Nonostante gli arresti, la Cocca del Gambero era ritornata a colpire l’estate successiva

Non bisogna comunque accentuare i contorni dei fenomeni di delinquenza giovanile presenti a Torino negli anni Quaranta [del XIX secolo]: per quanto crescenti di numero e di intensità rispetto ai decenni precedenti, rimanevano comunque di dimensioni contenute e non paragonabili a quelli dei Gavroche parigini o dei loro equivalenti londinesi. Di tutta la sfilza di giovani che venivano arrestati ogni anno, solo una parte di loro poteva dirsi a tutti gli effetti “pericolosa”.
Questi erano giovani che avevano incominciato a finire nel mirino delle forze dell’ordine già da molto piccoli ed erano finiti svariate volte in carcere prima di essere spediti a forza alla Generala o alla casa di lavoro di Saluzzo, quando non, nel peggiore dei casi, al Corpo Franco.
[…] A partire dalla fine degli anni Trenta, nei rapporti di polizia incominciò ad essere segnalata la presenza in alcuni punti della città di gruppi, chiamate “còche”, composti generalmente da quindici – venti individui che si ritrovavano soprattutto la sera dei giorni festivi, ostentando sovente atteggiamenti provocatori e turbolenti <791. La corrispondenza tra il Vicariato e il primo segretario per gli affari Interni si soffermava su quei “molti e gravissimi inconvenienti” che producevano le “crescenti riunioni di giovinastri della classe specialmente degli artieri che ebbri dal vino percorrono in squadriglie di dodici a venti le contrade di questa Città, ed i viali che le circondano schiamazzando, cantando, ed insultando chi più li piace, e passando alle ferite e alle percosse contro coloro che hanno la disgrazia di risentirsene o di fare benché minima osservazione” <792. Tra le loro fila si trovavano lavoratori provenienti dai ceti più umili della società, come garzoni, serraglieri e muratori, ma non erano infrequenti persone di servizio quali camerieri e facchini, e persino militari. La caratteristica principale era la giovane età dei componenti, generalmente fra i quindici e i trent’anni. La struttura rimaneva, tuttavia, molto indefinita, figlia della spontaneità con cui questi assembramenti di giovani si formavano: numerosi erano i disoccupati e vi si trovavano anche ultratrentenni celibi e persino delle donne, il più delle volte amanti o conviventi di alcuni associati. L’origine geografica non era una discriminante, poiché vi erano presenti tanto torinesi quanto immigrati, anche se è lecito supporre che questi ultimi risiedessero già da un certo tempo a Torino. Data la lacunosità delle fonti, è difficile quantificare la presenza di queste bande sul territorio torinese, probabilmente diffuse in tutto il perimetro cittadino. E’ comunque certo che tali aggregazioni si distinguessero tra di loro prendendo il nome dei vari luoghi dove erano solite riunirsi, come le fontane di Santa Barbara o via Po, o dai quartieri da dove proveniva la maggior parte dei componenti, come il borgo del Moschino, il Balon o la contrada del Gambero. Il vicario ebbe a che fare con loro per la prima volta nel luglio del 1837 quando, “per far cessare le non poche vessazioni, e le prave azioni che di quando in quando venivano commesse lungo dei viali circostanti la città a danno delli pacifici abitanti”, egli aveva creduto bene di arrestate alcuni “scapestrati giovinastri” che avevano formato “una società” sotto “la denominazione di Cocca del Gambero”. L’unica occupazione di questa società consisteva “nell’insultare qualunque passeggiere in compagnia di donne, segnatamente di notte tempo” e a farne le spese era stato “un giovane marito” che era stato “gravemente insultato, e battuto sul corpo della Cittadella, perché passeggiava colla propria sposa” <793. Nonostante gli arresti, la Cocca del Gambero era ritornata a colpire l’estate successiva con una vera escalation di aggressioni avvenute sui viali attorno alla Cittadella. Il 17 giugno alcuni tafferugli si erano verificati tra i suoi membri e i soldati della Brigata di Savona, e la sera stessa il preposto delle Regie Gabelle Vincenzo Fenoglio “che trovavasi di Guardia sull’allea del Regio Arsenale”, venne ferito e derubato del “capello d’uniforme che teneva in casco” <794. La sera del 10 luglio, l’aggressione toccò poi all’avvocato Carlo Giusto, il quale, mentre passeggiava con la consorte lungo il viale, venne malmenato da due individui che avevano “tentato di togliere dal braccio la moglie sua” e analoga sorte dovette subire qualche giorno dopo un altro avvocato che si era risentito di un urto datogli da uno sconosciuto <795. Un’altra serie di arresti e di invii forzati al Corpo Franco pose fine alla vita della Cocca del Gambero, ma pochi anni dopo altri gruppi simili saltarono di nuovo all’attenzione della cittadinanza. La sera del 18 maggio 1840, davanti all’albergo Mottura in piazza Castello, era stato trovato morto Luigi Mina, impiegato rimasto “vittima di zelo indiscreto, per aversi voluto immischiare in una rissa fra diversi sbandati giovinastri, la quale direttamente non lo interessasse”. Compiute le indagini, si venne a sapere che l’accoltellamento “che tristissima impressione cagionò nel pubblico”, era stato compiuto da una nuova “banda terribile di giovinastri”, la còca di Po che “pressoché tutte le sere passeggia sotto i detti portici, e nelle vie principali della capitale, cantando, dando degli urti a chiunque, con animo di provocare, batte le osterie, li postriboli, e gli altri siti pubblici”, mettendo “talvolta in soggezione li medesimi nominati uomini della forza” <796.
