Il Durchgangslager di via Resia svolse il ruolo di campo sostitutivo di quello di Fossoli

Quasi tutti i deportati del Lager di Bolzano furono adibiti a lavori interni al Lager o nelle officine nell’adiacente zona di interesse, alla raccolta di mele per conto di privati, allo sgombero delle macerie nel centro storico di Bolzano dopo i bombardamenti, ad operazioni di scavo per la posa di tubature e cavi elettrici; molti lavorarono per un’industria meccanica (IMI, di Ferrara) di produzione bellica allestita nella Galleria del Virgolo.
[…] Da testimonianze scritte ed orali di ex deportati apprendiamo che nel Lager di Bolzano vi furono frequenti episodi di violenza, perpetrati da due giovani soldati ucraini, sottoposti al comando dell’altoatesino Albino Cologna; uno dei due, Michael Seifert detto Misha (1924 – 2010), rintracciato all’epoca vivente in Canada, è stato oggetto di un processo condotto dalla Procura Militare di Verona nel 2000; il processo si è concluso con la sua condanna all’ergastolo per 11 omicidi.
All’alba del 12 settembre 1944 furono prelevati dal Lager 23 uomini, uccisi con un colpo alla nuca nella ex Caserma di Artiglieria “Francesco Mignone” sita nel quartiere di Oltrisarco. Erano accomunati dalle attività svolte prima dei loro arresti: essi erano agenti militari che, per conto del Servizio Informazioni Militari del Governo dell’Italia Liberata del maresciallo Badoglio e in collegamento con i servizi segreti alleati SOE e OSS, avevano svolto rischiose operazioni di intelligence e di sabotaggio nell’Italia occupata dai nazifascisti.
Dentro il Lager era attivo un comitato di resistenza clandestino, che aveva contatti con il CLN esterno e che aiutava parte dei deportati mediante distribuzione di beni (cibo, sigarette, denaro) e l’organizzazione di fughe dal Lager. Variamente testimoniate dai deportati sono anche numerose iniziative spontanee di solidarietà attuate dalla popolazione civile, particolarmente dagli abitanti del quartiere operaio delle “Semirurali”, anche con il sostegno del cardinale milanese Ildefonso Schuster e del clero locale.
Aiuti in denaro e in vettovaglie arrivavano anche dai dirigenti della Zona Industriale di Bolzano, poiché alcune grandi fabbriche di Bolzano avevano necessità di frequenti collegamenti con le case-madri di Milano e Torino. La Zona di Operazioni nelle Prealpi era chiusa ai contatti esterni, la circolazione era possibile solo con permessi speciali, perlopiù dovuti a motivi legati alla produzione bellica e comunque sottoposti al nulla osta dell’autorità nazista.
[…] Nel breve periodo compreso tra il 28 aprile 1945 ed il 3 maggio 1945 il Lager di Bolzano fu dismesso. Esso non fu quindi liberato; i deportati che si trovavano a Bolzano, così come quelli che si trovavano nei campi dipendenti, furono rilasciati a scaglioni. Ai deportati che si trovavano a Bolzano fu consegnato un certificato di rilascio nominale su carta intestata, recante la firma autografa dell’SS Untersturmführer Karl Titho nella sua funzione di Lagerkommandant.
Da alcune testimonianze apprendiamo che probabilmente nei giorni intorno al 28 aprile comparve nel Lager una piccola delegazione della Croce Rossa, non sappiamo se per concordare la dismissione del Lager con il comandante o se per liberare parte dei deportati ebrei.
Carla Giacomozzi, «Polizei-Durchgangslager Bozen, 1944-45», Diacronie [Online], N° 35, 3-2018

Il Polizeiliche Durchgangslager <3 di Bolzano fu un importante volano della macchina delle SS tra l’Italia occupata e la Germania nazionalsocialista. Servì da Lager di raccolta per più di 11.000 persone: oppositori politici, deportati di guerra e perseguitati dal sistema di terrore hitleriano.
Quello che era stato concepito come Lager di disciplina, di lavoro, carcere, e come stazione di transito, attraverso torture ed esecuzioni assunse i caratteri di un campo di annientamento.
Gli internati, degradati a “null’altro che individui con numeri di identificazione”, e ridotti a identità interscambiabili, furono perlopiù in balia dell’arbitrio e della violenza del comando del Lager e delle guardie.
Per molti la dimensione dell’orrore oltrepassò ogni limite. I sorveglianti mostrarono poca pietà con gli arrestati e abusarono degli internati, classificati come Untermenschen (sottouomini), e specificatamente li collocarono come forza-lavoro gratuita nelle officine del Lager, nei campi esterni e in quelli satelliti, per sfruttarli ai fini della produzione bellica. Inoltre, gli atti di violenza erano all’ordine del giorno: aspetti delittuosi che conferiscono al “piccolo” campo di Bolzano gli attributi di base di un vero e proprio Konzentrationslager.
