Partigiani di Paraloup

Fonte: volerelaluna cit. infra

[…] Il toponimo occitano [n.d.r.: si parla di Paraloup, detto talvolta, invece, Paralup], che significa “al riparo dai lupi”, la dice lunga sulla vocazione storica del luogo, che tra il settembre 1943 e la primavera del 1944 ospitò il primo quartier generale delle bande partigiane di Giustizia e Libertà del cuneese, capitanato fra gli altri da Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca e, in seguito, dallo stesso Nuto Revelli. Fu una fucina di libertà, un luogo in cui circa 200 giovani, dell’età media di 20 anni, di ogni estrazione sociale (studenti, artigiani, commercianti…), si radunarono per ricevere formazione politica e militare in vista della lotta per la liberazione dal nazifascismo e la ricostruzione di un’Italia democratica.
Questa vocazione fu attuabile solo grazie alla fondamentale collaborazione da parte della comunità degli abitanti della Valle. Senza aiuto da parte dei valligiani, la banda non avrebbe potuto organizzarsi per operare nelle pesanti battaglie dei rastrellamenti del gennaio e dell’agosto del 1944. Gli abitanti di Rittana si esposero moltissimo in prima persona: un abitante del paese accolse in casa sua Duccio Galimberti ferito e lo trasportò in città nascosto sotto un carro di fascine. Se lo avesse fermato un posto di blocco, la rappresaglia sarebbe stata durissima per tutta la comunità, come lo fu nella vicina Boves, città martire incendiata dai tedeschi. E gli abitanti non si spesero soltanto nei confronti dei partigiani, ma diedero asilo ad alcuni degli ebrei profughi dal centro di residenza forzata di Saint Martin Vésubie, a quelli di loro che provarono a nascondersi fra le montagne.
La Resistenza di Paraloup, dunque, è una storia di Resistenza di comunità. Partigiani, montanari, ebrei, tutta una comunità si strinse e lottò insieme per riconquistare la pace e la libertà, nonostante la fame e l’asprezza dell’ambiente. Di questa storia di lotta comune racconta il volume Resistenze, in cui vengono tratteggiati i diversi aspetti: quelli più prettamente tecnici e militari, la vita di banda, la collaborazione con la popolazione locale e con gli ebrei profughi e, non da ultimo, la componente femminile, presente in modo significativo e con tratti del tutto peculiari.
Non furono poche, infatti, le donne che lottarono con la banda “Italia Libera”. Come tutte le formazioni partigiane, anche quella di stanza a Paraloup si organizzò per impostare un servizio informativo che fosse il più possibile efficiente e capillare. Furono spesso, soprattutto all’inizio, gli stessi elementi del comando, in primis Duccio Galimberti e Leo Scamuzzi, a spostarsi per intrattenere i rapporti col CLN torinese e con le altre formazioni, ma la banda si appoggiò presto a una squadra via via sempre più nutrita di informatrici: le prime furono proprio le consorti dei comandanti.
Sappiamo, grazie al riscontro con la banca dati del partigianato piemontese presente sul sito www.istoreto.it, che si impegnarono fin dai primi mesi Pinella Ventre moglie di Livio Bianco, Alda Frascarolo moglie di Alberto Bianco, Margherita Damonte in Scamuzzi, Lidia Bonzo in Rosa, Angiolina Pernigotti in Quaranta e Silvia Goffis in Soria. Inoltre, manteneva contatti con il Gorrè di Rittana la segretaria personale di Duccio Galimberti, Margherita Ghibaudo.
Un quadro, questo, che colpisce per l’ampiezza del fenomeno: quasi tutto il comando fu evidentemente seguito nell’impresa partigiana dalle relative compagne, che non esitarono a mettere a repentaglio la propria vita per portare informazioni, denaro, armi, condividendo, in alcuni casi, la dura vita di banda in montagna. Infatti, tutte le donne sopra citate compaiono nel database con la qualifica di “partigiano” e furono, per un certo periodo, arrestate. Interessante, dunque, notare come queste “signore” borghesi si siano impegnate fornendo un lavoro che andava ben al di là del famoso “contributo” o della tanto ribadita “assistenza morale e materiale”: a detta di qualcuna, il loro slancio poté beneficiare del fatto che nessuna avesse figli.
Impresa ardua è stato ricostruire in modo obiettivo il lavoro di queste donne, tanto più che nelle testimonianze dei colleghi si trovano soltanto tracce, indizi, soprattutto relativi alle informazioni tattico-logistiche. Il fatto di essere le “mogli di” costituisce senz’altro un handicap dal punto di vista storiografico. […]
L’articolo è pubblicato sulla rivista “Left” col titolo La lotta per la libertà delle donne di Paraloup
Beatrice Verri, Donne e uomini della banda “Italia Libera”, volerelaluna, 25 aprile 2020

