Nel corso di un rastrellamento dell’agosto 1944, avviene la cattura di “Campana”, con l’inganno, per opera delle brigate nere

Felice Cordero di Pamparato. Fonte: Andrea Pepe, art. cit. infra

[…] Il Pamparato è un marchese la cui formazione culturale e militare ricalca il percorso classico dell’aristocrazia piemontese e sabauda.
Aveva studiato al Real Collegio di Moncalieri, quindi aveva frequentato l’Accademia di Artiglieria e la Scuola di applicazione. Ufficiale di artiglieria in servizio permanente effettivo, nel 1943, col grado di tenente, era stato inviato in Sicilia ed impiegato in prima linea contro le forze statunitensi del generale Patton. In agosto era tornato al nord, aggregato al XV Corpo d’Armata, ed era stato assegnato alla zona ligure. Dopo l’8 settembre, si era rifugiato in Svizzera, ma, all’inizio del 1944, era rientrato in Italia, spinto da un profondo lealismo monarchico che gli derivava anche dall’educazione familiare e dalla cultura d’accademia militare.
La scelta della Val Sangone nasce da legami parentali: il marchese aveva infatti sposato Luciana Rivoira, figlia di un noto avvocato sfollato a Coazze. La sua militanza partigiana inizia già nel mese di febbraio 1944, nella banda di Criscuolo e Asteggiano (“Nino Carlo”), con il nome di battaglia di “Campana”. Dalla primavera all’agosto di quell’anno, comanda una banda partigiana (la Banda “Campana”, poi Brigata “Campana”). Il Pamparato dimostra coraggio e mette al servizio della Resistenza le sue notevoli competenze militari. I suoi accesi sentimenti monarchici suscitano rispetto per la profonda coerenza dell’uomo, ma la sua presenza non orienta comunque in senso monarchico la Resistenza valligiana.
Nel corso di un rastrellamento dell’agosto 1944, avviene la cattura di “Campana”, con l’inganno, per opera delle brigate nere presso la borgata giavenese del Mollar dei Franchi. Viene interrogato per due giorni a Giaveno, fra lusinghe e minacce, ma si dimostra irremovibile. I fascisti lo impiccano la sera del 17 agosto 1944, con altri tre compagni, al balcone di una casa privata presso l’allora Albergo Centrale in piazza della stazione (oggi Viale Regina Elena).
Due brigate partigiane assumeranno il nome di “Campana”. Alla liberazione di Torino, il 28 aprile 1945, il professor Guido Usseglio, comandante della Brigata GL “Campana”, prendendo possesso della Casa Littoria di Piazza Carlo Alberto, la ribattezzerà “Palazzo Campana”.
Alla memoria del marchese Felice Cordero di Pamparato verrà assegnata la medaglia d’oro, con la seguente motivazione:
CORDERO DI PAMPARATO Felice
Medaglia d’oro al valor militare
Tenente in s.p.e. – Artiglieria – Partigiano combattente
Torino (TO)
Ufficiale in servizio permanente effettivo, subito dopo l’armistizio entrava nelle file partigiane guadagnandosi, con ripetuti atti di valore, la stima e la fiducia dei compagni di lotta e la nomina a comandante di Brigata. Ricercato e combattuto dai nazifascisti, che temevano l’aggressività combattiva del suo reparto, cadeva dopo giorni di lotta nelle mani del nemico assai superiore per numero e mezzi. All’offerta di passare nelle file fasciste rispondeva sdegnosamente: « A nobile, si confanno soltanto cose nobili ». Affermava di avere combattuto perché fedele soldato del Re e di preferire la morte piuttosto che rinnegare i suoi partigiani. Condannato a morte, affrontava fieramente il capestro, raggiungendo la schiera dei martiri della Patria. Giaveno, 17 agosto 1944.
Redazione, Cordero di Pamparato Felice “Campana”, I luoghi della memoria. La resistenza in Val Sangone, 11 dicembre 2014

Lettera di don Emilio Capriolo per segnalare la figura di Felice Cordero di Pamparato. Isacem, Giac, b. 778, fasc. Materiale per la mostra della Resistenza. Fonte: Andrea Pepe, art. cit. infra

Felice Cordero di Pamparato nacque a Torino il 3 giugno del 1919 da Stanislao Cordero di Pamparato e Angela Massimino. Vista la discendenza nobiliare che poteva vantare e i floridi interessi di natura economica che si era assicurata nell’area piemontese, la sua poteva essere considerata una delle famiglie più influenti dell’Italia settentrionale.