[…] Il Durchgangslager di via Resia svolse il ruolo di campo sostitutivo di quello di Fossoli (Carpi, provincia di Modena). Motivazioni politico-militari resero necessario un trasferimento verso nord: nel maggio ’44 la “Linea Gustav” crollò; il 4 giugno Roma venne liberata dalle truppe alleate. Hitler valutò come politicamente e militarmente sicura la zona delle Prealpi subito a sud del Reich e dislocò importanti strutture vicino ai confini della “Zona di operazioni”. La collocazione lungo la ferrovia del Brennero, attraverso la quale i prigionieri vennero deportati a intervalli mensili verso i Konzentrationslager e i Vernichtungslager del Terzo Reich, fu un ulteriore incentivo al trasferimento da Fossoli a Bolzano. Per questi motivi la maggioranza dei prigionieri proveniva dall’Italia del nord (Liguria, Piemonte, Lombardia, Venezia, Veneto, Friuli Venezia Giulia), e dalla Voralpenzone <4: “La sede migliore per un campo di concentramento era quella che permetteva ai nazisti di contare non solo sul diretto controllo del campo, come avvenne a Fossoli, ma anche sulla garanzia che dava loro il possesso del territorio circostante. In zone isolate dal resto d’Italia, dove erano rese difficili le comunicazioni di persone e notizie con l’esterno, poteva essere tranquillamente creato un campo di concentramento: le notizie su quanto vi avveniva non sarebbero filtrate, gli internati non avrebbero potuto contare su alcuna forma di appoggio esterno, la situazione sarebbe in definitiva rimasta ben controllabile per i nazisti”. <5
Importanti indizi fanno ritenere che l’allestimento, e parzialmente anche l’uso, del Lager come carcere iniziarono dal gennaio ’44. Alla realizzazione di questo progetto venne chiamato il SAHauptsturmführer e SS-Obersturmführer Georg Mott, primo comandante del Lager di Reichenau presso Innsbruck. Già verso il settembre del 1943 Mott andò a Bolzano, per costruire – sul modello del Lager di Reichenau – un’analoga struttura nel capoluogo della provincia meridionale <6. Come emerge dalle testimonianze degli appartenenti al corpo del Comandante della sicurezza (BdS) <7 di stanza a Verona, in questa fase furono internati nell’area del futuro Durchganslager soprattutto prigionieri politici, che erano caduti nell’ambito di competenza territoriale del Comando di Sicurezza (KdS) <8 di Bolzano. A tutt’oggi non conosciamo il progetto concreto e la sua estensione. Dal maggio 1944 si può parlare esplicitamente dell’avvio del Lager e di un suo utilizzo più massiccio, quando vennero internati nel cosiddetto “campo di rieducazione”, ovvero “campo di punizione”, i “caduti in disgrazia degli appartenenti alla formazione della ‘banda Caruso e Pollastrini’ di Roma, dipendenti dal SD”. Anche il testimone oculare Tullio Bettiol attesta questa funzione originaria, che viene rimarcata dalla denominazione “campo di rieducazione”.
[…] La strategia persecutoria del nazionalsocialismo aveva come obiettivo “l’eliminazione di gruppi nemici”, che avrebbero dovuto essere in prima istanza scoperti, arrestati e infine internati nei summenzionati Lager. Uno di questi era il Durchgangslager di Bolzano. I motivi della detenzione arbitraria erano diversi: tra gli imprigionati si contavano, accanto agli avversari politici, a esponenti dell’opposizione clandestina o persone che si erano espresse contro l’ideale razzista del nazismo, prigionieri di guerra, criminali comuni, nazisti e fascisti che erano stati puniti; ostaggi e cosiddetti “internati casuali”, arrestati a seguito dei diversi rastrellamenti e ai quali i motivi dell’arresto erano ignoti. Dopo un più o meno lungo periodo di detenzione in un carcere di polizia oppure in una caserma, dopo i lunghi interrogatori, avveniva il trasferimento collettivo nel Durchgangslager. La durata della permanenza variava da pochi giorni a più mesi: il termine della prigionia rimaneva ignoto agli internati. I nuovi arrivati sperimentavano tutti le “formalità di accoglienza”, che puntavano a spezzarne la resistenza interiore e tendevano a trasformarli in docili schiavi. Ogni forma di individualità doveva risultare estinta; la storia della vita precedente doveva essere cancellata. Le angherie erano intenzionalmente dirette alla degradazione umana. L’Ufficio Immatricolazione del Dipartimento politico, il comando del Lager, agguantava i nuovi arrivati <11 all’entrata del campo e accertava le loro qualifiche professionali, poiché le SS ricercavano personale specializzato per certi distaccamenti di lavoro. Dopo un generico ammaestramento e un’introduzione alle regole del Lager, gli uomini dovevano subire l’umiliante rasatura a zero. L’atto di umiliazione era finalizzato, più che all’igiene, a rimarcare una sottomissione simbolica:
“Si pensi, un ragazzino ero, e mi hanno rotto tutti i vestiti e mi han dato ’sta casacca e un po’ di soldi. Mi han fatto sedere nel cortile sulla sedia ed è venuto uno con quelle macchinette taglia capelli non elettriche, quelle che usavano una volta a mano. E mi han pelato, mi son messo a piangere […] Vedevo tutti ’sti capelli. È stata una demoralizzazione. E poi la targhetta. È stata una bruttissima impressione. La ricordo ancora oggi.” <12
Indossando la divisa di tela si entrava a far parte della società degli internati. Anche il
riconoscimento degli “schiavi” attraverso l’adozione di triangoli di colori diversi funzionò più che per
la classificazione burocratica, per la discriminazione personale:
• Triangolo rosso: internato politico
• Triangolo rosa: internato casuale (arrestato in azioni di rastrellamento)
• Triangolo azzurro: prigioniero di guerra
• Triangolo verde: ostaggio
• Triangolo giallo: ebreo
La sostituzione del nome con un numero conduceva a un’ultima perdita di identità: “Non avevamo più nessun documento. Niente ci apparteneva. Solo un triangolo rosso. Con il nostro nome ci portavano via noi stessi: eravamo solo numeri. Io ero l’8934.” <13
Il sistema obbligatorio dei numeri e dei colori conduceva alla discriminazione e alla segregazione.
Fissava la divisione del lavoro e regolamentava l’avvio ai diversi ruoli funzionali. Le “cerimonie di accoglienza” risultavano scioccanti: umiliazioni, bastonate e maltrattamenti sconvolgevano i nuovi arrivati, fin dal primo sguardo all’entrata del Lager; parecchi divennero persone psichicamente ferite.
Dopo l’accoglienza, si andava a prendere consapevolezza del “volto miserabile” dei diversi Blocchi.
L’area del campo, su una superficie di circa 13.000 mq, era circondata da un muro, che ne costituisce oggi l’unico resto visibile. Guardie armate sorvegliavano dalle torrette di legno poste ai quattro angoli del Lager, per reprimere i tentativi di fuga.14 Dai magazzini-utensili abbandonati dal corpo Genieri vennero inizialmente ricavati i Blocchi A, B, C, D, E e F. Nell’ottobre 1944 il Lager venne ingrandito, e furono edificati i Blocchi G, H, K, I, L e M. Esigenze detentive, motivi di ordine, di distinzione per sesso e di collocazione determinarono la distribuzione degli spazi: i Blocchi D ed E furono progettati per i detenuti considerati come i più pericolosi, il Blocco F venne assegnato dal
dicembre 1944 alle donne. Dalle relazioni riportate dai testimoni oculari al Comitato di assistenza per i deportati a Losanna risulta che i Blocchi A e B vennero riservati agli operai impegnati nelle attività del campo.