Un episodio simile, di cui fu protagonista la còca del Balon, avvenne neanche un anno dopo e a farne le spese fu questa volta uno dei suoi componenti: il trentasettenne “garzone sarrone” Paolo Mollo, originario di Oneglia, che “faceva parte della società denominata la còca del Ballone”, ucciso da un colpo di coltello durante una lite con un suo compagno nella “Piazzetta dei Morti nel Borgo Dora” la sera dell’11 aprile 1841 <797. Pur facendo una notevole impressione alla cittadinanza, questi due omicidi e le aggressioni attuate dalla còca del Gambero rimasero comunque casi isolati per tutti gli anni Quaranta. Questi episodi davano anche la giusta dimensione del fenomeno: più che associazioni a delinquere le còche parevano confondersi con le spontanee riunioni, agli angoli delle strade o nelle osterie, di giovani “artieri”, soliti trascorrere il tempo libero, in particolare le ore serali, sfogando le frustrazioni quotidiane attraverso eccessi e intemperanze. Le attività di queste bande non erano molto diverse da quelle consuete dei membri degli strati sociali più umili: i componenti delle còche solitamente si ritrovavano per passare la serata in osteria ad ubriacarsi, recarsi in qualche postribolo, giocare alle bocce e persino improvvisare qualche festa danzante. Il ferimento o l’omicidio, da questo punto di vista, avevano una natura incidentale, frutto di quel gusto della “bagarre” e degli atteggiamenti insolenti e provocatori tradizionalmente diffusi tra le classi popolari <798. Prova ne è che la maggior parte dei reati di cui si rendevano protagonisti i membri di questi gruppi avevano un evidente sfondo sessuale: così come era stato per una parte delle aggressioni commesse dalla còca del Gambero, così era stato per quei tre “caporioni” della còca di Santa Barbara che un sera avevano aggredito una coppia di coniugi per rapire la donna e “portarla per loro al mal fare” <799. Molto più frequentemente questi tentativi di stupro di gruppo erano diretti contro prostitute. A destare preoccupazione per vicende di questo tipo era stata particolarmente la còca del Moschino nell’estate del 1845. Gli abitanti della contrada di San Massimo si erano lamentati dello “scandaloso agire” dei suoi membri “associati in gran numero” che, “dopo aver consumato la sera nelle bettole ed osterie e reso vittima dei loro tenebrosi raggiri chiunque ha il disappunto di fare dei medesimi l’incontro e prestar loro l’orecchio”, si recavano presso le case delle prostitute che vivevano nel borgo, e vi penetravano a viva forza “sfogando ad uno a uno le malnate loro passioni”. Questi comportamenti si erano ripetuti per tutto il mese d’agosto ma non avevano dato adito ad alcun provvedimento fino a quando il folto gruppo di giovinastri non aveva dato l’assalto all’abitazione di una prostituta, mettendo a soqquadro l’intero quartiere:
“Simili scene dopo essersi rinnovate con minore scandalo in altre successive sere, si ripetevano per parte delli segnalati Berino Gioanni, del Bonetto, del Curio, e di più altri, de’ quali se ne sarebbero potuto concertare l’identità, accompagnati da eccessi, scandali, e violenze in quelle delli dodici e tredici andante dopo la mezza notte, ora in cui tutti quasi sovra, dopo aver tentato invano l’aprimento dell’abitazione di certa Elleanora Vivaldi, sita al primo piano di casa Pocobelli, in via suddetta di San Massimo con getto di pietre contro la porta, e le finestre si che a quella e a queste apportarono notabili guasti, si fecero scala l’uno all’altro, ed introddottosi uno d’essi nella medesima, procurò l’ingresso agli altri, abbandonatisi quindi, ad ogni atto di violenza consumarono ad uno, ad uno, sulla persona della povera Vivaldi la loro brutal passione, non senza portare un sensibilissimo colpo alla fama morale per lo scandalo arrecato co’ loro schiamazzi accompagnati dai più sconcj discorsi” <800.
