente sconfitta rifiutano di arrendersi alla storia e tentano ancora di fare irruzione a Portico d’Ottavia per colpire gli ebrei. Moretto è il leader naturale di chi difende la Piazza dai vecchi e nuovi aggressori e quando Elio Toaff diventa il nuovo Rabbino Capo della Comunità trova in lui l’interlocutore che serve per progettare una ricostruzione che ha il suo pilastro più solido nel gruppo dei volontari che garantiscono la sicurezza di sinagoghe, scuole e luoghi di ritrovo, spesso entrando in contrasto con la dirigenza comunitaria di allora, ancora imprigionata nei timori del passato.
Questi volontari sono “I ragazzi di Moretto”, come li chiama Mino Di Porto nel giorno del Limud, e questo libro ne raccoglie le testimonianze, li fa parlare come mai hanno fatto prima per raccontare una stagione di valori comuni, coraggio personale e sacrifici famigliari che rappresenta un patrimonio di esempi per le nuove generazioni perché testimonia, come osserva il Rabbino Capo Riccardo Di Segni, la “lotta contro Amalek”.
Se è Pacifico a raccontare se stesso nel prezioso documento costituito dall’intervista registrata dalla Shoah Foundation è grazie all’infaticabile passione di Alberto, figlio di Moretto, della moglie Miriam e del figlio Daniele che è stata possibile la raccolta delle interviste che ci accompagnano dentro il mondo di Moretto, così come la realizzazione del DVD allegato a questa pubblicazione. Scopriamo così dall’ex deportato Alberto Sed che l’eco delle sue azioni di sfida ai tedeschi era arrivata anche agli ebrei romani detenuti ad Auschwitz e che tale capacità di battersi a difesa degli ebrei fu il motivo che portò Rav Toaff a dire a Moshè Dayan, il generale israeliano eroe della Guerra dei Sei Giorni, che Pacifico Di Consiglio era “il nostro Ministro della Difesa”. Per capire il perché di questa definizione bisogna ascoltare Giacomo Di Segni, detto Mugnetta, che racconta quanto avvenne un giorno del 1955 «quando stavamo a via del Teatro Marcello, venne un uomo che si chiamava “Biscotto”, si occupava in Comunità di amministrazione, mi disse: «Giacomo guarda stanno venendo dalla parte dell’anagrafe un gruppo di squadristi, di fascisti». Organizzammo in dieci minuti la difesa. Loro ebbero la forza di entrare nel ghetto ma dal ghetto non sono più usciti. Avevamo di che difenderci, cose rudimentali, come corpi contundenti, ma efficaci. Li abbiamo fatti scappare». In quegli anni le tensioni, gli scontri erano all’ordine del giorno. Valerio Di Porto racconta un altro episodio nel quale “il clima in Piazza era di furore”: «Erano passati pochi anni dalla Shoah e questi ricominciavano, scoppiò una rissa enorme, accanto a me c’era un certo Lello che dalla nascita aveva un problema alla gamba, eppure era lì, cadde per terra, lo aiutai ad alzarsi, un fascista mi colpì alla schiena ed ebbi la quarta vertebra rotta. Mi ha causato problemi a vita». I volontari servivano per difendere il quartiere ebraico. Con il passare degli anni i nemici si moltiplicarono, si aggiunsero prima l’estrema sinistra antisionista e poi i terroristi, così come sorsero altre esigenze, a cominciare dalla difesa degli ebrei ovunque fossero minacciati. Mario Mieli racconta una sveglia all’alba per andare all’aeroporto di Fiumicino «perché partiva una delegazione del Pci guidata da Enrico Berlinguer e dovevamo consegnare una petizione per gli ebrei in Urss, la consegnò Moretto proprio a Berlinguer». In Urss o nei Paesi arabi ovunque gli ebrei soffrivano, erano perseguitati o discriminati Moretto sentiva che toccava, a lui ed agli ebrei romani tutti, essere presenti, non lasciarli soli, battersi contro gli oppressori di turno come era avvenuto con i nazisti. Angelo Sermoneta, detto Baffone, descrive così Pacifico: «Aveva lo sguardo da faina, da sveglio, da persona veloce, spesso gli dicevo “Moretto ma c’è da fare questo?” Ci capivamo al volo, poche parole, e si faceva esattamente quello che c’era da fare, magari io lanciavo una idea e lui con gli occhi mi dava l’assenso, ci capivamo. Ricordo di una riunione in Comunità per una iniziativa che ebbe risonanza nazionale, una grande manifestazione, tutti si complimentarono con Pacifico, noi eravamo lì, era giusto che si prendesse i meriti, perché ha dovuto veramente lottare per far capire a tutti dei pericoli o delle necessità a cui andavamo incontro». Un momento importante è la nascita dell’Associazione genitori scuola, l’AGS, per garantire la sicurezza degli alunni. Lello Vivanti ricorda: «In certi momenti di tensione io, insieme ad altri, dormivamo dentro la scuola, si pattugliava fino a tardi il perimetro, anche dell’ORT (liceo ebraico), la mattina molto presto si facevano altri giri, si controllava che le porte esterne fossero tutte chiuse. Ci voleva molto tempo, le