Parallelamente, il futuro del sindacato è oggetto di forti discussioni

La stessa enfasi sulla perdita dei riferimenti di classe che nella letteratura accompagna la traiettoria dei partiti è rivolta all’evoluzione dei gruppi di pressione. Se un gruppo di pressione può essere definito come un insieme di persone, organizzate su basi volontarie a partire da interessi condivisi, che mobilita risorse per influenzare decisioni e conseguenti politiche pubbliche, con la crisi della regolazione intensiva la
letteratura evidenzia una trasformazione profonda nella formulazione delle domande politiche che i gruppi articolano, negli obiettivi, nelle modalità organizzative e di azione e nel rapporto con i partiti gatekeepers, proprio a partire dal venir meno del riconoscimento di classe come motore della solidarietà.
Queste trasformazioni sono sintetizzabili in due fenomeni correlati che interessano direttamente il nostro discorso: a) declinando l’appartenenza di classe, il ruolo egemone all’interno dei gruppi di pressione svolto dai sindacati in età fordista si esaurisce, lasciando spazio a una sempre maggiore proliferazione di gruppi di interesse eterogenei [Baumgartner, Leech 1998]; b) il sindacato, perdendo iscritti e peso politico, sperimenta un declino tale da metterne a rischio l’esistenza o comunque da produrre un radicale ripensamento della sua funzione.
Come detto, è la logica stessa della regolazione intensiva a produrre la centralità sociale dei gruppi di classe. Non a caso, la partecipazione alla vita pubblica dei sindacati è uno degli elementi più caratterizzanti delle società industriali del dopoguerra. Gli studiosi parlano di un «accordo fondamentale di relazioni industriali» [Edwards, Garonna, Pisani 1988], cioè una convergenza di massima tra tutte le forze
in campo sulle «regole del gioco» dei rapporti di produzione che, pur in forme diverse, ha coinvolto tutti i paesi industrializzati, sia nel momento in cui in Europa centrale e settentrionale governavano i partiti socialdemocratici, in Inghilterra i laburisti di Wilson e Callaghan, negli Stati Uniti i democratici di Kennedy e Johnson, come in presenza di governi conservatori o di coalizione come in Italia, nella Francia di De Gaulle, nell’Inghilterra di McMillan e negli Stati Uniti di Eisenhower.
L’equilibrio raggiunto coinvolgeva uno spazio strettamente politico (un «compromesso istituzionale» tra i maggiori partiti dell’arco costituzionale), aspetti di politica economica (i meccanismi di svalutazione e di inflazione e la spesa pubblica) e aspetti istituzionali del sistema di relazioni industriali (come la legislazione sul lavoro). E’ proprio questo insieme di relazioni sviluppatesi tra imprenditori e lavoratori, controllate a livello politico e di governo e funzionali all’ottimizzazione delle potenzialità cooperative, a conferire ai sindacati legittimazione istituzionale e potere decisionale. La specifica forza di un sindacato determinava poi il grado effettivo raggiunto dal «compromesso» nella tutela dei lavoratori, con differenze
anche significative tra gli Stati. In Svezia e Austria, ad esempio, organizzazioni sindacali forti hanno portato a un sistema di regolazione industriale più favorevole ai lavoratori rispetto alla Francia e agli Stati Uniti, mentre in Italia e in Francia si è sviluppato un sindacalismo più legato a tematiche politiche e ideologiche di quanto si sia verificato in un modello compiutamente neo-corporativo come la Germania Ovest [Pizzorno 1980; Streeck 2009].
La letteratura fin dagli anni Ottanta ha registrato come la crisi del decennio precedente abbia reso manifeste e fatto esplodere delle tendenze di lungo periodo in grado di incrinare le fondamenta di questi «accordi». La prima tendenza coinvolge l’andamento dell’occupazione nei settori caratterizzati da una produzione su vasta scala che avevano dato impulso alle moderne forme di sindacalismo, come la
metallurgia e la meccanica automobilistica. A un progressivo rallentamento della crescita occupazionale, negli anni di crisi si è sostituito un vero e proprio declino occupazionale che ha intaccato proprio il fulcro del potere sindacale. La seconda tendenza riguarda lo spostamento dell’occupazione verso il settore dei servizi, dove il sindacato ha una posizione più debole, per la tipologia dei luoghi di lavoro, per la
composizione degli addetti e per la penalizzazione diretta verso l’utenza che gli scioperi provocano. La terza tendenza porta in primo piano il rapido incremento della presenza femminile tra le forze di lavoro, che muta la composizione della base sindacale e le sue potenzialità/necessità di crescita.