L’8 settembre del 1943 Nuto Revelli, tenente del battaglione Tirano, si trovava in convalescenza a Cuneo, la licenza gli era stata concessa dall’Ospedale di Savigliano in conseguenza delle ferite subite in Russia e della pleurite contratta durante la ritirata. Era stato proposto per due medaglie d’argento meritate sul campo, ma si sentiva profondamente deluso ed esacerbato nell’animo. Dopo aver creduto nell’esercito e nelle ragioni del conflitto, aveva capito in Russia di essere stato trascinato insieme a migliaia di altri giovani in una assurda guerra di aggressione, voluta da uomini privi di umanità, di etica e anche di competenza. Aveva visto con i suoi occhi la ferocia degli alleati tedeschi, la corruzione e il caos nelle retrovie italiane, l’inadeguatezza di mezzi e di generali, la morte e la sofferenza di tanti commilitoni.
Nei giorni successivi aveva quindi deciso di allontanarsi dalla città, organizzando il suo primo nucleo di “ribelli”. Lo chiamerà Compagnia rivendicazione caduti. Il nome deriva dal desiderio di ricordare e vendicare i tanti alpini morti inutilmente nelle immense distese gelate della Russia e degli altri luoghi dove erano stati destinati a combattere e a morire.
Nella provincia di Cuneo intanto erano nate le formazioni partigiane Italia libera di Duccio Galimberti e Dante Livio Bianco, che si richiamano al movimento liberalsocialista Giustizia e Libertà (da cui poco tempo dopo prenderanno il nome), fondato in Francia dai fratelli Rosselli e da Emilio Lussu. Nuto aveva incontrato Dante Livio Bianco, questi gli parla a lungo di Gobetti, di Carlo Rosselli, di Lussu, di un rinnovamento politico e sociale che vada oltre la liberazione dalla dittatura fascista. Revelli all’inizio era diffidente: aveva immaginato una rivolta di tipo militare, per senso di giustizia e desiderio di libertà, senza troppo implicazioni politiche. Poi si era convinto che per combattere era importante istruire gli uomini all’uso delle armi e alle strategie ma era necessario anche dar loro una speranza, obiettivi di democrazia e di civiltà.
Aveva seguito Dante Livio Bianco e i suoi uomini della banda Italia Libera a Paraloup, un piccolo gruppo di baite di pietra a secco sulle montagne a ovest di Cuneo. Nei mesi successivi, per il suo carisma e soprattutto per le sue virtù militari, era divenuto uno dei più apprezzati comandanti di Giustizia e Libertà. Dapprima, nella primavera del ’44, gli era stato affidato il compito di occupare il vallone dell’Arma, sulla sinistra orografica della Valle Stura, e poi di sfuggire a un grande rastrellamento tedesco. La tattica di muoversi veloce sugli alti crinali, sparando con raffiche ben coordinate negli scontri, si era rivelata efficace, la sua brigata alla fine era riuscita a sganciarsi, restando libera e in piena efficienza, poche le perdite.
Quando poi nella seconda metà di agosto i tedeschi avevano preparato un forte attacco in Valle Stura, a Revelli era stato affidato il comando della Brigata “Carlo Rosselli”, che presidiava la valle. L’aveva difesa con accanimento e perizia, rallentando notevolmente la marcia della 90 ͣ Panzergrenadierdivision. Alla fine, in accordo con gli alleati americani, inglesi e francesi, erano riparati in territorio francese, con l’obiettivo di mantenere la propria autonomia e pianificare attacchi veloci contro le linee nemiche.
Giuseppe Mendicino, L’ultimo anno di guerra di Nuto Revelli, DOPPIOZERO, 25 Aprile 2019

