Per comprendere più a fondo il problema dell’esilio antifascista in Francia e i suoi esiti al volgere del conflitto

Se non è questa la sede per affrontare il discorso sulla partecipazione italiana alla Resistenza francese, tuttavia vale la pena accennare ad alcune rilevanze storiografiche per comprendere più a fondo il problema dell’esilio antifascista e i suoi esiti al volgere del conflitto. L’impegno italiano nella Résistance ha implicato infatti significati differenti non soltanto dal punto di vista politico, ma anche secondo il livello di integrazione nella società francese e, in una prospettiva di più lungo termine, di identificazione nazionale verso la patria d’origine o di adozione.
Come ha notato Gianni Perona nei primi anni Novanta, gli storici italiani e francesi non hanno ancora raggiunto una consapevolezza critica dell’argomento, al di là di una produzione fortemente politicizzata, una bibliografia costituita di memorie, fonti scritte e orali dei diretti protagonisti che parteciparono alla lotta armata, dominata da tendenze comuniste. Del resto per motivi concreti, la sola documentazione organica sull’organizzazione resistenziale pervenutaci è proprio quella prodotta dal partito comunista italiano in esilio, strutturato nelle formazioni dei Franc-tireurs della Moi, oppure la stampa clandestina bilingue di propaganda <85.
Dal punto di vista organizzativo, la partecipazione italiana alla Resistenza francese fu un fenomeno multiforme, che si delineò in periodi differenti a seconda dell’evoluzione della guerra e della geografia dell’occupazione nazifascista della Francia. Pia Carena Leonetti nel suo celebre “Les italiens dans le maquis” e Gaston Laroche, alla metà degli anni Sessanta, censirono i caduti stranieri che contribuirono alla liberazione della Francia, fornendo informazioni essenziali per classificare le diverse tipologie di impegno nella Resistenza agli storici contemporanei della Resistenza immigrata, come Denis Peschanski, Jean-Marie Guillon o Stéphane Courtois <86. All’indomani della presa di Parigi numerosi militanti antifascisti, che già si erano dati alla clandestinità dopo le misure adottate contro gli “étrangers indésirables”, entrarono in stretti rapporti con i leader dei primi focolai di resistenza francesi, con i quali del resto avevano collaborato negli anni precedenti. Con la nascita delle formazioni dei Francs-Tireurs alla fine del ’41, per iniziativa del Pcf di Jean Duclos, si sarebbero inseriti, come vedremo, nei gruppi Ftp-Moi in cui sarebbero stati inquadrati gli immigrati, e nei maquis, al fianco dei francesi <87.
In generale nel corso della “strana guerra”, i comunisti italiani avevano seguito la politica disfattista dei compagni francesi, in assenza di un organo centrale operativo dopo lo scioglimento dell’Ufficio estero. L’antifascismo democratico si proponeva invece di partecipare attivamente alla lotta contro il nazifascismo, consapevole del tentennare di un’indolente classe politica che aveva voluto e conduceva la guerra. Di fatto però, l’iniziativa di socialisti, repubblicani e giellisti si limitò a riproporre una formazione militare nazionale all’interno dell’esercito francese, esperimento superato e inattuabile in un contesto bellico di scala mondiale. Si stavano infatti disperdendo i nuclei dell’emigrazione politica, e militanti e simpatizzanti seguivano le sorti più diverse in fasi asincrone e incostanti.
Se i dirigenti furono in parte arrestati o consegnati alle autorità italiane, altri rientrarono clandestinamente in Italia per avviare un’azione cospirativa. Come chiarì già all’epoca Garosci, non si verificò mai un ritorno di massa degli esuli, ma i rientri furono individuali e avvennero sia prima sia dopo l’avvento del governo Badoglio <88.