Alla luce di queste tendenze, i fattori che incidono sulla base sociale del sindacato sono essenzialmente di quattro tipi: a) macro-economici; b) micro-economici; c) giuridico/contrattuali; d) culturali /ideologici [Leonardi, Megale 2007]. I fattori macro-economici sono i processi di outsourcing e downsizing, le delocalizzazioni delle produzioni ad alta intensità di lavoro, l’automatizzazione, il crollo dei salari reali, l’intensificazione dei carichi di lavoro, la disoccupazione ed il mutamento della composizione sociale del lavoro che insieme riducono, quantitativamente e qualitativamente, la centralità che in epoca di fordismo maturo aveva goduto il tipico lavoratore sindacalizzato: salariato maschio e adulto, assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, addetto alla grande manifattura industriale. Nel settore pubblico, dove le iscrizioni hanno superato quelle del settore manifatturiero, le tensioni sono rappresentate dalla privatizzazione dei servizi monopolistici, dalle esternalizzazioni e l’utilizzo di lavoro parasubordinato, dalla riduzione complessiva dei servizi di welfare a favore del mercato.
I fattori micro-economici consistono nella correlazione inversa fra lo sviluppo individuale e il potere sociale delle forze produttive che si dà nel passaggio tra fordismo e post-fordismo. Nel fordismo l’operaio-massa è privato di saperi artigianali e di potere di controllo sulla propria prestazione, ma è inserito in un contesto
produttivo che ne stimola la coscienza di classe e l’azione comune. Come spiegano Boltanski e Chiappello [2005] il post-fordismo, al contrario, idealmente integra e mobilita individualmente il lavoro, favorendo processi di parziale ricomposizione della prestazione, ma lo frantuma nello spazio e nelle forme giuridiche debilitando i riconoscimenti reciproci e il potere sociale collettivo in favore di una maggiore introiezione del potere di comando dell’impresa.
I fattori giuridico-contrattuali sono la diffusione di rapporti di lavoro destandardizzati, caratterizzati da un regime di tutele più debole di quello tradizionale del lavoratore subordinato a tempo pieno e indeterminato (tempo determinato, lavoro a progetto, apprendistato, etc) e la diffusione di forme di lavoro parasubordinato, autonomo dal punto di vista formale ma economicamente dipendente, con dunque una relazione di subordinazione mascherata e redditi spesso modesti. Un regime di flessibilità privo di tutele produce frustrazioni e insicurezza nel lavoratore e inibisce la partecipazione sindacale per l’incapacità di reagire alla solitudine.
I fattori culturali e ideologici hanno a che vedere con le tematiche di genere, i legami etnici e religiosi, le faglie generazionali che trasformano il mondo del lavoro. La presenza sempre più importante delle donne, degli immigrati e dei giovani con livelli alti di scolarizzazione muta le aspettative e i bisogni ai quali il sindacato deve offrire risposte e richiede mediazioni sempre più complesse a articolate. Inoltre, si verifica
una progressiva scomparsa dall’arena di discussione pubblica e politica in alcuni paesi dei temi del lavoro e dei problemi degli individui in quanto lavoratori [Crouch 2012].
Come conseguenza di questi fattori, gli studiosi concludono che tra tutte le istituzioni coinvolte nei rivolgimenti degli anni Settanta e Ottanta, il sindacato è stata quella più colpita. Inoltre la crisi di regolazione ha evidenziato alcuni limiti delle forme organizzative del sindacato: una scala di intervento limitata ad alcuni settori e a determinate aree geografiche, nonché la dimensione esclusivamente nazionale, permette all’imprenditore di misurare se non sia conveniente spostarsi in un ambiente non sindacalizzato, anche e specialmente in settori dove la presenza sindacale era sempre stata forte. Il declino di settori quali siderurgico, automobilistico, navale, della meccanica pesante, minerario e di altri settori tradizionali ha comportato per il sindacato la perdita delle principali fonti di sostegno, di consenso e di provenienza dei quadri, mentre la crescita dell’occupazione che si è verificata in altri settori del terziario ha in parte compensato la perdita di occupazione, ma non la perdita di consenso subita.
Di conseguenza, dopo avere in sfiorato il 45-50% in alcuni importanti paesi sul finire degli anni Settanta, l’iscrizione al sindacato è oggi caduta sotto la soglia del 30% in Inghilterra e Canada; si avvicina al 20% in Germania, Olanda, Australia, Giappone, Portogallo; è del 15% circa in Spagna; del 12% negli USA e in Corea del Sud; dell’8% in Francia e molto bassa anche negli Stati dell’Europa centro-orientale come l’Estonia e la Lituania. Svezia (68%), Danimarca (69%), Finlandia (68%) e Belgio (52%) costituiscono delle eccezioni spiegabili con la prerogativa sindacale di amministrare i fondi assicurativi contro la disoccupazione. L’amministrazione della disoccupazione da parte del sindacato – nota come sistema Ghent, dal nome della
cittadina fiamminga in cui fu istituita agli inizi del Novecento – rappresenta un incentivo selettivo alla membership, rovesciando una minaccia che incombe sul lavoratore, e di conseguenza sul sindacato, in un’occasione di fidelizzazione che, non a caso, non conosce battute d’arresto nel corso dei travagliati anni Ottanta.

