Stragi compiute in Veneto dai nazisti in ritirata

Alla vigilia della Liberazione, nella serata del 28 aprile 1945, il gruppo di partigiani territoriali della zona di Torrebelvicino e Pievebelvicino si preparò all’attacco finale. Gaetano Arturo Sandri, Giovanni Pavin e altri si portarono in contrada Piani dove avevano precedentemente occultato armi e munizioni. Individuati dalle vedette tedesche appostate sul monte Castello, vennero attaccati da militari tedeschi provenienti da due direzioni. Partigiani e patrioti allora tentarono di disperdersi, essendo stati sorpresi ancora non completamente armati. Sandri e Pavin cercarono riparo in casa di Antonio Calli, ma vennero uccisi insieme al padrone di casa dal tiro incrociato dei militari tedeschi.
Poche ore prima Angelo Dalle Nogare, operaio tessile al Lanificio Rossi di Schio, rientrava a Torrebelvicino in bicicletta. Dopo la riva del Cristo, un gruppo di soldati tedeschi a bordo strada gli intimò di fermarsi, ma l’uomo ignorò l’ordine. Colpito all’addome da un proiettile di fucile sparato da un soldato tedesco, cadde a terra ferito. Ricoverato presso l’ospedale di Schio nel reparto di Chirurgia, morì alle ore 13 del 3 maggio 1945.
Domenica 29 aprile 1945 in località Valdelle si scatenò un violento scontro tra partigiani e tedeschi. Questi ultimi, dotati di carro armato, spararono un colpo di granata contro l’osteria Al Bersagliere, uccidendo l’anziano gestore Damiano Chioccarello.
Piero Casentini, Episodio di Torrebelvicino 29-4-1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Memoriale ai Caduti della strage di Cacciatora, Castello di Godego (TV) – Fonte: Pietre della Memoria

[…] Una colonna corazzata tedesca che si ritirava lungo l’asse Padova-Cittadella, puntò verso Bassano (VI) per inoltrarsi nella Valsugana.
A Santa Giustina in Colle – paese occupato dai partigiani della Brigata ‘Damiano Chiesa’ – i nazisti passarono per le armi 24 uomini e il parroco.
Il 29 aprile uccisero un centinaio di abitanti dei paesi padovani di San Giorgio in Bosco, Santa Anna Morosina, Villa del Conte e San Martino di Lupari, 76 dei quali furono massacrati in provincia di Treviso, in Via Cacciatora a Castello di Godego; tra questi ultimi c’era anche il partigiano locale Primo Scappin.
A Castello di Godego si registrarono inoltre le vittime elencate nella presente scheda.
Il 29 aprile Venerio Cimador e Aurelio Fantasia caddero combattendo contro un reparto tedesco che si era trincerato nelle case Bolzon; Luigi Santi, morì nel tentativo di rallentare la ritirata germanica.
Il 30 aprile, Emilio Silvestri fu abbattuto sulla soglia di casa sua, in Via Sant’Antonio, nel corso di un rastrellamento.
Germano Fogale, Giuseppe Lanzarini e Arsenio Zordan, i quali con altri compagni di lotta stavano sostenendo l’incursione di una formazione nazista, persero la vita colpiti in pieno dall’esplosione di un proiettile di panzerfaust. […]
Federico Maistrello, Episodio di Castello di Godego, 29/30.4.1945, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia

Bronzo commemorativo dei martiri di Castello di Godego – Fonte: Comune di Castello di Godego (TV)
Memoriale ai Caduti della strage di Cacciatora, Castello di Godego (TV) – Fonte: Pietre della Memoria

[…] la strage di innocenti perpetrata in località Cazzadora dalle truppe tedesche in ritirata: era il 25 aprile 1945. Una stele commemorativa, posta ai margini delle strade di Bassano, ricorda quest’efferato episodio di criminalità bestiale: sul marmo sono incisi i nomi di 75 persone delle più disparate età, barbaramente uccise sul ciglio della strada dopo un drammatico trasferimento effettuato interamente di corsa e durato, nove lughe ed interminabili ore. I martiri erano stati rastrellati nei paesi di S. Anna Morosina, Abbazia Pisani, Lovari e S. Martino di Lupari. Alle 15.30 di quel 29 Aprile, la colonna si fermò sulla strada per Bassano (attuale via Chioggia), in località Cazzadora. Stremati dalla fatica, disperati per l’imminente, irrevocabile e tragico destino, i prigionieri furono chiamati a gruppi di 15 e quindi immediatamente fucilati. Alla fine della strage, scrive il Corletto, i tedeschi “urlando come forsennati, squarciarono il cranio alle vittime con il calcio del fucile o sparando pallottole esplosive”. Alla vigilia della Liberazione, s’era così compiuta un’orrenda carneficina, prezzo insopportabile pagato alla barbarie del nazifascismo, ma ancora assetato di vendetta e di sangue.
Redazione, Cenni storici – ultima parte, Comune di Castello di Godego