3 Nella traduzione si è preferito mantenere la dizione originaria in tedesco relativamente al termine “Lager” e alle sue varianti; il termine in italiano equivalente, campo (e le varianti: di concentramento, Konzentrationslager; di sterminio, Vernichtungslager; di transito, Durchgangslager), non rende pienamente la specificità della tipologia del Lager. Letteralmente, quello di Bolzano apparirebbe come “campo di transito di polizia di Bolzano”, NdT.
4 La Voralpenzone comprendeva le tre provincie di Trento, Bolzano e Belluno, limitrofe al territorio del Reich: anche qui si è preferito mantenere il toponimo in lingua tedesca, per la specificità dei rimandi geografici e politici che il termine comporta, NdT.
5 Luciano Happacher, Il Lager di Bolzano, Trento 1979, pag. 41.
6 Landgericht Hechingen, Ks 2/57, NS Gewaltverbrechen in Lagern. AEL Reichenau, 10.2.1958, nr. 457; per altri riferimenti d’archivio, in Gerald Steinacher (a cura di), Südtirol im Dritten Reich – L’alto Adige nel Terzo Reich 1943-1945, Innsbruck–Bolzano 2003, pag. 217, nota 4.
7 Befehlshaber der Sicherheit, NdT.
8 Kommandeur der Sicherheit, NdT.
11 Neulinge, sinossi tra Häftlinge e Neue, neo prigionieri, NdT.
12 Intervista dell’autrice a Tullio Bettiol, il 12.8.2002, cass. XIIIb, trascrizione pag. 7.
13 Intervista dell’autrice a Tea Palman, il 12.8.2002, cass. XIVb, trascrizione pag. 7.
14 “La demolizione degli edifici interni al muro del Lager è iniziata nel 1962. Un rilievo dello stato fu eseguito il 17.04.1962 da I.N.C.I.S., Istituto nazionale cassa impiegati stato, accertando che negli edifici esistenti, blocchi e celle abitavano 53 famiglie. Sono stati costruiti, sempre all’interno del muro, 175 alloggi suddivisi in 11 fabbricati per complessivi 66.000 mc. Il terreno aveva e ha una superficie complessiva di circa 13.000 mq. Le dimensioni del terreno sono m. 146 per il lato che noi vediamo entrando dove stanno le scuole e m. 91 il lato di fondo” (testimonianza di Lionello Bertoldi, presidente dell’ANPI di Bolzano, 2004), NdT.
Il Polizeiliche Durchgangslager Bozen 1944–1945 <1 di Barbara Pfeifer (traduzione e integrazioni a cura di Andrea Felis) in Dario Venegoni, Uomini, donne e bambini nel Lager di Bolzano. Una tragedia italiana in 7.982 storie individuali, Fondazione Memoria della Deportazione/Mimesis – Milano 2005, Seconda edizione rivista e ampliata, aprile 2005. Ricerca realizzata con il contributo dell’Unione Europea, docuento qui ripreso da ANED
1 Il presente testo è apparso in tedesco in Gerald Steinacher (a cura di), Südtirol im Dritten Reich – L’Alto Adige nel Terzo Reich 1943–1945, Innsbruck–Bolzano 2003.

Ada Buffulini con la divisa del campo. Sul petto sono cuciti il triangolo rosso e la sua matricola: 3795. Il viso e il corpo appaiono gonfi: sono con ogni probabilità i primissimi giorni dopo la liberazione
Fonte: Oltre quel muro cit. infra

[…] Ben presto le carceri si riempirono di prigionieri politici e Bolzano ebbe il SUO CAMPO DI CONCENTRAMENTO, anticamera ai campi di eliminazione di Mauthausen, Dachau ed altri.
Dapprincipio deboli e isolati furono i nostri tentativi di aiuto alle carceri e al campo di concentramento: eravamo disorganizzati, non avevamo viveri, né vestiario, né denaro sufficiente per dare un aiuto veramente efficace. Raccoglievamo qua e là zucchero, farina, pane e indumenti (ben poca cosa) che portavamo a sconosciuti, gente senza nome e senza volto, la più bisognosa, fidando ingenuamente nel senso di umanità dei guardiani. Lavoravamo con accanimento e non mancavano i momenti di sconforto e di sfiducia; affrontavamo giorno per giorno una vita piena di sorprese e di incognite; vivevamo una vita nostra, a parte, ignorata dai più, ribellandoci contro quel presente che ci avrebbe condotti, con metodica distruzione, alla dissoluzione degli impulsi più vitali e fattivi del nostro spirito. Ogni nostro sforzo, spinto dallo stesso moto psicologico, dalla stessa sensazione che occorresse lottare, era teso verso un solo unico scopo: la libertà.
Per me come per tante altre persone come me la Resistenza è nata così.
Il mio collegamento con la Resistenza organizzata avvenne dopo l’incontro con la medaglia d’oro Manlio Longon capo del CLN clandestino di Bolzano, che già i conoscevo per ragioni d’ufficio. Mi chiese se ero disposta a collaborare con un comitato organizzato; accettai con entusiasmo: vedevo così realizzarsi il mio impulso.
Manlio Longon mi mise in contatto con “Giacomo” – Ferdinando Visco Gilardi – membro del CLN e responsabile del settore assistenza; fu così possibile allacciare, facendo capo a Giacomo, le file sparse di tutto i gruppi già impegnati in questa attività. In stretto collegamento con me operavano le amiche Pia e Donatella Ruggero, Fiorenza e Vito Liberio, Elena Bonvicini, Giuseppe Bombasaro, Armando Condanni, Esca e Umberto Penna, ai quali facevano capo altre persone, e perdonatemi se di molti non ricordo ora i nomi.
Ognuno di noi aveva un suo pseudonimo ed agiva in una ristretta cerchia di pochi, senza diretti e personali contatti al di fuori; ciò era indispensabile per salvaguardare l’organizzazione dai gravi pericoli che comportava la nostra attività. Una delazione o anche un’imprudenza sarebbero state sufficienti per la deportazione.
Le nostre case divennero luoghi di riunioni clandestine, stazioni radio-trasmittenti e le cantine depositi di armi, viveri e materiale di propaganda.