L’atteggiamento delle forze dell’ordine che condannavano duramente a parole queste prevaricazioni, era improntato alla massima cautela: il vicario, pur auspicando “un aumento di numero nelle pattuglie militari massime nelle sere del sabbato, delle feste, e dei lunedì”, specificava che “massime non si tratta di arrestarli, ma solo di costringerle con intimazioni a separarsi per anti venire gli incontri, ed i disordini che da siffatte numerose riunioni ben sovente conseguono” dato che questi assembramenti non erano composti “di gente oziosa non consegnata, ma bensì di artieri dati al lavoro” <801. Per contrastare questo fenomeno, quindi, la polizia si impegnò “affinché raddoppiate pattuglie abbiano a girare nottetempo per le vie della Capitale” con l’incarico “di insinuare alle riunioni e ai perturbatori di separarsi, ed astenersi da qualsiasi schiamazzo” e infine “a contenere ed arrestare coloro che si opponessero e non obbedissero alle intimazioni”. In caso di resistenza o tumulti, inoltre, gli agenti sarebbero stati “sostenuti dalla forza militare in ogni occasione che non crederanno prudente di cimentarsi da soli alle riunioni, e coi perturbatori, od avranno bisogno di farsi assistere per far rispettare le loro intimazioni” <802.
Il modo d’agire delle forze dell’ordine escludeva, quindi, una repressione capillare e coordinata di tutti questi gruppi, ma contemplava solo un controllo costante atto a prevenire l’esplosione di gravi disordini. Se si eccettua la còca del Gambero, che aveva causato non pochi tafferugli, le altre còche non vennero mai perseguite, né prese di mira, neanche quando singoli membri incorrevano in qualche causa giudiziaria: piuttosto si preferiva punire unicamente i “caporioni” degli “sfaccendati perturbatori” disponendo per loro anche “l’arruolo di forza” nei reparti del Corpo Franco <803. La tolleranza adottata nei confronti delle còche non coincideva comunque con una sostanziale sottovalutazione del fenomeno: il Vicariato riteneva che le varie còche che proliferavano in diverse parte della città fossero squadre facenti parte di un’unica società, denominata Cocca, che aveva lo scopo di organizzare tumulti e di turbare l’ordine pubblico.
Come vedremo, questa idea godrà di una durevole fortuna e sarà utilizzata per spiegare alcune azioni criminali che si verificheranno a Torino nei decenni successivi: “Siccome poi una mano principale deve averla nei disordini una società sotto la denominazione di Cocca, formatasi in questa capitale, il di cui scopo è precisamente quello di inquietare i passeggieri, di maltrattarli se si lagnano, di commettere atti osceni verso le donne e le ragazze, e di attaccare qualche militare o preposto isolato; e la quale è composta d’uomini e di giovinastri scapestrati dediti ad ogni sorta di vizii, non credo inutile di segnalarla alla S. V. Illustrissima onde sia particolarmente diretta sugli andamenti della medesima la azione e la vigilanza della Polizia. A tenore dei ragguagli che ho sott’occhio suole tenere diversi punti e segnatamente la contrada del Gambero, quella del Moschino, e la piazza di Italia, e prende nome parziale a seconda delle stazioni diverse” <804.
Le ansie suscitate dalle còche erano causate da una mutata attenzione da parte delle autorità, che alla fine degli anni Trenta iniziarono a guardare con sospetto le manifestazioni sociali dei ceti subalterni. Non è un caso che questi gruppi inizino a essere notati proprio in questi anni: nei loro atti turbolenti e prevaricatori gli osservatori più attenti intravvedevano i prodromi per prossime minacce all’ordine costituito. Tuttavia, una vera repressione era sconsigliabile: al vicario, infatti, non sfuggiva il fatto che queste piccole società agissero da valvola di sfogo per una gioventù povera, sfruttata e dalle poche prospettive: eccedere nella repressione avrebbe potuto causare una sempre maggiore ostilità dei ceti popolari verso la polizia e il governo. La paura più recondita era quella che, seguendo l’esempio della Francia, questi gruppi potessero essere uno degli strumenti per una politicizzazione in senso radicale di consistenti strati delle classi subalterne, rendendole disponibili a sfogare il proprio malcontento contro il governo non appena ne fosse capitata l’occasione.