Gli esuli avevano perpetuato consuetudini e valori che in Italia erano scemati, mentre ne avevano rinnovati altri alla luce delle esperienze politiche maturate sotto il regime democratico francese. Tornando in patria arricchivano allora il patrimonio culturale, sociale e ideologico del Paese, e insieme agli uomini usciti dalle carceri fasciste fornivano i nuovi quadri ai partiti in via di ricostruzione. La militanza e la propaganda non furono interrotte, e confluirono spontaneamente nell’azione clandestina impiantata o comunque rafforzata dal loro rientro. Si facevano forza dei pur flebili contatti che avevano mantenuto con i compatrioti e che erano stati intensificati con l’avvicinarsi della guerra <89. I comunisti in particolare avevano mantenuto un collegamento operativo e una continuità ideale con le cellule afferenti al Centro interno, affini alle organizzazioni estere per impianto politico e funzionale; per questi gruppi fu piuttosto agevole inserire i nuovi elementi provenienti dall’estero sulla struttura esistente. Varcando la frontiera Emilia Belviso, Bianca Diodati, Teresa Viberti e Anna Michelangeli passarono dalle file del Pcf a quelle del Pcd’I, inoltre dal movimento femminile internazionale ai Gruppi di Difesa della Donna e poi all’Unione Donne Italiane. Il rapporto di amicizia, solidarietà e intima complicità che la Michelangeli intessé a Parigi prima e in Liguria poi con la più matura Viberti illumina i legami profondi che il partito comunista aveva saputo creare fra le diverse generazioni militanti: l’esperienza dell’esilio aveva rappresentato per il Pcd’I l’occasione di mantenere saldo il contatto con le masse, senza perdere di vista il ruolo centrale che questo avrebbe rivestito nella riuscita della lotta antifascista <90.
Secondo Garosci, nelle file socialiste l’operazione di amalgama tra fuorusciti e italiani in patria fu infatti più complessa, dal momento che ben pochi avevano militato politicamente sotto il regime. Mancavano i quadri intermedi, una generazione di mezzo consapevole che legasse i giovani inesperti risvegliati dallo scoppio della guerra con i quadri più attivi che tornavano dalla Francia <91.
Con la caduta di Mussolini, soldati italiani sbandati delle armate d’occupazione raggiunsero anch’essi le formazioni partigiane in Francia, per non essere catturati dai tedeschi, similmente a quanto accadde in Italia all’indomani dell’8 settembre. Ex legionari spagnoli e immigrati si ingaggiarono poi nella Légion étrangère e combatterono contro l’esercito tedesco sulle coste dell’Atlantico. Perona ci ricorda che storia e memoria hanno reso celebre la collaborazione fra maquis del Nizzardo e partigiani giellisti piemontesi capeggiati da Dante Livio Bianco o, sulla costa, con i garibaldini imperiesi di Felice Cascione <92.
L’arruolamento effettivo nella legione straniera da parte degli antifascisti non fu così vasto come le dichiarazioni dell’anteguerra avevano fatto sperare, come accennato più sopra. I combattimenti di Spagna, nel contesto internazionalista delle Brigate Garibaldi, e la nuova dimensione nazionalista francese che manifestava ostilità verso gli italiani, cittadini di uno Stato nemico, e verso i comunisti, i più attivi tra gli antifascisti, “bolscevichi rivoluzionari”, avevano creato un clima di diffidenza. Si rendeva allora omaggio agli stranieri morti “per la Francia”, quando gli antifascisti avevano ormai allargato la propria lotta ad un orizzonte europeista: “A la déclaration de guerre de la France… l’antifascisme italien était prêt pour former les brigades Garibaldi et lorsqu’ils nous ont refusé, ils nous avaient… offert la Légion étrangère… nous, la Légion étrangère, on l’a pas voulu […] Nous, on était propre” <93.