Un’efficace organizzazione dell’assistenza fu resa possibile grazie all’organizzazione interna del campo, la quale aveva la sua base in una organizzazione clandestina guidata da un Comitato. Il rapporto tra il Comitato interno ed il CLN esterno era continuo e quasi regolare.
Venne sfruttata l’organizzazione economica del campo che forniva centinaia di lavoratori a fabbriche, cave, gallerie ecc. Questa diede l’occasione di incontri con i lavoratori di Bolzano, alcuni dei quali mostrarono la loro solida solidarietà impegnandosi nei collegamenti clandestini. I più preziosi collegamenti si ebbero dalle internate costrette ai lavori servili in squadre di pulizia delle caserme, dell’Ospedale militare, nelle abitazioni degli ufficiali e sottufficiali che si trovavano in città e presso le case semirurali, nonché dai liberi lavoratori che lavoravano nel Lager alla direzione dei laboratori interni del campo ma che abitavano in città. Questi ultimi consentirono dei collegamenti quasi regolari.
I collegamenti avvenivano generalmente per iscritto su minuscoli biglietti che venivano depositati di volta in volta in posti segreti. Rosa e Antonietta avevano creato nel casello ferroviario di Via Resia un vero ufficio postale, ma non era sufficiente un solo punto di smistamento per la posta, la sorveglianza era severa e il detenuto scoperto con qualche lettera veniva bastonato e messo in cella di segregazione. E allora si doveva cercare subito un altro mezzo di comunicazione, perché le notizie non mancassero mai: casa Pavan e casa Dal Follo erano altre cassette postali con l’aiuto dei sarti Alfredo e Nicola che andavano a lavorare nel campo.
In questo modo venivamo a conoscenza delle necessità del campo, delle eventuali partenze per la Germania e dei nuovi nominativi che si aggiungevano di volta in volta al già lungo elenco degli internati ed in particolare di quanto ci veniva richiesto per l’organizzazione di evasioni dai luoghi di lavoro e dai vagoni ferroviari in partenza per la deportazione.
Il nostro comitato preparava la tecnica dell’evasione, la comunicava al comitato del campo insieme con gli indirizzi di rifugio degli evasi. Il comitato del campo a sua volta la comunicava a quelli che dovevano evadere con le modalità da seguire. Ciò quando i contatti diretti con l’internato che doveva evadere non erano stati possibili sul posto di lavoro. Il nostro compito si svolgeva praticamente nel prendere contatti e nell’organizzazione della fuga, nel raccogliere gli evasi e nasconderli nelle nostre case per il tempo necessario a rifornirli di documenti falsi e vestiario ed instradarli verso rifugi sicuri in altre regioni. Il loro trasporto avveniva il più delle volte con gli automezzi degli stabilimenti della zona industriale, in particolare Magnesio e Lancia.
Il CLN di Milano, attraverso organizzazioni commerciali di alcune ditte e con trasporti autonomi ed in particolare con gli automezzi degli stabilimenti della zona industriale di Bolzano, ci mandava lettere, viveri e indumenti , oltre che denaro, per l’assistenza agli internati. I viveri e il vestiario venivano in gran parte confezionati da noi in pacchi differenziati l’uno dall’altro per evitare che sorgessero nei nazisti sospetti sull’esistenza di un’organizzazione clandestina, ed erano destinati ai nominativi fornitici dal Comitato interno del campo; ne abbiamo confezionati a centinaia.
Le più sospettose erano le sentinelle e fasciste e si cercava di consegnare i pacchi quando alla portineria del campo erano di servizio i militari della SOT, molto più compressivi e umani. E così arrivammo al giorno 15 dicembre 1944: Manlio Longon fu arrestato e dopo di lui Enrico Pedrotti, Ferdinando Visco Gilardi, don Daniele Longhi, Vincenzo Del Fabbro ed altri; il 19 dicembre Adolfo Beretta, Tullio Degasperi, Erminio Ferrari, Decio Frattini, Walter Masetti, Gerolamo Meneghini, Romeo Trevisan: quest’ultimo gruppo il 1° febbraio fu deportato nel campo di Mauthausen – non sono più tornati. Così anche Bolzano ebbe le sue vittime.
Fu un susseguirsi di tristi avvenimenti, che, privando la nostra organizzazione dei compagni migliori e più responsabili, demolivano in pochi giorni il nostro lavoro di molti mesi, riportandoci nuovamente alla prima fase iniziale di incertezze e disorientamento. La sofferenza per la sorte oscura che avrebbero dovuto subire i compagni arrestati, aveva in un primo momento paralizzato la nostra volontà di lotta; le prime loro notizie erano vaghe ed incerte e non servivano che a gettarci in uno sconforto sempre più grande. Eravamo rimasti un piccolo, sparuto numero di volonterosi, ci erano venuti meno i collegamenti con il campo per l’arresto di Ferdinando Gilardi.
Piccoli indizi ci aiutarono nella ripresa. La moglie di Gilardi ci in dicò un nome, bastò per allacciare la corrispondenza con il comitato interno del campo. Laura Conti, Ada Buffulini e Armando Sacchetta cominciarono ad indirizzarmi le loro missive. Le notizie dal campo non erano tranquillizzanti, i processi dei nostri compagni di Bolzano si susseguivano lasciandoci alternativamente tra la speranza e il timore; un giorno Enrico Pedrotti mi scrisse:
“Cara Anita, grazie infinite. Vi prego, fate moltissima attenzione, siamo già in troppi a soffrire. Qui é l’inferno. Fame, angoscia, botte e disperazione, passerà. Giacomo é qui sereno come sempre , malgrado la grave apprensione per la moglie, sembra arrestata e i bimbi in istituto. Vedete voi. Daniel é molto giù ma sano. Rispettivamente sono al numero 28 e 40. Io al 47. Di Angelo niente di preciso, ma manca . Cari Saluti”.
Manlio Longon ci diede l’esempio di come si moriva per la libertà. Con la sua barbara uccisione crebbe il nostro dolore e si rafforzò la nostra volontà di lotta. Per opera di Condanni ebbi il primo contatto diretto con Virginia Scalarini, incaricata dell’assistenza del CLN-Alta Italia. Da lei mi pervenivano le disposizioni del CLN-Alta Italia, il denaro e i mezzi per continuare la nostra opera di assistenza.