Memoriale ai Caduti della strage di Cacciatora, Castello di Godego (TV) – Fonte: Pietre della Memoria

Le Cronistorie dei parroci e i Diari storici delle formazioni partigiane, costituendo fonti ben distinte tra loro soprattutto per quanto concerne l’estrazione dei redattori, sanno fornire, seppur da punti di osservazione sul reale molto diversi, alcuni spunti per rispondere a tali quesiti. Sebbene si tratti di documentazione fino ad oggi utilizzata soprattutto per ricostruire le dinamiche esatte di fatti puntuali e specici avvenuti nei mesi dell’occupazione, essa si presta ad offrire strumenti per ragionare su aspetti estremamente delicati, soprattutto se le informazioni raccolte vengono lette in maniera sinottica. Se i Diari permettono infatti di entrare nel dettaglio delle singole operazioni e di restituire lo sguardo strategico con cui i comandanti di formazione leggevano il territorio in base allo spostamento dei reparti occupanti e collaborazionisti, le Cronistorie ci danno l’opportunità di indagare in che termini venne recepita e interpretata la violenza esercitata da parte partigiana o tedesca, in una pluralità di voci in grado di restituire la complessità del quadro. Se molti dei Diari, in apertura, sentono l’esigenza di condannare le esecrazioni compiute dal regime, non accade lo stesso nelle Cronistorie, che percepiscono l’8 settembre del 1943 come unico elemento di frattura rispetto al normale andamento delle cose: emergono così discontinuità radicali nel modo in cui i partigiani e una parte dei civili si rapportavano interpretativamente con il Ventennio che stava volgendo al termine. Entrambe le fonti consentono inoltre di entrare con estrema precisione nel racconto delle giornate dell’insurrezione generale, percepita in maniera univoca come evento cruciale e periodizzante. La registrazione degli eventi sulla base di sensazioni e percezioni così diverse tra loro pone dunque l’indagine storiografica davanti all’occasione di comprendere la molteplicità delle dinamiche scaturite da quella serie repentina di accadimenti, analizzando le ricadute che esse ebbero nello strutturare la delicata fase di transizione inaugurata tra l’aprile e il maggio del 1945.
Se a lungo infatti il “25 aprile” è stato percepito in ambito storiografico e dal senso comune come una “data di chiusura”, recentemente proprio le stesse fonti hanno reso necessaria una riflessione sui delicati passaggi che portarono la società e le forze politiche da una condizione di guerra, in parte anche civile, ad un percorso di ricostruzione dell’ordinamento politico e statuale <6.
Questo articolo si propone dunque di introdurre il lettore ai significati e alla valorizzazione delle fonti alle quali l’Istresco sta dedicando particolare attenzione, arrivando così ad ampliare gli studi che tradizionalmente accompagnano le sue ricerche dedite in particolar modo alla storia sociale del territorio.
Nonostante la grande ricchezza di dati e informazioni in essi meticolosamente appuntati e trascritti, i diari storici delle formazioni partigiane del Trevigiano hanno nel corso dei decenni affrontato una vicenda storiografica segnata da una marcata dimensione subalterna. Oggetto di immediato investimento editoriale, soprattutto da parte delle associazioni partigiane, nei primi decenni del dopoguerra <7, essi finirono nel giro di pochi anni per cedere il passo al sempre crescente interesse suscitato tra gli studiosi e l’opinione pubblica dagli scritti autobiografici redatti dai protagonisti della vicenda resistenziale, dando corso a nuovi e fortunati filoni di studio e di ricerca <8. I diari storici dunque, connotati spesso dalla stesura spigolosa e schematica tipica dei resoconti di taglio militare, non si sono prestati ad operazioni di carattere divulgativo e ad analisi critiche sistematiche, rimanendo frequentemente relegati nel ruolo di fonte complementare utile ad effettuare i raffronti necessari per ricostruire le vicende particolari dei territori coinvolti nelle operazioni di guerriglia.