Fonte: Visser (2010)

Scosso da queste tensioni il sindacato ha perso la propria centralità a vantaggio di una moltiplicazione dei gruppi di pressione rilevanti dentro l’arena pubblica. In primo luogo, l’erosione del potere del singolo Stato a vantaggio degli organismi sovranazionali produce a livello europeo una professionalizzazione crescente nella rappresentazione degli interessi per adattare i repertori dei gruppi ai criteri in vigore tra gli attori politico-amministrativi dell’Unione Europea, formando delle lobby in grado di incidere nelle politiche comunitarie e obbligando a un’internazionalizzazione della sfera d’azione che i sindacati non riescono ad acquisire [Grossman 2004; Marks, McAdam 1996].
Una seconda tendenza osservata è la «generalizzazione delle attività d’influenza» [Grossman, Saurugger 2006] ossia l’accesso alla sfera della concertazione da parte di domini e settori inediti. Da una parte le associazioni professionali, le ONG, differenti imprese per incidere su un livello internazionale acquisiscono delle tecniche e delle forme proprie dei gruppi di interesse (per descrivere questo fenomeno Grossman e
Saurugger utilizzano l’espressione «una società di gruppi di interesse»), dall’altra le trasformazioni della partecipazione politica provocano un impegno più puntuale e meno orientato sui tradizionali temi sociali e redistributivi, bensì su questioni ambientali, di genere, identitarie, religiose, legate ai diritti civili o al consumo, culturali [della Porta, Kriesi 1999].
Parallelamente, il futuro del sindacato è oggetto di forti discussioni [Waddington, Hoffmann 2000; Boeri, Brugiavini, Calmfors 2001]. Una ricapitolazione del dibattito teorico e delle ricerche empiriche più recenti si può trovare in Regini [2003]. In prima istanza, Regini propone una tipologia dei mutamenti intervenuti nei modi di regolazione del lavoro:

Sull’asse verticale, Regini dispone i tre diversi tipi di soggetti che possono regolare il rapporto di lavoro, gli attori individuali, quali i datori di lavoro nei rapporti diretti con i propri dipendenti; gli attori collettivi come le associazioni sindacali che cercano di far prevalere forme collettive di regolazione; gli attori istituzionali, cioè le diverse istituzioni pubbliche che regolano il rapporto di lavoro direttamente o insieme alle associazioni di rappresentanza degli interessi. Ciascuno di questi tipi di attori può usare differenti «stili» di regolazione, disposti sull’asse orizzontale, che vanno dall’esercizio unilaterale del proprio potere alla ricerca di compromessi basati sui diversi interessi e sui rapporti di forza, fino a uno stile cooperativo, nel quale
l’attenzione agli obiettivi condivisi prevale sulla massimizzazione degli interessi di parte. Qui sopra troviamo la tipologia prevalente in età fordista, dove l’«accordo fondamentale di relazioni industriali» [Edwards 1979] porta a un generale predominio del metodo della contrattazione collettiva, il quale soppiantava la regolazione manageriale e corporativa e veniva rafforzato da varie istanze cooperative (come nella codeterminazione tedesca).
A seguito della crisi del modello fordista, lo studioso individua due linee predominanti, che definisce «pessimistica» e «ottimistica», in merito al ruolo che il sindacato come attore collettivo potrà svolgere nelle relazioni industriali, nel sistema economico e in quello politico. I «pessimisti» ritengono che la discrezionalità manageriale in azienda e nel mercato del lavoro sta erodendo qualsivoglia spazio per
il sindacato: la regolazione unilaterale si afferma come istanza principale, provocando una vera e propria «de-regolazione» del lavoro [Standing 1997; Cohen, Early 2000].
Gli «ottimisti» sostengono invece che le imprese non possono fare a meno della cooperazione attiva dei propri dipendenti e dunque più che cercare dei compromessi tra le parti ricercano la partecipazione diretta dei dipendenti e la loro identificazione con le sorti dell’azienda, obiettivi che, dove i sindacati sono forti e consolidati, permettono di mettere in campo cooperazione, varie forme di consultazione, comitati
paritetici o organismi di codeterminazione [Kochan, Katz, McKersie 1986; Appelbaum, Batt 1994].
Entrambe queste linee sono criticate da Regini perché, di contro all’evidenza empirica, prevedono un esaurimento del ruolo sindacale e del metodo contrattuale che, pur in difficoltà, è ben lontano dall’esaurimento. Ciò che invece viene messo in luce dalla maggior parte dei più recenti studi condotti in Europa non è un tentativo di ritorno a una regolazione unilaterale (che pure esiste), piuttosto il forte sviluppo della contrattazione individuale o di piccolo gruppo da un lato, e di accordi triangolari
dall’altro, cioè di forme di negoziazione diverse dalla tradizionale contrattazione collettiva, che riflettono sia i mutati interessi di settori chiave della forza lavoro, sia i cambiamenti nel ruolo dello Stato. In effetti, nell’ultimo decennio, in molti Paesi europei il ruolo cruciale della contrattazione collettiva bilaterale è stato messo in ombra non solo dalla contrattazione individuale ma anche dalla diffusione di «patti sociali» triangolari nei quali i governi o altri attori istituzionali assumevano una funzione trainante [Schmitter, Grote 1997; Fajertag, Pochet 2000; EC 2000].