Luciano Bonvicini riprese in mano le fila della Resistenza in Alto Adige.
Con l’aumentare delle difficoltà e dei pericoli, le nostre capacità di lotta si affinarono di fronte al proposito delle SS di stroncare ogni tentativo di resistenza attiva; si continuava nonostante tutto ad organizzare fughe, a raccogliere armi, a distribuire propaganda. Dal febbraio 45 le partenze per la Germania furono sospese, e finalmente il 28 aprile i cancelli del campo di concentramento si aprirono.
Non é possibile concludere queste succinte note rievocative senza far cenno, almeno, al carattere saliente che distinse l’opera di assistenza degli internati al campo di concentramento; intendo riferirmi allo spirito unitario che tutti animò, qualunque fosse la provenienza o l’orientamento politico, la fede religiosa, la collocazione sociale. È il segno peculiare della Resistenza italiana, che in virtù di un’unità raggiunta non senza difficoltà e travagli, seppe coinvolgere nella lotta grandi masse di popolo per la riconquista della libertà e dell’indipendenza nazionale. Un’unità che non annullava certo le naturali differenziazioni politiche e ideali, che sorgeva da una profonda riflessione sui drammatici eventi della storia nazionale, che esercitava una spinta decisiva verso l’incontro e la sincera collaborazione come condizione di successo. Ebbene, questo spirito unitario, illuminato da un profondo senso di solidarietà umana, fummo capaci di alimentare senza il minimo cedimento, proprio e particolarmente nella nostra opera di assistenza. Mi si consenta a quatto preciso riguardo di leggervi un passo tanto semplice quanto significativo di una lettera del 17 aprile 45 da Milano di Virginia (di cui ho già detto), una delle responsabili dell’assistenza nell’ambito del CLN Alta Italia.
“(…) Fai sapere in campo – è cosa della massima importanza – che tutti i rappresentanti dei diversi partiti hanno contribuito all’acquisto e alla spedizione della merce, e che si faccia in modo che in campo la dividano d’amore e d’accordo”
Da questa semplice citazione, laddove si pone l’accento sulla partecipazione di tutti i partiti all’opera di assistenza, si avverte il clima che si era instaurato tra tutti noi: fu quello il nostro maggior merito, mi sento di dire oggi, in un periodo tanto travagliato della nostra vita nazionale. È mia profonda convinzione che il modo più degno per onorare la memoria dei caduti della Resistenza, delle vittime del campo di concentramenti di Bolzano e di tutti i campi di sterminio, sia quello di riconoscere sempre e con la decisione necessaria ciò che ci unisce e che può portare all’intesa, alla collaborazione e alla visione unitaria della realtà, piuttosto che cedere alle differenziazioni, ai contrasti e agli scontri laceranti.
Franca Turra, Così funzionava il Comitato Clandestino di Assistenza al campo di Bolzano, ANED
L’originale di questo intervento, con correzioni a mano di Franca Turra, è ora presso l’archivio della Fondazione Memoria della Deportazione

Uno dei rari biglietti in cui Ada Buffulini utilizzò il nome di copertura che si era imposta, “Maria”
Fonte: Oltre quel muro cit. sopra

[…] riprendo in mano le lettere dal campo di smistamento di Bolzano scritte da mio zio Rurik Spolidoro (medaglia d’oro della resistenza, morto a Gusen per percosse ricevute).
[…] 26/10/44 (BOLZANO).
Mamma adorata e carissimi, questa è la terza lettera che vi scrivo. La mia salute è buona: sono solo stanco, perciò scuserete la laconicità. Faccio il manovale. Ma il campo è di passaggio; perciò penso che non durerà molto. Chissà se queste mie vi arriveranno. E’ mio conforto qui rileggere i vostri biglietti per l’ennesima volta e guardare le fotografie che ho con me. Desidererei avere notizie di Kemar e di Nadir (esami) e di tutti e sapere se Elmyr ha scritto. Per mangiare qui ci si arrangia. Si possono acquistare sale e la popolazione – ogni tanto, nelle pause del lavoro che si fa fuori del campo dà del pane. Come sta il piccolo Roberto? Fra poco compie gli anni. Lo zio Vuvi lo abbraccia e lo palleggia, il nostro Astianatte, signore della nostra piccola città. Stelio magari dirà: “palleggi chi vuole, ma non mio figlio”. Ma per una volta, per una volta vorrei vedervi e sarei beato, ma senza essere visto. Forse vi riuscirebbe penoso. Il morale è alto. Vi abbraccio forte e vi stringo al cuore tutti. Rurik. Bacio Mamma e Roberto.
n.5295 Blok H Polizeiliches Durchgangslager, Bolzano
26/10/44 (BOLZANO).
Carissimi e Mamma adorata, poche parole in fretta, perchè sono stanco. Sono manovale presso dei muratori tedeschi. Ma non preoccupatevi per me, poichè la mia salute è buona e il mio morale è alto. Imparerò un altro mestiere tutt’al più. Sono qui a bolzano, non so per quanto: sono ben coperto, grazie a voi, e finora ben nutrito. Vi sono buone mele e qualche altra cosa che riesco ad acquistare. Altre novità non ci sono. Solo non vorrei che mi vedeste ora, perchè sembro più che mai un bruto. Fra pochi giorni è la festa di Roberto: lo bacio tante volte e lo palleggio a lungo, come il buon Ettore, con il permesso dei suoi genitori. Auguri a Janine per la sua festa. Dite a Kemar che anch’io sono fiero di lui, che è stato in gamba, come io mi aspettavo e come uno Spolidoro. Fatemi sapere come e quando potete, con ogni mezzo, altre notizie (Elmyr, esami Kemar e Nak e altre riguardanti la vostra salute).
Vi penso sempre, naturalmente, e vorrei che non aveste nessuna preoccupazione per me, poichè mi so sempre arrangiare e comunque non mi abbatto.