Il marchese C. frequentò, dall’età di appena dieci anni, il Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, istituto nato nel 1838 per decisa volontà regia e affidato alla direzione dei Barnabiti. La presenza di C. in questo istituto deve essere inquadrata nel percorso formativo che veniva proposto e assegnato ai membri dell’alta aristocrazia piemontese durante quegli anni, assicurando all’élite locale di prepararsi adeguatamente a diventare la futura classe dirigente del Regno d’Italia. Fu in questi anni giovanili che venne nominato vice presidente dell’associazione interna di Ac «Veritas et Vita» del collegio che frequentava a Moncalieri.
La sua attitudine allo studio venne certificata durante l’anno scolastico 1937-1938 in cui fu insignito del titolo di «principe degli studi», premio attribuito allo studente con il miglior profitto scolastico. Dopo il periodo trascorso all’interno del collegio, terminò la sua formazione alla Regia accademia di artiglieria e genio di Torino, dove venne accettato all’età di diciannove anni e ne uscì con la qualifica di ufficiale in servizio permanente effettivo. Nel capoluogo piemontese fu presidente del locale circolo di Ac dal 1939 al 1942.
Venne dunque assegnato al IX Reggimento e, nell’agosto del 1942, si vide promosso a ufficiale d’artiglieria assumendo il grado di tenente. Prese parte, al comando di una batteria antiaerea, alle operazioni militari in Sicilia, fino a quando l’isola non venne occupata, quindi venne trasferito a La Spezia il 15 agosto del 1943 e assegnato al XVI Corpo d’armata. L’8 settembre dello stesso anno, alla firma dell’armistizio, trovandosi ancora inquadrato tra le fila del regio esercito, la sua prima preoccupazione fu quella di mettere al sicuro, in Svizzera, la bandiera del suo reggimento.
Anche C., come tanti suoi commilitoni, si trovò nella difficile situazione di dover scegliere a chi rinnovare la propria fedeltà in un momento di forte instabilità politica. Arrivavano da più parti i bandi di arruolamento della neonata Rsi, che cercava di attrarre militari sbandati e ufficiali in carriera che potessero incrementare le fila dell’esercito nazionale repubblicano. Allo stesso modo i soldati si sentivano ancora legati al giuramento di fedeltà fatto al re, rifugiato a Brindisi sotto il controllo delle forze alleate, che andava ricostituendo alcune formazioni del dissolto regio esercito.
In questo contesto divenuto complesso per la sempre più pressante presenza degli occupanti tedeschi nelle zone del nord Italia, C. decise di rimanere saldo sui suoi principi monarchici e dunque dare credito al nuovo governo presieduto da Badoglio. Per questo motivo dapprima si rifugiò a Coazze, piccolo comune in provincia di Torino, dove raggiunse la sua famiglia, successivamente decise di entrare a far parte della Resistenza che andava organizzandosi nel Piemonte e prese contatti con le prime formazioni partigiane operanti nella zona.
Trovandosi nella Val Sangone riuscì a raggiungere la divisione autonoma guidata da Giulio Nicoletta, un ufficiale di origine calabrese che coordinava l’attività di diverse bande, tra cui quelle di Federico Tallarico, Sergio De Vitis (anche lui membro di Ac e medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza) e dei fratelli Nino e Carlo Carli. Solo nel corso del febbraio del 1944, però, C. decise di entrare a far parte della formazione, distinguendosi immediatamente per la sua solida preparazione culturale, affinata negli anni trascorsi nel collegio a Moncalieri, e militare, ricevuta durante il periodo nella Regia accademia di artiglieria. Le sue capacità gli permisero di farsi notare tra gli uomini di una brigata di stanza nella zona circostante il comune di Giaveno e, dopo aver partecipato a un’audace azione che aveva lo scopo di recuperare armi e munizioni abbandonate dalle forze repubblichine presso il Forte di Fenestrelle, venne nominato comandante con voto unanime di tutti i membri della brigata.
Assunto il nome di battaglia di «Campana» guidò, il 26 giugno del 1944, la formazione ai suoi ordini all’assalto della polveriera sita a Sangano, in un’offensiva coordinata di tutte le bande della divisione autonoma. Ancora una volta l’operazione aveva lo scopo di recuperare armi e munizioni ma, seppur ben organizzata e messa in atto in maniera scrupolosa, diede i risultati sperati solo nella fase iniziale dell’incursione. Ben presto le forze nazifasciste si compattarono e riuscirono a spingersi in un’offensiva contro le bande che indussero i partigiani a ritirarsi frettolosamente. Questa battaglia segnò una energica ripresa delle forze fasciste nelle valli torinesi. Il 19 luglio del 1944, infatti, venne costituita la I Brigata nera «Ather Capelli» che si mise immediatamente alla ricerca delle bande partigiane operanti nella zona della Val Chisone.