Fonte: Regini 2003

Per Regini i sindacati non possono sperare di arrestare questo processo di decollettivizzazione
della negoziazione limitandosi a resistere contro ciò che considerano un attacco al loro ruolo di intermediazione. Devono invece convincere sia i diversi gruppi della forza lavoro, sia le loro controparti imprenditoriali, che l’azione collettiva e la rappresentanza collettiva degli interessi sono ancora in grado di fornire risposte adeguate ai loro rispettivi problemi: mettere in campo la capacità di giocare un ruolo nello sviluppo economico, organizzando la cooperazione della forza lavoro, contribuendo alla formazione delle competenze professionali, coordinando la dinamica salariale, e più in generale aiutando i mercati del lavoro a funzionare in modo più efficiente.
Questi obiettivi sono più facilmente raggiungibili adottando uno schema operativo opposto a quello tradizionale: non si tratta di mobilitare la propria base per trattare con la controparte, ma utilizzare la legittimazione sociale che deriva loro dallo svolgere funzioni utili per lo sviluppo, allo scopo di accrescere simultaneamente il grado di riconoscimento delle controparti e la loro capacità di rappresentare interessi.
Ma l’enfasi di Regini sulla necessità per il sindacato di svolgere funzioni utili per il sistema delle imprese e per il governo dell’economia, capaci al tempo stesso di conseguire «beni semi-pubblici che avvantaggiano tutta la comunità e che quindi danno loro legittimazione», testimonia la sua debolezza nell’organizzazione degli interessi di classe.
I sindacati, se in età fordista, proprio nel rappresentare gli interessi di una parte, compensavano i fallimenti del mercato soprattutto dal punto di vista dello scambio della forza-lavoro, accrescevano l’efficienza del sistema produttivo con l’imposizione di standard minimi di tutela che costringevano le imprese a diventare più efficienti o a uscire dal mercato e favorivano l’espansione dei consumi sostenendo i livelli retributivi, ora avrebbero dinnanzi la possibilità di andare oltre il tradizionale ruolo distributivo per esercitare funzioni produttive cruciali per il sistema delle imprese, quali l’organizzare la cooperazione della forza lavoro e il contribuire alla sua valorizzazione professionale. Il sindacato può fornire alle imprese risorse cruciali e
vantaggi competitivi favorendo la crescita di flessibilità funzionale, temporale e numerica in entrata in maniera più efficiente di come la contrattazione individuale consente. Inoltre, aggiunge Regini, queste istituzioni possono garantire alle imprese non il semplice coinvolgimento dei singoli dipendenti – variabile e instabile perché dipendente da molti fattori – ma la cooperazione dell’intera forza lavoro nei continui
processi di innovazione, cioè un bene semi-pubblico essenziale per lo sviluppo economico di un paese. Inoltre i sindacati hanno storicamente utilizzato i patti sociali quali strumenti per ottenere influenza economica e politica e hanno utilizzato l’influenza acquisita per consolidare la propria capacità di rappresentanza di classe.
Tuttavia, se nell’agenda della concertazione rimangono, come dopo la crisi del 2008, solo la deregolazione del mercato del lavoro e la riforma del welfare, gli spazi di concertazione diventano troppo angusti e si aprono rapporti più antagonistici che rimangono infruttuosi per la debolezza dell’organizzazione sindacale.
Di conseguenza, in linea con l’idea che la rappresentanza non possa più essere perseguita su un terreno associativo classico, Regini propone l’estensione del raggio d’azione dei patti sociali al livello locale, mediante patti territoriali e varie forme di programmazione negoziata, possono favorire lo sviluppo locale e plasmare le istituzioni sociali necessarie perché si sviluppino forme di «solidarietà competitiva»
[Streeck 2000; Trigilia 2000; Carrieri 2001].

Lorenzo Giudici, Organizzare la classe lavoratrice. La crisi dei corpi intermedi operai in Italia e Francia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi Milano Bicocca, 2014