scuole erano importanti. Era un impegno enorme, con Pacifico si iniziarono a cercare delle persone valide. Erano cinque, sei, che dovevano mettersi in contatto con i genitori, convincerli a fare questo servizio, dall’ingresso all’uscita, in maniera stabile, ci furono una quantità di riunioni e contatti, alla fine queste persone si presero l’incarico». Ciò che accomunava tutti i volontari attorno a Moretto era la “convinzione che la sindrome del 16 ottobre era alle spalle” riassume Luciano Tas mentre Enrico Modigliani sottolinea l’impatto sociale della nascita del “gruppo” che innescò una dinamica di unificazione fra identità differenti: «Venivo da un ambiente diverso rispetto alla base, quello che caratterizzava allora erano le differenze socioeconomiche, il lavoro, tra i ricchi negozianti del centro e gli ebrei che lavoravano sui banchi, anche il dialetto giudaico romano, che molti parlavano, ed altri non capivano. Sicuramente le attività che svolgevamo hanno accelerato una maggiore comprensione perché lavoravamo assieme». Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si sofferma su questo aspetto: «Ha avuto l’intelligenza di capire fin dagli anni Cinquanta e Sessanta come fosse importante la sicurezza della Comunità, ha lavorato per decenni con molte generazioni di volontari, ha fatto un lavoro eccezionale perché attraverso la difesa del popolo ebraico ha creato una maggiore unità tra le varie componenti della Comunità, indipendentemente dai quartieri di provenienza, dall’età e da altre differenze». Negli anni Ottanta e Novanta Moretto resta sulla breccia, l’emergenza sono le intolleranze antisioniste e antisemite ma anche la necessità di essere in prima linea nella difesa dell’esistenza di Israele. Come avviene durante la Prima Guerra del Golfo quando, con lo Stato ebraico bersagliato dai missili di Saddam Hussein, incoraggia gli studenti guidati da Riccardo Pacifici a portare le bandiere d’Israele a Piazza San Pietro, puntando ad attirare l’attenzione di Giovanni Paolo II, sebbene nella dirigenza comunitaria c’è chi si oppone. «Moretto ci disse di andare avanti, come fece anche Rav Toaff» ricorda Riccardo Pacifici, oggi presidente della Comunità. Roberto Coen confessa di «aver ricevuto da Moretto i valori della Resistenza e della difesa ad oltranza di Israele, fondamentali per la formazione della mia identità ebraica» e sottolinea l’importanza “dei metodi” ovvero “discrezione e riservatezza”. Gianni Zarfati, che oggi è il responsabile della sicurezza della Comunità, parla di «un leader fatto di un carisma conquistato sul campo» perché «Pacifico è uno che sempre si è esposto in prima persona, sempre avanti, mai un passo indietro, stava sul campo, sempre a contatto con i giovani, non era uno da scrivania». Fino all’ultimo l’animo di Moretto è rimasto quello del compagno di pugilato di Angelo Di Porto, nella palestra di piazza Lovatelli o sul balcone di casa dove si allenavano perché “volevamo essere all’altezza di poterci difendere”. Nulla da sorprendersi se con l’avvicinarsi della fine, Pacifico diede disposizione di mettere una bandiera d’Israele sulla sua bara, quando sarebbe venuto il momento. Le pagine seguenti raccontano anche un altro aspetto della sua vita, la professione di rappresentante. Dario Coen, che iniziò con lui, ricorda un dettaglio rivelatore: «Aveva una scrivania piena di carte e guai a chi le toccava! Aveva le sue penne, la sua cartoleria, un ordine che metteva sicurezza, perché tutto era al posto giusto, non bisognava mettere disordine, ma non perché fosse geloso, solo che tutto doveva avere spazio ed ordine, in modo che al momento opportuno se ne potesse usufruire». Eroismi quotidiani, forza di carattere e sacrifici senza fine non sarebbero stati possibili senza Ada. Alberto Astrologo, detto Arte, lo spiega così: «Se non ci fosse stata Ada… le nostre mogli hanno il pregio di seguire i mariti quando comprendono l’importanza di quello che stanno facendo. Ada è stata una di queste perché Moretto ha perso molto, sia nella famiglia che nel suo lavoro, per seguire le cose di interesse ebraico». I parenti, amici e testimoni intervistati per quest’opera costituiscono solo un tassello di un più ampio mosaico di esperienze che sono, tutte allo stesso modo, patrimonio dell’intera Comunità di Roma.
L’ultima parte del volume raccoglie gli interventi del Limud e le fotografie che raccontano molti degli episodi narrati dai testimoni, protagonisti di una generazione di volontari nei confronti dei quali la Comunità intera resta in debito di riconoscenza.
Maurizio Molinari, Moretto: un eroe fra noi ( da: Alberto Di Consiglio, Maurizio Molinari (a cura di), Il ribelle del Ghetto. La vita e le battaglie di Pacifico Di Consiglio, Moretto. Roma, 2009), Memorie Ebraiche