Proprio un distaccamento di circa una decina di militi della «Ather Capelli» riuscì, il 15 agosto del 1944, a catturare C. nei pressi di Giaveno. Pur avendo avuto notizia della possibilità di essere vittima di un agguato proprio in quella giornata, C. decise di presenziare comunque all’appuntamento che da tempo aveva concordato con Isabella De Gennaro, staffetta partigiana che manteneva i rapporti tra la formazione di Campana e Torino, che aveva intenzione di finanziare l’attività della banda attraverso una donazione in denaro. Mentre era in attesa di un suo compagno davanti all’osteria del Mollar dei Franchi, la squadra di fascisti si presentò in abiti borghesi e C. non riuscì a distinguerli, pensando fossero i componenti di una banda operante nella zona limitrofa andò loro incontro e si consegnò, senza volerlo, nelle mani degli aguzzini.
Portato a Giaveno e riconosciuto da un ufficiale fascista che aveva condiviso con lui il periodo di formazione in accademia, il tenente Giorgio Giorgi, fu sottoposto a un duro interrogatorio nel quale però non rivelò alcuna informazione circa i nomi dei suoi compagni di battaglia e la composizione delle formazioni partigiane presenti nel territorio. Pur dovendo subire diversi pestaggi al fine di estorcergli una confessione utile agli ufficiali fascisti, rimase in silenzio per tutto il tempo della sua prigionia e, quando gli venne offerta la grazia a condizione che si arruolasse come ufficiale nell’esercito della Rsi rifiutò sdegnosamente, affermando che «a nobile si confanno azioni nobili. Preferisco morire impiccato che rinnegare i miei partigiani». Fallito un tentativo di accordo tra il Cln di Torino e gli ufficiali tedeschi che lo tenevano in custodia, C. venne condannato a morte insieme ad altri tre compagni.
Quando giunse don Domenico Foco, il canonico preposto all’ultima confessione prima dell’esecuzione della sentenza, C. gli lasciò verbalmente il proprio testamento a favore della moglie e del figlio, consegnandogli inoltre alcune foto che dovevano giungere nelle loro mani. Fu lo stesso parroco ad affermare: «credevo che gli eroi, quali i fratelli Bandiera, Battisti, ecc. fossero mere esaltazioni della storia. Invece ho visto con i miei occhi che esistono. Ho confessato il Marchese di Pamparato. Sereno, fiero, ha saputo perdonare ai nemici e ad alta voce ha loro augurato tanto bene in cambio di tutto il male che gli facevano, ed è salito al patibolo senza tremare. Non dimenticherò mai quel suo ultimo sguardo!».
Il 17 agosto 1944, intorno alle ore 21, venne impiccato al balcone della casa Giai, presso l’albergo centrale in piazza della stazione di Giaveno, insieme ai tre partigiani che avevano condiviso con lui i giorni di prigionia. Nonostante il tassativo divieto da parte degli ufficiali fascisti di stanza nella zona, i corpi vennero sepolti nel cimitero comunale dopo la celebrazione dei funerali. In onore di C. la brigata da lui precedentemente guidata, passata sotto il comando di Guido Usseglio, assunse il nome di «Brigata Campana».
Il 30 ottobre 1945 gli venne conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, in qualità di partigiano combattente, con la seguente motivazione: «Ufficiale in servizio permanente effettivo, subito dopo l’armistizio entrava nelle file partigiane guadagnandosi, con ripetuti atti di valore, la stima e la fiducia dei compagni di lotta e la nomina a comandante di Brigata. Ricercato e combattuto dai nazifascisti, che temevano l’aggressività combattiva del suo reparto, cadeva dopo giorni di lotta nelle mani del nemico assai superiore per numero e mezzi. All’offerta di passare nelle file fasciste rispondeva sdegnosamente: “A nobile, si confanno soltanto cose nobili”. Affermava di avere combattuto perché fedele soldato del Re e di preferire la morte piuttosto che rinnegare i suoi partigiani. Condannato a morte, affrontava fieramente il capestro, raggiungendo la schiera dei martiri della Patria. Giaveno, 17 agosto 1944».
Andrea Pepe, Felice Cordero di Pamparato, Isacem – Biografie Resistenti