Nuto Revelli in divisa da alpino – Fonte: Fondazione Nuto Revelli

[…] Corro a casa e mi metto in divisa. Afferro le mie tre armi automatiche e mi presento in caserma, nella caserma del 2° Alpini, la caserma «Cesare Battisti». Al portone d’entrata incontro il capitano Luigi Romiti97. Ammira i miei due parabellum poi mi invita a tornarmene a casa: «Qui perdi tempo, – mi dice, – qui non c’è nessuna intenzione di sparare sui tedeschi».
Non mi rassegno. In caserma c’è un battaglione di reclute. Trascorro una parte della notte con il gruppo dei sottotenenti di complemento appena sfornati dalla scuola di Bassano. Molti li conosco dai tempi della GIL: Aurelio Verra, Ercole e Luigi Silvestri, Michelangelo Berra, Giorgio Bocca, Alberto Cipellini, Luigi Brizio e altri. Si attendono ordini, mentre la confusione aumenta.
Cerco Piero Bellino e con lui fantastico fin quasi all’alba. Ci chiediamo che cosa succederà, ora.
L’indomani, sempre in divisa, torno in caserma, dove continuano ad aspettare ordini. Poi apprendo che a Cuneo sarebbe arrivato un reparto della 4ª Armata in fuga dalla Francia.
Con Piero Bellino accorro in via Statuto, dove c’è la sede del Comando di Zona. Lì incontriamo questo piccolo reparto: pochi automezzi e pochi soldati spauriti, sbandati. I loro ufficiali sono scomparsi, sono andati a cercare degli abiti borghesi. Poi arrivano gli altri. A Cuneo, il 10 settembre, ci sono migliaia di soldati, un’invasione: colonne di camion abbandonati, soldati senza reparto, ufficiali che si sono tolti i gradi. I nostri contadini chiameranno l’armistizio «il disordine di Badoglio». Si respira il disastro più che a Podgornoe, dove almeno c’era una volontà di combattere. Qui, adesso, c’è la disfatta senza speranza, la resa, il clima da «si salvi chi può».
Alla caserma Battisti ormai non si parla che di smobilitazione. Gli ordini non arrivano. I soldati hanno capito che bisogna disperdersi. Il comandante del 2° Alpini è il colonnello Boccolari, un super decorato della guerra ‘15-18. È ancora in caserma, è ancora in divisa, ma sul punto di arrendersi. Doveva essere un appassionato di fiori. Infatti in quei giorni si preoccupa dei suoi vasi di gerani, che aveva disposto tutto attorno al monumento ai caduti nel cortile della caserma. Stanno per arrivare i tedeschi, e il colonnello si preoccupa di salvare i suoi gerani…
Il tenente Nardo Dunchi, che poi diventerà uno dei più attivi e coraggiosi partigiani della banda di Boves, vorrebbe fucilare il colonnello Boccolari.
Discutiamo animatamente, se fucilarlo o meno. Io mi oppongo. Non è con un colonnello in meno che risolveremo la situazione.
Con Piero Bellino vado a cercare il colonnello Palazzi. Palazzi è un ufficiale di quelli seri. Sono le 9 di sera del 10 settembre. Ci apre in pigiama, un pigiama a righe da carcerato. Gli dico che in caserma tutti scappano, che abbiamo bisogno del suo intervento. Palazzi mi conosce, al mio ritorno dalla Russia mi ha abbracciato sotto i portici di Cuneo.
Adesso risponde urlando: «Fuori dai coglioni! Via, non voglio più saperne. Tutti pidocchi, tutti pidocchi». Ce ne andiamo a testa bassa, umiliati. Abbraccio Piero Bellino, ci guardiamo e piangiamo.
Il giorno 11 assisto all’agonia del «battaglione reclute». Una fine penosa. Il giorno 12, alle ore 14, le SS del Maggiore Peiper entrano in Cuneo.
Ho voluto aspettarli, i tedeschi, ho voluto vederli. Arrivano con una breve colonna di autoblinde, dal viadotto sul fiume Stura. Occupano piazza Vittorio. Sono proprio come i tedeschi che ho visto a Varsavia, che ho visto in Russia. Spavaldi, pieni di boria, odiosi.
Mentre risalgo lungo corso Nizza, per incontrare Piero Bellino e prendere gli ultimi accordi prima di abbandonare Cuneo, mi imbatto in un amico d’infanzia che non ha capito nulla e vive come in una giornata normale. Mi ferma, mi propone di andare a vedere un film al Cinema Monviso.
E domenica, e il cinematografo apre alle 14,30. Non mi tradisco, non gli dico nulla. Trovo una scusa e scappo via. Ecco, come ognuno poteva vivere, a suo modo, l’8 settembre.
Incontro Piero, Faramia, Mutismo. Tra un’ora ci ritroveremo a San Bernardo di Cervasca, lontani da Cuneo, al sicuro. Corro a casa, smonto le mie tre armi automatiche, le infilo nello zaino, e in bicicletta raggiungo la cascina Chiari, che diventa la nostra prima base partigiana.
L’indomani, con Piero Bellino, raggiungo Valerà di Caraglio, dove il materiale abbandonato dalla 4ª Armata è moltissimo. Nei campi sono più numerosi i fucili buttati che le margherite. Nascondiamo armi e munizioni. Poi ci spingiamo in Valle Grana….
Nuto Revelli – Le Due Guerre: Guerra Fascista E Guerra Partigiana
Redazione, Pagine di Storia – l’8 settembre 1943 nel ricordo di Nuto Revelli, ANPI Genova, 7 settembre 2018