[NOTE]
791 L’unico dizionario piemontese ottocentesco che registra il vocabolo, il Gavuzzi, ne dà il significato di “combriccola, brigata di buontemponi, cricca”. G. Gavuzzi, Vocabolario piemontese-italiano, Streglio, Torino, 1891, p. 194.
792 ASCT, Vicariato, Corrispondenza varia, serie II, cartella 46, fascicolo 63, oggetto: Cocca del Pallone: minuta della lettera del vicario all’ispettore di Polizia, 8 novembre 1841.
793 ASCT, Vicariato, Corrispondenza, cartella 31, fascicolo 52: rapporto del commissario Gastaldi del 10 gennaio 1838.
794 ASCT, Vicariato, Atti criminali, volume 106, pp. 132 e sgg. non numerate: verbale con successiva presentazione dell’imputato Ravotti Giuseppe, 23 luglio 1838.
795 AST, Senato di Piemonte, Sentenze penali del Senato di Piemonte, Minutario del 1838, fol. 762, recto e verso: sentenza nella causa penale contro Roggero Francesco e Gambino Chiaffredo, 3 dicembre 1838.
796 ASCT, Vicariato, Atti criminali, volume 108, pp. 283-290, recto e verso: verbale d’arresto di Bertini Lorenzo, Severino Tommaso, Cerruti Filippo, Garassi Antonio surnomato Barbisino, Carena Giuseppe, Curti Francesca e Bajma Maria, 23 maggio 1840.
797 ASCT, Vicariato, Atti criminali, volume 109, pp. 62 e sgg. non numerate: verbale d’arresto di Girone Benedetto, Gorena Paolo, Minazzoli Giuseppe prenomato Novarese, Varesio Marcellino, Giachino Giovanni prenomato Cicinotto, Angoglioso Francesco prenomato Angogno, Revel Antonio prenomato Pierino, Pellegrino Domenico, Bay Bartolomeo, Bosco Pietro e Bosco Agostino, 14 aprile 1841. Benedetto Girone fu “convinto” dell’omicidio “commesso però nell’impeto dell’ira e in seguito a provocazione” e fu condannato a dieci anni di lavori forzati e nelle spese. AST, Senato di Piemonte, Sentenze penali del Senato di Piemonte, Minutario del 1841, fol. 609, recto e verso: sentenza nella causa penale contro Girone Benedetto e Gorena Paolo, 9 ottobre 1841.
798 C. Felloni e R. Audisio, I giovani discoli, cit., pp.108-109.
799 ASCT, Vicariato, Atti criminali, volume 114, pp. 120 e sgg. non numerate: verbale d’arresto di Vaschetti Luigi surnomato Zeo, Sereno Giuseppe surnomato Pino e Rivoira Giuseppe surnomato il Vescovo, 15 settembre 1846.
800 ASCT, Vicariato, Atti criminali, volume 113, pp. 120 e sgg. non numerate: verbale d’arresto di Berino
Gioanni surnomato Zibauda e di Bonetto Felice, 20 settembre 1845.
801 ASCT, Vicariato, Corrispondenza, cartella 31, fascicolo 52: minuta della lettera del vicario all’ispettore di Polizia, 12 novembre 1841.
802 Ibidem, lettera del Ministero di Guerra e Marina al vicario, 13 novembre 1841.
803 Ibidem, lettera del primo segretario di Stato per gli affari dell’Interno al vicario, 31 dicembre 1839.
804 ASCT, Vicariato, Corrispondenza, cartella 27, fascicolo 44: lettera del primo segretario di Stato per gli affari dell’Interno al vicario, 17 luglio 1838.