Da quando avevo 7 anni a ora, fra collegio, vita militare e prigionia ho imparato a restare sempre a galla. Questa è la 4a lettera che vi scrivo. Il mio indirizzo lo conoscete e comunque lo potete conoscere. Il mio n. è 5295 Blok H Vi abbraccio teneramente tutti e bacio molte volte Mamma e Rob. Vostro Rurik. Saluti a Maria. Tanti cari saluti alla famiglia Maritano, specie a Genie.
31/10/44 (BOLZANO).
Adorata Mamma,
è questa la prima lettera che vi scrivo di qui (1). La mia salute è buona, il vitto sufficiente; il clima abbastanza salubre, per cui non dovete avere preoccupazioni per me. Vi penso sempre e spero di essere presto fra voi: ma naturalmente l’avvenire è nelle mani della Provvidenza. Qui ho trovato buoni compagni: Massari, Zoppoli, Occhiuto, di cui avrete già l’indirizzo. Avvertite le loro famiglie che stanno bene. L’unica sofferenza è il non avere vostre notizie, mentre molte cose vorrei sapere e, particolari, di ciascuno. La vostra salute, se vi riguardate dai bombardamenti, esami di Kemar (ditegli che anche io sono fiero di lui per i risultati dei suoi primi esami, preparati e dati nelle condizioni nelle quali egli li ha fatti), esami di Nadir, notizie di Elmyr e di Yorick (come va ora che è procuratore – se la tesi è stata liquidata) e tutto insomma. Per me – vi prego – non dovete avere preoccupazioni. Sono sereno e il morale è alto: nè alcunchè potrà farmi cambiare questo mio stato d’animo. Sono beato di avere la tua fotografia, Mamma, e quella di Flora e di Roberto. Sono la mia buona compagnia e pregusto il momento in cui me le posso guardare e sorridere come se fossi tra voi. E quel po’ di amarezza che dovrei poi ingoiarmi, se la ingoia Morfeo, poichè mi prende il sonno. Fatemi avere vostre notizie: questo è il mio più vivo desiderio.
Credo che si possano mandare pacchi, ma ve lo sconsiglio. Abbracciate forte Livia per me quando le scrivete. Vi abbraccio infinite volte tutti e bacio Mamma e Roberto. Vostro rurik
P.S. Ho una piccola pipa che è per me fonte di consolazione. Saluti a maria.
18/11/44 (BOLZANO) <in realtà scritta il 16 novembre>
Adorata Mamma e carissimi, oggi 16 novembre. E’ la seconda volta che vi scrivo. Penso sempre a voi e vi sento vicini. Di salute sto bene e il morale è alto. Vorrei sapere di tutti voi come state. Sono spiacente di non avere vostre notizie: vorrei conoscere i particolari di ciascuno di voi. Che Mamma si riguardi, ora che è inverno, quando attraverso quella Piazza del Popolo, dove soffia quasi sempre un gran vento:,
e così riguardate Roberto; copritelo bene. Ma riguardatevi tutti; scusate se ve lo dico. E’ una mia idea fissa; vorrei essere tra voi, per preservarvi anch’io un poco. Cosa potrei fare io, se non riscaldarmi un poco al vostro affetto; specie quando fa più freddo. Mamma tu sei tanto brava e coraggiosa, che non ho bisogno di dirti di aver fiducia, che i tuoi figli torneranno in buona salute a riabbracciarti. Raccomando a te e a tutti i fratelli Flora: che cerchi di farsi trovare da noi in buone condizioni florida e bella, come io l’ho sempre vista in quelle fotografie che avevo con me da ragazzo e che mostravo fiero ai miei compagni. Yorick mio non darti gran pena: io sono adesso adesso come allora, senza un rammarico e resisterò. Penso molto a mamma e a tutti. Vorrei poter essere teco e stentare per quelle tre o quattro causette che ogni tanto ci capitavano. Kemar e Nadir, forza! Stelio, scommetto che ti avranno dato l’incarico di anatomia. Penso molto a voi. Abbraccio forte tutti e bacio a lungo Mamma e Roberto.
Vostro Rurik.
Ma mi ero dimenticato di poter scrivere ancora qui. Ma non ho molte cose da dirvi: la mia vita si svolge abbastanza grigiamente. Solo vi ripeto il mio affetto e il mio pensiero: la mia raccomandazione di non preoccuparvi per me e di riguardarvi. Scrivete a Livia che l’abbraccio e che abbia fede: salutate la famiglia del sig.Juan e Genie cara. Vi abbraccio ancora
18/11/44 (BOLZANO).
Mamma adorata, è già passato un mese e cinque giorni dal mio arrivo quaggiù. Spero che a quest’ora avrete già ricevuto mie notizie. Ho tentato di farvele giungere con ogni mezzo. La mia salute è buona: il morale alto. Penso molto a voi, specie ora che non ho nulla da fare e ho fiducia di rivedervi presto. Vi prego di riguardarvi, perchè desidero trovarvi in buona salute tutti, ma specialmente Mamma e Flora, che da questa nostra situazione sono state particolarmente tartassate e sconvolte. Per me non abbiate nessuna preoccupazione; sapete che me al so cavare e che ho la ghirba dura e resistente. Ho avuto la ventura di conoscere qui una brava compagna che mi da il pane e qualche pio’ di minestra e tutto il resto che può darmi attraverso il diaframma che ci separa e che voi conoscete. Si chiama Gianna Mazzucco da Longarone (Belluno). Se dovessi tardare per qualche motivo a rientrare alla base rivolgetevi a lei per le mie ulteriori notizie. Le voglio bene. La mia vita ora è abbastanza tranquilla e monotona: qualche raro momento leggo e studio, ma la precarietà di ogni nuova situazione mi distoglie da ogni persistenza in simili ozi.
Penso a ciacuno di voi e vorrei avere notizie particolari di ognuno: è più di un mese che non so nulla, poichè non ho ancora ricevuto posta vostra. Ma “i veci sempre corajo”. Mi pare a volte di udirlo e mi passerei le mani nei capelli, se ne avessi. Mario Massari, il marito di quella gentile signora Piera, che Flora è andata a trovare, è con me e ci facciamo buona compagnia. Salutate se potete anche la famiglia di Zoppoli e rassicurate sul conto della salute di entrambi.