Nuto Revelli ed altri partigiani a Paraloup
Fonte: Fondazione Nuto Revelli

Paraloup è un villaggio di una dozzina di baite posto a 1.360 m di quota nel vallone laterale di Rittana, in Valle Stura, provincia di Cuneo, e fu tradizionalmente abitato come pascolo estivo.
Il toponimo occitano, che significa “al riparo dai lupi”, la dice lunga sulla vocazione storica del luogo, che tra il settembre 1943 e la primavera del 1944 ospitò il primo quartier generale delle bande partigiane di Giustizia e Libertà del cuneese, capitanato fra gli altri da Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco, Giorgio Bocca e, in seguito, dallo stesso Nuto Revelli.
Fu una fucina di libertà, un luogo in cui circa 200 giovani, dell’età media di 20 anni, di ogni estrazione sociale si radunarono da tutto il Paese per ricevere formazione politica e militare in vista della lotta per la liberazione dal nazifascismo e la ricostruzione di un’Italia democratica.
Nuto Revelli si unì alla Banda “Italia libera” di Paraloup nel febbraio del 1944, prima di spostarsi insieme alla IV Banda nel Vallone dell’Arma e poi in Francia.
La vocazione di fucina democratica del luogo fu attuabile solo grazie alla fondamentale collaborazione da parte della comunità degli abitanti della Valle. Senza aiuto da parte dei valligiani, la banda non avrebbe potuto organizzarsi per operare nelle pesanti battaglie dei rastrellamenti del 1944.
La Resistenza di Paraloup, dunque, è una storia di Resistenza di comunità. Partigiani, montanari, ebrei (i profughi da Saint Martin Vésubie), tutta una comunità si strinse e lottò insieme per riconquistare la pace e la libertà, nonostante la fame e l’asprezza dell’ambiente.
Di questa storia di lotta comune racconta il volume Resistenze: quelli di Paraloup, pubblicato da EGA Edizioni a cura di Beatrice Verri e Lucio Monaco.
Redazione, Da alpeggio a rifugio partigiano, Fondazione Nuto Revelli

La IV banda di Nuto Revelli lascia Paralup per raggiungere il Vallone dell’Arma nel marzo del 1944

È stato presentato ieri sera in Comunità “Resistenze. Quelli di Paraloup”, la storia di un piccolo borgo del cuneese in cui nacque la Resistenza, uno di quei luoghi della memoria che la Fondazione Nuto Revelli ha voluto preservare e recuperare. La serata, organizzata dal Gruppo di Studi Ebraici, ha visto intervenire, insieme ai curatori del volume, Tullio Levi, Alberto Cavaglion e Bruno Maida. Il volume edito dal Gruppo Abele e curato da Beatrice Verri e Lucio Monaco, racconta come si siano potute incrociare tante vicende diverse, compresa quella dei profughi di Saint Martin Vésubie, a Paraloup, un piccolo borgo di montagna del Cuneese. Dove abitarono per secoli montanari e pastori, frammenti di quel mondo dei vinti che costituisce oggi un riferimento ineludibile per chi guarda a nuove forme di convivenza tra le persone e con la natura operò, nelle baite che sono state ristrutturate dalla Fondazione Nuto Revelli, la prima banda partigiana di Giustizia e libertà del Cuneese, guidata da Dante Livio Bianco, Duccio Galimberti e, più tardi, dallo stesso Nuto Revelli. Il volume racconta la vita del borgo prima del Novecento attraverso le testimonianze di pastori, contadini e montanari che vi abitarono, e come si sia arrivati alla scelta antifascista maturata subito dopo l’8 settembre. Al libro è allegato un dvd che raccoglie alcune testimonianze, fra cui quella di Enzo Cavaglion, uno dei dodici che il giorno successivo salirono a Paraloup.
a.t., Qui Torino – Resistenza in alta quota, moked, 12 dicembre 2013