L’azione armata partigiana divenne più intensa e organizzata nel momento in cui le truppe italiane invasero il dipartimento delle Alpi Marittime. I primi a mobilitarsi furono i giovani transalpini, che con una certa imprudenza organizzarono manifestazioni contro le istituzioni del governo del maresciallo Pétain, lasciando mano libera agli arresti e alla presa in ostaggio di preziosi militanti. Il Pcf organizzava un’azione più strutturata reclutando anche gli immigrati della Moi, le organizzazioni giovanili e le Jeunes Filles de France. Anche l’associazione dei Garibaldiens si mise in contatto con la cospirazione e collaborò con i comunisti italiani e francesi. Nella primavera del ’42 si procedeva a un’azione più offensiva, inquadrando gli immigrati in veri e propri corpi armati, i Francs-Tireurs-Partisans della Moi, sorti in aprile come sezione italiana dei Ftp francesi. Si poté procedere a operazioni di sabotaggio e ad attacchi mirati a depositi e convogli nemici, mentre si ripercorrevano le reti dei legami antifascisti per creare i collegamenti del movimento clandestino, avvicinando vecchi militanti che ben conoscevano il terreno su cui si svolgeva la guerriglia urbana <94. Il notevole contributo italiano alla Resistenza nizzarda non fugò, tuttavia, i sentimenti antitaliani maturati nel corso del Ventennio in un dipartimento di frontiera, continuamente minacciato dalle velleità espansionistiche e dalle arroganze irredentiste del regime. Opinioni xenofobe avevano da sempre attraversato questo territorio di immigrazione, tradizionalmente conservatore e ostile ai transalpini, sui quali pesavano antichi pregiudizi di malcostume. Pertanto all’indomani della liberazione, l’opinione pubblica domandò un’immediata epurazione, che fu attuata senza esitazioni, al punto che il Comitato di liberazione locale dovette rivolgersi al governo Bonomi per domandare l’invio di emissari a tutelare la colonia italiana delle Alpi Marittime. Le campagne xenofobe continuarono ad essere appoggiate dalla stampa locale e furono rinfocolate dalle questioni di Briga e Tenda, che rimanevano ancora nelle mani del governo italiano. E mentre i politici antifascisti si battevano per difendere i diritti di chi aveva saputo scegliere e schierarsi, dall’altra parte la massa dei transalpini si mostrava indifferente, impegnata a mantenere una posizione giuridica regolare e a garantirsi il soggiorno in Francia, facendo propria l’ottica assimilazionista dello Stato francese <95.
[NOTE]

  1. Gianni Perona, «Les Italiens dans la Résistance française», in Exils et migrations cit., pp. 630-631.
  2. Pia Carena Leonetti, Les Italiens dans le maquis, Del Duca, Paris 1968; Gaston Laroche, On les nommait des étrangers… (les immigrés dans la Résistance), Les Editéurs Français Réunis, Paris 1965.
  3. Cfr. Charles Tillon, Les F.T.P. soldats sans uniforme, Editions Ouest-France, Rennes 1991.
  4. Cfr. Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 204, 232-233.
  5. Ibidem, pp. 231-233.
  6. Cpc: b. 478, f. Emilia Belviso. Interviste ad Anna Michelangeli, Martine Martini e Alessandra Grillo cit. Intervista a Bianca Diodati cit.
  7. Cfr. Garosci, Storia dei fuoriusciti cit., p. 233.
  8. Perona, «Les italiens dans la Résistance» cit., pp. 642-644.
  9. “Alla dichiarazione di guerra della Francia… l’antifascismo italiano era pronto per formare le brigate Garibaldi e nel momento in cui ce l’hanno rifiutato, ci hanno… offerto la Legione straniera… noi, la Legione straniera, non l’abbiamo voluta […] Noi, eravamo nostri”. Citazione di Vincenzo Tonelli in Foutrier, 1940-1943… cit., p. 70.
  10. Blanc-Chaléard, Les Italiens dans l’Est parisien cit., pp. 527-533.
  11. Cfr. Tombaccini, «Gli antifascisti nelle Alpes-Maritimes» cit., p. 294.
    Emanuela Miniati, La Migrazione Antifascista dalla Liguria alla Francia tra le due guerre. Famiglie e soggettività attraverso le fonti private, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Genova in cotutela con Université Paris X Ouest Nanterre-La Défense, Anno accademico 2014-2015