Andrea Bosio, Torino fuorilegge. Criminalità, ordine pubblico e giustizia nel Risorgimento, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trento, 2015

Le carte di polizia degli anni ’30 e ’40 abbondano di segnalazioni di giovani sbandati, piccoli mendicanti, ladruncoli e borsaioli, giovani prostitute o, più semplicemente, di ragazzi senza famiglia, soli e abbandonati, quotidianamente alla ricerca del minimo necessario per campare e di un ricovero per dormire. L’aumento della popolazione giovanile che si verificò con le classi nate dopo il 1815, la difficoltà delle famiglie contadine ad assicurarne la sopravvivenza e l’indifferenza dimostrata verso i figli erano altrettante cause dell’esodo verso la capitale in cerca di miglior fortuna.
Nell’aprile del 1844 il Vicario di polizia denunciava il pericolo racchiuso nel gran numero di fanciulli rinvenuti «“abbandonati, privi di genitori, di parenti e di mezzi di sussistenza” per le contrade della capitale, “poverissimi ed orfani ragazzi perché da tutti scacciati e abbandonati” che facilmente finivano “per darsi al ladroneccio”. Tuttavia non erano soltanto le condizioni di bastardo, di trovatello o di orfano ad alimentare simili rischi. Non di rado le situazioni di miseria diffusa, indebolendo la consistenza dei legami interni, obbligavano i più giovani a troncare i rapporti con il nucleo familiare e a darsi al vagabondaggio». <53
Queste situazioni erano, a loro volta, accompagnate da altri inquietanti fenomeni come le ripetute azioni violente e intimidatorie per opera di gruppi giovanili organizzati, «scapestrati giovinastri dediti a ogni sorta di vizii» secondo il linguaggio della polizia, appartenenti alle diverse «cocche» distribuite in varie zone della città. Per dirla con un’espressione dei nostri tempi, si trattava di gruppi di veri e propri teppisti che si divertivano, specie nelle ore serali, a infastidire i passanti, importunare le donne fino a giungere a vere e proprie aggressioni che in qualche caso portarono a ferimenti e addirittura ad omicidi. <54
Un altro emblematico campionario del disagio e della devianza giovanile di quegli anni si trova raccolto nella documentazione del carcere correzionale più noto come «Generala» inaugurato nel 1845 allo scopo di «rigenerare giovani infelici che o per mali esempi dei genitori o per le seduzioni di cattivi compagni o per isfrenata seduzione al disfare si diedero di buon’ora alla vita errante, all’ozio o a peggio». Ma più che ripercorrere attraverso le biografie dei «minori corrigendi» le diverse tipologie di storture materiali e morali cui avrebbe dovuto provvedere l’«ortopedia carceraria », appare più utile ricapitolare le ragioni per cui Carlo Alberto aveva deciso di provvedere anche il proprio Stato, con un notevole sforzo finanziario, di una struttura carceraria giovanile.
I comportamenti dei giovani discoli preoccupavano la società del tempo non solo per l’illegalità delle loro azioni che, in genere, non erano particolarmente gravi, quanto per la minaccia che essi rappresentavano per la stabilità sociale futura. Essi avevano perciò bisogno più di essere educati che di essere puniti. Occorreva far loro interiorizzare quelle sane norme morali che ne avrebbero potuto condizionare in permanenza la condotta, a cominciare dalle regole di vita e dagli elementi fondamentali dell’istruzione fino all’apprendimento di un mestiere. Mentre per i «delinquenti adulti è problematica la fiducia nel loro ravvedimento», diverso appariva il discorso per gli adolescenti per i quali il ravvedimento poteva considerarsi «quasi certezza ove assoggettati ad opportuna rigeneratrice disciplina». Di qui «l’obbligo di tentarne la rigenerazione giacché hassi a presumere dovranno ancora vivere lunga vita e molti di loro saranno per divenir padri e tali dirigeranno i figli nella via per essi battuta». <55
Le vicende che avevano portato alla sistemazione della «Generala » documentavano ormai un rapporto più complesso nel rapporto tra carità ed educazione.
53. C. Felloni-R. Audisio, I giovani discoli, in G. Bracco (a cura di), Torino e don Bosco, Torino, Città di Torino, 1988, p. 104.
54. Ibidem, pp. 107-110.
55. G. Vegezzi-Ruscalla, Sulla riforma delle carceri. Articolo quinto, in «Letture popolari», 1839, n. 23, p. 177.
Giorgio Chiosso, Carità educatrice e istruzione in Piemonte. Aristocratici, filantropi e preti di fronte all’educazione del popolo nel primo ’800, Teoria e storia dell’educazione, SEI FRONTIERE, Collana diretta da Giorgio Chiosso, Simonetta Polenghi, Roberto Sani, SEI, Torino, 2007