Dopo il rastrellamento tedesco che il 12 gennaio 1944 aveva fatto ripiegare i partigiani dalle postazioni di Paralup e di San Matteo, le bande partigiane si andarono ridistribuendo nell’intera Valle Stura. La valle rappresentava uno dei luoghi strategici dell’intero arco alpino meridionale soprattutto per i collegamenti con la Francia attraverso il colle della Maddalena. Così dalla prima banda “Italia libera” nei mesi successivi si costituirono diversi distaccamenti: a Paralup rimase la 1ª banda con Giuseppe Vento ed Ezio Aceto; Ettore Rosa diede origine alla 2ª banda con un’ottantina di uomini attestandosi sopra Rialpo di Demonte presso la località il “Fortino”; Aldo Quaranta si spostò con la 3ª banda in Valle Gesso presso Andonno; infine nel marzo Nuto Revelli, che era arrivato a Paralup l’11 febbraio, si spostò con 70 uomini nel vallone dell’Arma sopra Demonte, costituendo la 4ª banda.
L’organizzazione delle formazioni Italia Libera trasformò un lungo tratto della valle Stura in una valle occupata dai partigiani e, come spesso accadde nella guerra di liberazione, la popolazione civile collaborò con le bande tanto che, come ricorderà Nuto Revelli, la gente della valle Stura «considera la propria terra staccata dalla pianura, una cosa a sé, ormai libera, da difendere perché resti così». Un posto di blocco al ponte dell’Olla segnalava l’inizio della zona libera partigiana ed era presidiato da carabinieri – partigiani, mentre a Gaiola uno sbarramento trasversale mostrava la forza delle bande partigiane. In tutto questo lavoro ebbe un ruolo importante Dante Livio Bianco.
Nell’agosto 1944 si modificarono tutti gli scenari di guerra e la valle Stura ne rimase pienamente coinvolta. Il 15 di quel mese infatti gli americani sbarcarono in Provenza ed i partigiani sperarono che un corpo di spedizione si dirigesse verso l’Italia, invece furono i tedeschi a muoversi per primi cercando di occupare le montagne del cuneese per creare un fronte alpino. Cominciarono proprio dalla valle Stura che con in valico della Maddalena rappresentava la principale via di comunicazione fra Italia e Francia.
Dall’8 agosto Nuto Revelli aveva preso la direzione della brigata «Carlo Rosselli» il cui comando era a Demonte e che era costituita da circa 600 uomini. Dieci giorni dopo, i tedeschi cominciarono l’attacco alla valle e Nuto Revelli predispose la sistemazione del caposaldo di Pianche e raccolse gli uomini che avevano risalito la valle facendo saltare i ponti dietro di sé. Nella giornata del 20 iniziò il vero e proprio attacco tedesco alle postazioni di Pianche, ma i partigiani riuscirono a infliggere forti perdite ai nazisti. Dopo il combattimento i partigiani si spostarono a Bagni di Vinadio, dove cominciarono a presentarsi i primi problemi di rifornimenti alimentari.
I partigiani ripresero la marcia e all’alba raggiunsero il rifugio Migliorero, ma le condizioni peggiorarono: i viveri erano scarsi e arrivavano sempre più uomini disarmati dalla valle Stura. Il 22, dopo due giorni di sosta nella notte ricominciò il cammino fino ai boschi di Callieri dove si contarono: erano circa 400 uomini, dei quali però appena un quarto sarebbe stato in grado di sostenere un combattimento. Il 24 agosto raggiunsero finalmente il santuario di Sant’Anna di Vinadio dove gli uomini malati e i meno motivati a continuare lasciarono la brigata.
Così, dopo una notte passata nel santuario, la brigata «Carlo Rosselli» poté ripartire per il Colle della Lombarda: erano rimasti in 250. Dietro di loro i tedeschi risalivano la Valle Stura, ma passato il Colle della Lombarda i partigiani poterono sostare a Mollières dove dovettero decidere se andare in Italia o in Francia. Nuto Revelli avrebbe voluto che la scelta fosse per il nostro paese, ma la maggioranza volle la Francia: così la Brigata Rosselli il 28 agosto raggiunge Isola accolta festosamente dalla popolazione, ma, come scrive Nuto Revelli, «con i tedeschi vicini e i maquis lontani a Plan du Var e Nizza».
Redazione, La brigata Rosselli…, Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo

Riguardo al Console Orlandini in questo rapporto per il Ministero degli esteri redatto da Annita M. Ferrari, datato 27 dicembre 1944, si riferisce che «Sulla persona del Console Orlandini si appuntano sempre molte simpatie in ambiente francese: le testimonianza date da alte personalità francesi , o residenti in Francia, in suo favore, al momento del suo arresto, ne fanno fede. Se pesa su di lui (come su tutti coloro che, in veste ufficiale e in alto grado sono rimasti in Francia durante l’occupazione tedesca l’accusa vaga e generica di «collaborazione con il governo di Vichy» sta in suo favore il fatto che fu proprio il governo uscente (e non quello di Vichy) che lo designò, dichiarandolo «persona grata» al momento della partenza dell’Ambasciatore. Di conseguenza, la sua permanenza a Parigi al momento dell’occupazione era più di fiduciario del governo uscente, che non di persona grata al Governo entrante. In attesa di un aereo per Roma, egli è ora a Parigi, condotto per tappe successive dopo i campi di concentramento dalla fuga di Venezia, all’attività partigiana in valle Stura ed a quella fra le FFI in Francia. La sua attività nel maquis è stata particolarmente gradita. Orlandini era stato assegnato dai tedeschi alla residenza di Venezia, dove era tenuto coatto, dopo due detenzioni in campi di concentramento, Orlandini potè raggiungere i patrioti italiani nelle Alpi (Valle Stura) nel maggio del 1944 e nell’agosto del 1944 passare nel Maquis della Haute Tinée (Alpi marittime) dove ha collaborato con le FFI che gli rilasciarono una tessera di riconoscimento e di liberazione. Da qui, preclusa la via per Roma tornò per un po’ a Parigi, fiducioso di poter da lì prendere un aereo. Il suo arrivo a Parigi «anche se volutamente riservato e a titolo strettamente personale» non poteva restare nascosto. Se ne rallegrarono gli impiegati che sperarono in una riapertura delle sedi e la loro riassunzione.”.
Archivio del Ministero degli Esteri, Serie Affari politici 1931-1945, Comitati italiani di Liberazione Nazionale in Francia (1945), b. 91.
Eva Pavone, Gli emigrati antifascisti italiani a Parigi, tra lotta di Liberazione e memoria della Resistenza, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, 2013