Salutate i conoscenti e gli amici, in primo luogo la famiglia del signor Juan e cogliete l’occasione per dare un bacio a genie da parte mia col permesso di Kemar. A Janine ho mandato gli auguri per la sua festa (4 novembre) ma dubito che siano giunti: comunque riferite gli auguri postumi e ancora grazie per la preziosa medaglietta. Ho mandato anche gli auguri di felicità per Kemar e Roberto, ma questi dovrebbero essere giunti, poichè li ho ripetuti varie volte. Salutate Pina Fiorentino da parte mia e ditele che andrò presto a trovarla. Ricordo ancora una volta i versi di Puskin:
“Su, compagni, resistere e aspettare:
far d’ogni pena una potenza nuova
e dove non giunge la materia
alzare l’anima in sogni.
E quel che pertinacemente aneli
in terra e in mare, domandare ai cieli.”
Altro non vi dico per oggi, se non il mio affetto grandissimo, il mio pensiero e il mio desiderio di riabbracciarvi. Kemar e nadir hanno altri esami? Flora ha da fare molto? Stelio ha avuto l’incarico di anatomia? Sono numerose le domande che vi vorrei fare, ma la risposta è affidata allo spazio e al tempo che sono due categorie dell’intelletto: e nutro poca fiducia in loro. Vi abbraccio tutti più volte e bacio a lungo Mamma e Roberto. Tuo Rurik
P.S. Salutate Maria
29/12/44 (BOLZANO).
Mamma adorata, oggi 29 dicembre, troppo tardi perchè il mio augurio di un anno felice per tutti vi giunga in tempo per il primo del ’45. Ma sempre in tempo per spiegare la sua efficacia. Quest’anno, un giorno qualunque, saremo certo tutti riuniti e quel giorno sarà la festa della nostra famiglia, il nostro Natale, la nostra Pasqua, il primo giorno di un anno che conteremo per conto nostro. Il 24 e il 25 dicembre sono state giornate come tutte le altre: qualche folata di ricordi, folate sciroccose e tiepide, altre piuttosto gelide come la tramontana, ma serenanti come la medesima. La salute è buona, davvero non mi posso lamentare. Ed ora poi che di tanto in tanto ricevo vostre notizie, non sono turbato nemmeno dalle fuggevoli melanconie di quando ero ancora in attesa. Il morale è alto come sempre. Non abbiate preoccupazioni per me, perchè sapete che sono di buona lega. Dolce Mammina ho un acuto desiderio di riabbracciarti e di riabbracciare Flora e Roberto, di rivedervi tutti e di parlare a lungo con voi. Dirò a Roberto allora di fare il giochetto di prestigio di farmi scomparire da questi ultimi anni le cose dolorose e tristi, lasciando solo le liete: Basterà che egli dica “apù” come prima, perchè riesca l’incantamento. La notizia del fidanzamento di genie con Kemar mi ha un poco commosso: deve essere stato buffo a vedermi, con quella faccia da lupo di mare, strizzare gli occhi umidi di gioia. Perchè è andata così. Mi ha sorpreso per un attimo l’ansia struggente di quella giornata perduta, di quell’abbraccio con cui avrei stretto ad un tempo Genie e Kemar, nonostante le rispettabili dimensioni. Dite a Piera Massari che Mario è con me e sta bene come le ha scritto. Dite che anch’io la saluto cordialmente. Salutate molto caramente il signor Juan, Elsie e il matricolino. Quando scrivete a Elmyr senza dirgli nulla, abbracciatelo forte per me. Abbraciate Livia per conto mio. Molti teneri baci a te Mammola e Roberto e un forte abbraccio a Flora, Yorick, Kemar, Nadir, Stelio e Genie.
Rurik
01 gennaio 1945 (BOLZANO).
Adorata Mamma,
Ti ho scritto recentemente per via ordinaria, in occasione della festa di Natale. Si inizia il nuovo anno ed io sono forzatamente lontano: lontano per modo di dire, perché mi sembra di essere con te e con voi tutti e di abbracciarvi e di augurarvi un anno felice. Quest’anno sarà certo così per noi: ho la certezza che ci rivedremo presto per poter dimenticare nell’abbraccio l’affanno di una lunga attesa e riprendere insieme, finchè sarà possibile, il cammino. Strano destino che ci ha centrifugato da tredici anni a questa parte in scuole, collegi lontani, terre straniere, prigioni, campi di concentramento. Senza sortire altro esito se non quello di rinsaldare il nostro affetto. Questo pensiero mi rende tollerabile anche questa lontananza ed ogni altra che la vita mi riservi. Alcuni giorni prima di Natale ho ricevuto vostre notizie in data ultimi di novembre. La notizia del fidanzamento di Genie e Kemar mi ha commosso, un poco. Letizia, comprendete, ma anche rimpianto acuto d’un giorno per il quale più penosa diventa l’assenza. Ho visto tutti i vostri volti, sui quali la luce discreta delle lampade rifletteva calma beata. Ogni ora perduta di intimità familiare svuota un poco l’anima e intorbida i pensieri di amaro. comunque, letizia: comunicatela a Genie e Kemar, dite loro che li abbraccio.
Il fisico dei “veci alpini” regge bene. Per ora non lavoro. Morale alto come sempre. Il vitto è sufficiente, soprattuto grazie agli aiuti di una fanciulla che tu, Mamma, già conosci. E’ una fanciulla che è entratat nella mia vita, ora che meno me l’aspettavo e alla quale mi sento molto legato. Gianna si chiama (I). E’ buona e gentile con me. Io le sono grato per l’aiuto materiale e per il conforto morale. E’ una personcina semplice e anche graziosa: insomma la conoscerete abbastanza presto, credo.