La guerra dei poveri [di Nuto Revelli] è infine più di una cronaca militare: è la storia di come l’Italia fallì la propria redenzione dal fascismo. Accanto all’evoluzione morale e umana del personaggio autobiografico, nel libro prende gradualmente piede un’accresciuta consapevolezza del ruolo della Resistenza nella strategia militare degli Alleati. Nell’entrata del 23 settembre 1944, dopo meno di un mese dal trasferimento in Francia, i partigiani della “Rosselli” conoscono questa nuova dimensione politica della Resistenza:
“La situazione della brigata è complessa ed estremamente incerta. Operativamente dipendiamo dal comando americano di Lantosque: logisticamente dal comando francese. Gli americani, gente pratica, guardano alla nostra formazione come ad un reparto che può dare un contributo operativo immediato. I francesi sopportano mal volentieri l’esistenza di un reparto autonomo italiano, in posizione di parità, fra le forze alleate: un reparto a cui è stato assegnato un tratto di fronte. Gli inglesi, dopo la scomparsa di Flight, non rinunciano a seguire la nostra brigata, anzi, tendono a controllarla: con prudenza però, senza interferire nei programmi francesi. Per la Rosselli questa è un’esperienza nuova, fra situazioni ed interessi che sovente minacciano l’esistenza stessa della formazione”.
Solo pochi mesi prima sarebbe stato impossibile per l’autore del diario afferrare in modo semplice e lucido la complessità della situazione internazionale. L’incidente in moto del 24 settembre 1944, che allontanò Nuto dalla zona d’azione partigiana, fornì invece l’occasione per spingersi ancora più addentro al retroscena politico, in una fase in cui il partigianato si trasformava radicalmente: «una brigata che porta il nome di Carlo Rosselli, deve avere un preciso orientamento ideologico, e una visione non limitata al momento, ma spinta al poi, ai problemi del domani, al profondo rinnovamento della vita del nostro paese».
Gianluca Cinelli, Gli scrittori partigiani del Cuneese

La zona del Col Sabbione – Foto: Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM)

Dalla seconda metà di settembre alla prima di dicembre 1944 perdura una tale situazione incerta. Rientrato in Italia, il 4 ottobre, il comando della I^ Divisione, vengono fatti i primi approcci con il comando francese, il quale acconsente a che le bande della brigata rimangano in Val Vésubie, con l’incarico di stabilire un servizio di collegamento fra le linee alleate e le formazioni «G.L.» di stanza nel cuneese; lo scopo tendeva ad ottenere dettagliate informazioni sui movimenti tedeschi nel settore, alpino ed in Piemonte. I tentativi sono prontamente messi in atto dai partigiani, nonostante le condizioni atmosferiche avverse, la neve abbondante che copre i colli, l’equipaggiamento assolutamente inadatto […] stato di cose, unito al sistematico controllo da parte dei tedeschi di ogni tratto di valico sul confine, frustrava anche le speranze della brigata di poter rientrare nel cuneese, poiché era assurdo tentare il trasferimento di qualche centinaio di uomini in siffatte condizioni. D’altro canto con l’avanzare dell’inverno e l’accrescersi delle difficoltà di approvvigionamento (il comando francese concedeva un minimo prelievo di viveri presso i suoi magazzini ed i partigiani vivevano in parte con scatolame, residuo di lanci americani in Val Tinée, e in parte acquistando dalla popolazione) fu giocoforza cercare di concludere un accordo preciso con gli alleati. Il comando della Ière Armée chiese in un primo tempo che la brigata si trasferisse ad Isola, in forza al 2° Gruppo di Battaglioni – Groupement Colonnello Guien. La richiesta venne parzialmente accolta con l’invio di 50 volontari, ma il grosso non abbandonò la primitiva sede. A metà dicembre, l’ordine improvviso: la brigata deve trasferirsi a Mentone per essere incorporata nel 74° battaglione stranieri, una specie di legione straniera in via di costituzione, di cui facevano parte polacchi, ungheresi, cechi, russi ecc. A rendere più convincente l’ordine, i partigiani ebbero tagliati i viveri per tre giorni: inoltre il comando francese di Isola cercò di distribuire danaro ai volontari del locale distaccamento, danaro che fu seccamente respinto. L’atmosfera si faceva pesante. Il comando della «Rosselli» non frappose indugi ed inviò al colonnello Lanusse un esposto, riassumente l’attività della formazione fino al momento in cui era giunto l’ordine di trasferirsi a Mentone; documento sereno, fermo, da cui emerge la volontà di ufficiali e partigiani di non piegarsi ad imposizioni che possano condurre, in qualunque forma, alla perdita dell’autonomia del reparto, della sua fisonomia schiettamente partigiana e, sopratutto, a spezzare i contatti con il comando di Pradleves ed i compagni che combattono nel cuneese. Di fronte all’alternativa posta loro, battaglione straniero o ritorno in Italia, la replica è netta: dopo aver fatto presente quale sia stato il loro apporto alla causa comune e quali possano essere i vantaggi di un lavoro di collegamento con le valli presidiate dalla Ia Divisione «G.L.», dichiarano, senza iattanza, senza retorica, che la scelta è fatta: «… nous sommes résolus à repasser les montagnes au prix de n’importe quel sacrifice» […]  I 185 volontari della «Rosselli» sapevano ciò che poteva significare «rivalicare la montagna». Grosse pattuglie tedesche controllavano ogni via di possibile transito, nonché le valli della Roja e della Stura fino al loro sbocco in pianura; postazioni di mitragliatrici e mortai tenevano sotto vista tutti i punti chiave della linea. Rientrando, novanta probabilità su cento di scontro in alta montagna, dopo magari due giorni di marcia estenuante, in condizioni di temperatura e di neve pessime. E mancava totalmente l’attrezzatura per un simile «raid» […] i partigiani avevano indumenti di tela e lo scarso bagaglio personale di ciascun volontario s’era arricchito unicamente di qualche farsetto e di qualche maglia, raccolti dai C.L.N. italiani costituitisi in Nizza e Montecarlo. Se una minima possibilità di valico fosse sussistita, il comando partigiano l’avrebbe sfruttata; ma affrontare la montagna in condizioni proibitive era impresa pazzesca. Perciò l’ultima speranza era rivolta all’accoglimento da parte alleata delle ragioni motivate nell’istanza. L’«exposé» del comandante della Rosselli viene preso in considerazione dal colonnello Lanusse. I francesi, presso i quali ad onor del vero i partigiani troveranno spesso maggior sensibilità, comprendono evidentemente la responsabilità che graverebbe su di loro qualora la brigata risolvesse di tentare il forzamento delle linee nemiche. Dal comandante della lère Armée i partigiani ottengono formale assicurazione che si provvederà a una sistemazione onorevole delle bande nell’ambito del raggruppamento alpino francese. Senonché, avuto sentore di un possibile accordo della «Rosselli» con Lanusse, la missione inglese di Nizza, comandata dal maggiore Betz, corre ai ripari, cercando di imporre i suoi disegni. Vengono inviati due ufficiali agli accantonamenti della brigata, con la richiesta di un elenco dei volontari della formazione disposti a rientrare in patria. Il piano della Special Force par profilarsi in questi termini: ottenere lo sfasciamento dell’unità partigiana per impegnare gli uomini in piccoli nuclei di guastatori ed inviarli in missione nel cuneese, alle dipendenze dirette dell’Alto comando per il Mediterraneo […]  Nella stessa giornata del 28 dicembre arriva a Belvedere un capitano della missione inglese per insistere nella richiesta degli elenchi nominativi. Gli viene presentato il documento Lanusse, in base al quale nessuna collaborazione è possibile senza la preventiva autorizzazione francese. L’ufficiale alleato non insiste ma, da questo istante, le pressioni sulla brigata perchè passi sotto controllo inglese non avranno più fine; anzi, aumenteranno nella mistura che l’attività della «Rosselli» metterà in luce le doti di abnegazione, di coraggio, di resistenza dei volontari. A prezzo di fatiche e rischi grandissimi si stabiliscono i collegamenti con il Comando della I^ Divisione a Pradleves (Valle Grana) e con il Comando della Brigata Roja, sito in alta valle. Le pattuglie portano in Italia armi, apparecchi radio, vestiario, e ritornano con lunghi rapporti informativi sulla situazione partigiana e del nemico in Piemonte, sulla dislocazione ed entità numerica delle forze tedesche, con notizie di ogni sorta. Tre, quattro, fino a sei giorni di marcia nella neve, sgusciando attraverso il dispositivo di pattuglie tedesche, affrontando tormenta e valanghe. Ecco la relazione su una di queste autentiche imprese: «Pattuglia per il collegamento con i partigiani in Italia, da parte della Brigata «Rosselli» con il Comando della I^ Divisione Alpina Gielle. Due uomini. Da Belvedere a Pradleves (ore 13 del 17-12-’44) – Itinerario: Falso Colle del Ruas-Grangie di Ceva (Pernottamento). Riparte alle 5 del 18-12 e raggiunge il lago de Le Mesce (Valle Roja) verso le 19, proseguendo per Casterino-Peirafica. (Pernottamento). – Partenza da Peirafica alle ore 3 del 19-12 – Percorso: Forte Giaura-Limonetto. Da Limonetto partenza alle ore 5 del 20-12 – Percorso: Colle dell’Arpiola-Pallanfré (Vernante) – Pernottamento, presso un distaccamento della Brigata Vermenagna. Giorno 21-12-’44: ore 14 – Percorso: Colle di Cerse-Roaschia-Andonno-Tetti Rabas-Valloriate (pernottamento). Giorno 22-12: Valloriate-Gorré-Rittana-Monterosso-Pradleves» […] gli inglesi giocavano a carte scoperte, pur concedendo il riconoscimento di una dipendenza della brigata dal comando della 19a divisione e dal C.V.L. italiano e assicurando che, al momento del rientro in patria, essa avrebbe preso ordini unicamente dal C.L.N. Fu loro fatto presente che la situazione del fronte ed, ancor più, quella della montagna non erano tali da consentire il transito sia pure a gruppi di trenta-quaranta uomini. La risposta venne con un ultimatum, a fine febbraio, col quale si lasciavano ventiquattro ore alla formazione per decidere: o trasferirsi o sciogliersi. L’ultimatum fu reso noto in un incontro fra il colonnello inglese comandante le missioni sul fronte alpino, ed i comandanti della Rosselli, presente il maggiore Betz. Espresso duramente, si concludeva con la minaccia di internamento di tutti i componenti il reparto […] […] Il 10 marzo [1944] parte il primo gruppo, con itinerario Rifugio Imperia-Col del Sabbione-Col di Tenda e discesa in Vermenagna: ventotto ore di estenuante cammino, con un carico che supera i venticinque chilogrammi per ciascun uomo, fino a Peirafica. Gli avvistamenti tedeschi avevano seguito i movimenti del gruppo e, la mattina del 14, forti nuclei tentano l’attacco ma devono desistere nel pomeriggio e ritirarsi su Vernante. Il 16, sul far del mezzogiorno, Pradleves è raggiunta. Sei giorni di marcia, un’odissea che ha sfiancato tutti; il 20 tuttavia, i volontari della Rosselli ripartono per la Valle Stura e riprendono l’attività operativa. Il grosso della brigata, rimasto in Val Vésubie, si appresta a sua volta al passaggio, sotto la guida del comandante Revelli. I rapporti con gli alleati sono tesi; il comandante Revelli si è accorto che la missione inglese altera i radiogrammi provenienti da Pradleves e indirizzati alla brigata, con il preciso scopo di creare degli attriti fra i due comandi. Invia allora una staffetta, recante un frasario convenzionale per gli scambi radio; il tenore delle frasi concordate denota chiaramente quanto grave fosse la situazione […] Il passaggio del primo gruppo di volontari ha, intanto, messo in allarme tutti i dispositivi di controllo tedeschi che rafforzano la sorveglianza al Colle del Sabbione, unico passaggio sfruttabile. Gli ottanta uomini di Revelli, dopo aver cercato, il 3 aprile, di infiltrarsi fra le maglie nemiche in questa direzione, si risolvono a prendere un’altra via: per la Val Durance ed il Colle Maurin, scendono in Valle Macra. Ancora puntate esplorative e preparativi per una dozzina di giorni, poi, il 18 aprile, partenza. Al Colle Maurin, il presidio tedesco sbarra il passo: la colonna giellista riesce ad evitarlo e, dopo 38 ore filate di cammino, giunge in alta Valle Macra. La Brigata Rosselli è nuovamente in linea, nel V° settore partigiano piemontese, perfettamente inquadrata; nei giorni della liberazione, i volontari del «Groupe Nuto» prenderanno parte alla conquista di Cuneo.  Mario Giovana, Una formazione partigiana in terra di Francia, Italia contemporanea (già Il Movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973) n. 3, Rete Parri