Sono, come sempre, in attesa di vostre notizie: particolari di ognuno, progressi di Roberto, salute di mammina e di Flora e tutto insomma. Ogni cosa più insignificante che mi scrivete è per me motivo di soddisfazione. Ora vi abbraccio forte tuti e bacio molte volte a lungo Mamma e Roberto. Cari saluti al signor Juan e a Elsie e alla matricolina. Rurik
Questa è l’ultima lettera ricevuta da Rurik. Nella successiva c’è una lettera inviata a mia nonna da Gianna nell’agosto del 1945. Stranamente nessuno dei miei zii (e nemmeno mia nonna) volle in alcun modo, dopo quell’ultima comunicazione, mantenere i rapporti con la signorina Gianna (che probabilmente lo avrebbe meritato, anche solo per quegli ultimi giorni con Rurik). In quest’ultima lettera c’erano, poi non dattiloscritte nelle lettere ufficiali, anche poche righe scritte dalla signorina Gianna, che riporto integralmente:
Rurik ha esagerato sul mio conto, dicendo di me troppe parole belle. Vorrei veramente poterlo aiutare, ma è tanto poco quello che posso fare per lui. Comunque state tranquilla che io in quel che posso gli sono e gli sarò vicina, poichè vostro figlio, oltre che essermi caro, lo stimo molto, più di qualsiasi persona incontrata prima d’ora. A voi che siete la sua Mamma, con la speranza di avere il bene di conoscervi un giorno porgo i miei più affettuosi saluti.
Gianna Mazzucco
I) si tratta di Gianna Mazzucco da Longarone, già citata nella lettera precedente.
1) si tratta della prima lettera ufficiale, per così dire; le due (o tre) precedenti furono spedite fuori dal campo.
Marco Capurro
Ho mantenuto le notazioni esplicative delle lettere originali, credo aggiunte dal colonnello Efisio Simbula, consegnate dattiloscritte a mia nonna, la marchesa Immacolata Doyno in Spolidoro, dopo la sua proposta di assegnazione della medaglia d’oro a Rurik (conservo anche gli originali di mio zio, scritti su brandelli di carta di vario genere e di varia provenienza) […]

[…] Ada Buffalini (sic)? Era la mia vicina di cella a Bolzano! Stava proprio nella cella accanto alla mia. Ci tenevamo sempre in contatto. Con tre colpetti sul muro che separava le nostre celle ci dicevamo di andare verso la bocca da lupo, in fondo al castello, il più lontano possibile dalla porta. E così lì potevamo parlare un po’.
Lei conosceva la dottoressa già prima di arrivare nel campo?
No, no, al campo l’ho conosciuta. La dottoressa, nel campo, stava nell’ambulatorio. Si passava da lei quando avevamo dei biglietti da mandare fuori. Lei era in contatto con tutta la rete di quelli che stavano fuori.
Conosceva tutti, sapeva a chi rivolgersi, per mandar fuori tutte le lettere.
Era il collegamento con la Resistenza, con il CLN. Deve essere stata tradita da qualcuno, e difatti poi è finita in cella. Non so esattamente come è successo; ma certo c’erano degli infiltrati in questa associazione di resistenza clandestina. Io portavo i biglietti nascosti nella manica, e lei li faceva avere a chi di dovere.
Come ha fatto lei a sapere che la dottoressa era così collegata con l’esterno?
In campo si sa tutto, c’è “radio scarpa”. Si conoscono le persone, si sanno i movimenti. E lei era dell’organizzazione clandestina antifascista, che era tutta coordinata. Sapeva a chi rivolgersi. So che c’era uno della falegnameria, un altro in un altro blocco… Lei sapeva a chi rivolgersi, conosceva tutti. E però aveva anche paura degli infiltrati. E aveva ragione, e infatti poi è finita in cella, proprio vicina alla mia. Una volta, parlando così, da una cella all’altra, abbiamo ricostruito insieme la poesia del Giusti, quella che dice “m’era compagno il figlio giovinetto di quel tal Sandro autor di un romanzetto”. Un po’ lei, un po’ io, ci siano ricordate i versi e abbiamo ricostruito tutta questa poesia.
Poi un’altra cosa, quando sentivamo arrivare nelle celle i due energumeni ucraini che entravano nelle celle di punizione a uccidere qualcuno, quando sentivamo il loro passo nel corridoio, io battevo piano tre colpetti al muro, e lei mi rispondeva con altri tre colpetti, e così ci dicevamo che tutte e due avevamo sentito tutto quanto. Comunicavamo così, ci tenevamo informate.
Loro entravano e mi guardavano… io l’ho saputo dopo, perché io ero stata torturata a sangue al Corpo d’Armata di Bolzano. E mi avevano messo nella cella della morte. Una mia amica di Trichiana, che era coi partigiani, era venuta a sapere che il vescovo di Belluno doveva venire a dir messa a Bolzano. Allora lei è andata subito dal vescovo a dirgli che io non risultavo più da nessuna parte, e a sollecitarlo a chiedere ai tedeschi che cosa ne avevano fatto di me. Questi hanno preso paura. E hanno detto: se un’alta autorità ecclesiastica si interessa a questa ragazza, noi non possiamo più ucciderla. E così mi hanno riportato alle celle del campo. E sono rimasta là fino all’ultimo giorno di guerra […]
INTERVISTA TELEFONICA A ITALA TEA PALMAN, 11 FEBBRAIO 2006, in Ada Buffulini, Quel tempo terribile e magnifico. Lettere clandestine da San Vittore e dal lager di Bolzano e altri scritti (a cura di Dario Venegoni, prefazione di Tiziana Valpiana), Mimesis, 2015, su ANED

Appunto per il Colonnello Kappler presso la Direzione Generale di Polizia
Data:
14-10-1944
Ente intestario:
Repubblica Sociale Italiana. Ministero dell’Interno. Direzione Generale di P.S. Divisione A.G.R.
Autore:
Firma illeggibile
Qualifica:
Senza qualifica
Contenuto:
Si fa presente che la maggior parte dei campi di concentramento in cui si trovano internati i sudditi di stati nemici, erano situati nell’Italia ora occupata.
Dei pochi rimasti nel territorio non invaso, nel luglio scorso venne soppresso a seguito della richiesta delle autorità germaniche, quello di Fossoli di Carpi, mentre quelli di Scipione di Salsomaggiore, Celle Ligure, Vallecrosia, San Martino di Rosignano (Monferrato), sono stati successivamente soppressi perché non offrivano sufficienti garanzie di sicurezza ed i sudditi di Stati nemici sono stati prelevati e trasferiti in campi di concentramento germanici.
Luoghi citati:
Fossoli – Campo di concentramento RSI
Scipione – Campo di concentramento RSI
Celle Ligure – Campo di concentramento RSI
Vallecrosia – Campo di concentramento RSI
San Martino di Rosignano – Campo di concentramento RSI
documento riprodotto in I campi fascisti