La zona di Casterino – Foto: Bruno Calatroni di Vallecrosia (IM)

Nuto Revelli […] Dal 13 settembre 1943 iniziò, collegandosi ad altri resistenti, a raccogliere materiali e a prendere contatti per una formazione di pianura (in quel momento era scettico sulla possibilità di azioni in montagna), che in ottobre chiamerà “1ª Compagnia rivendicazione caduti”; iniziò anche una collaborazione, via via più stretta, con la Banda Italia Libera. Entrerà in questa banda il 7 febbraio 1944, dopo il Convegno di Valloriate. A fine mese il gruppo bande Italia Libera, che aveva sede a Paraloup, diede origine alla IV Banda, sotto il comando di Revelli, che si spostò a operare nel Vallone dell’Arma, sopra Demonte. Qui Revelli compose la canzone partigiana Bandiera nera, più nota oggi con il titolo Pietà l’è morta.
Sotto il suo comando, la IV Banda superò brillantemente e senza perdite la violenta offensiva tedesca del 20-29 aprile 1944 (denominata Aktion Tübingen). Durante una sosta tra i combattimenti, presso il villaggio di Narbona, gli uomini della IV crearono il canto partigiano La Badoglieide. Più tardi la banda si sposterà in Val Vermenagna. Di qui, ai primi di agosto, Revelli fu nominato comandante della Brigata Valle Stura “Carlo Rosselli”, che in agosto contrasterà efficacemente la spinta tedesca verso il Colle della Maddalena, e a fine mese sconfinerà in Francia collaborando con le forze alleate. Il 2 ottobre Revelli subì gravissime lesioni al volto in un incidente durante un’azione di collegamento; lesioni che lo costringeranno a molte operazioni chirurgiche a Nizza e Parigi.
Il 26 aprile 1945 rientrò in Italia attraverso la valle Maira e partecipò alla battaglia per la liberazione di Cuneo.
ANPI Genova cit.