[…] Un primo aspetto da tenere in considerazione nell’ambito dello studio di tali diari è rappresentato dalle modalità con cui essi vennero compilati. Nella maggior parte dei casi si tratta di documenti redatti nelle settimane successive alla Liberazione, quando i Cln regionali e provinciali diedero disposizione ai comandi delle formazioni da poco disciolte di redigere accurate relazioni sull’operato svolto nel periodo della lotta clandestina. Nonostante il lasso di tempo apparentemente breve che divideva i fatti accaduti dal momento in cui essi vennero registrati, i comandi si trovarono davanti a problemi di non secondaria importanza nella costruzione di questi resoconti: il tempo trascorso era stato segnato dalla clandestinità, dalla lotta armata, dalla perdita di numerosi compagni, dal sovrapporsi di emozioni e conflitti che ne avevano dilatato e distorto la percezione.
Tali criticità emergono talvolta anche dalle brevi introduzioni che precedono la cronaca dei fatti, come nel caso della Brigata “Italia Libera” – nel cui Diario viene specificato che la stesura degli avvenimenti era frutto di un’«inchiesta» <10 esperita tra i componenti della formazione – o della relazione della Compagnia autonoma “Ceccato”, che si apre con un importante chiarimento:
“La compagnia autonoma “Ceccato” è nata da una lunga preparazione costituita da una ricca sequela di fatti positivi e negativi, per cui non consente di rappresentarla con un certo e preciso ordine cronologico, causa la mancanza di un diario e perché gli appunti sono andati perduti e distrutti in seguito ai vari rastrellamenti subiti” <11.
La concretezza dei problemi connessi alla ricostruzione puntuale dei fatti pone dunque, anche nei casi in cui tali diari vennero realizzati durante il periodo clandestino <12, la necessità di considerare questi materiali come passibili di numerosi errori e omissioni nella registrazione di indicazioni precise quali date o numeri coinvolti nelle singole operazioni citate, rendendo obbligato il ricorso alla comparazione con altre fonti nate con l’analogo scopo di registrare e/o ricostruire eventi, quali appunto le Cronistorie, i diari redatti dai singoli combattenti o i processi svoltisi nel dopoguerra sia a carico dei collaborazionisti che dei partigiani.
Altro aspetto da non sottovalutare è poi la “coralità” di cui questi scritti sono frequentemente espressione <13.
[…] il diario della Brigata “Nuova Italia” ricorda che alla liberazione di Giavera parteciparono uomini sfiniti da una «dura marcia a piedi» <25, mentre quello della “Wladimiro Paoli” annota che la I Compagnia sarebbe arrivata a Vascon di Carbonera per le operazioni di liberazione «dopo una marcia di oltre sette ore, sotto la pioggia» <26. Alle fatiche fisiche si sommarono anche quelle di natura strettamente psicologica, dovute alla gestione degli ultimi arrivati, desiderosi di partecipare agli atti finali della lotta ma non avvezzi alle forme di auto-disciplina adottate dalle formazioni nei mesi precedenti, e al contenimento delle tensioni accumulate da uomini «impazzienti» <27 di entrare in azione <28, che richiesero in qualche caso l’adozione di forme di epurazione interna da parte delle stesse formazioni <29.
I diari operativi divengono dunque strumenti di studio estremamente utili nel tentativo di ricostruire gli spazi geograci, militari, sociali ma al contempo umani e relazionali nei quali l’esperienza partigiana tentò di costruirsi ed a?ffermarsi, conferendo spessore ad approcci storiografici che, soprattutto a livello locale, hanno spesso dato per scontato gli aspetti più concreti della lotta clandestina.
Cronistorie di guerra. Le relazioni dei parroci della diocesi di Treviso (1939-1945)
Il vero artefice delle Cronistorie fu mons. Costante Chimenton, alto prelato trevigiano, uomo di lettere e cultore di arte sacra, nonché vicario generale del vescovo Antonio Mantiero dal 1944 al 1952. In questa veste fu incaricato di seguire con impegno solerte tutti i parroci e i curati della diocesi – all’occorrenza anche i cappellani ed altri religiosi – perché redigessero una relazione sui fatti bellici occorsi all’interno delle 223 comunità nelle quali esercitavano il loro ministero pastorale <30. La prima richiesta formale fu pubblicata sul «Bollettino Ecclesiastico della Diocesi di Treviso» del giugno del 1945, rinviando ad un precedente preavviso e a presumibili contatti avvenuti all’interno delle congreghe o in altri contesti ecclesiastici <31. Nelle lettere di sollecitazione inviate da Chimenton si legge che il testo richiesto ai sacerdoti avrebbe dovuto assumere i caratteri di una «cronistoria particolareggiata» in cui narrare «peripezie; bombardamenti, rastrellamenti, fucilazioni, vicende, sequestri, fuga dei soldati, azione de’ patrioti [… e] che cosa ha fatto il clero in questo periodo a vantaggio degli sfollati, dei sinistrati, dei prigionieri, degli internati, di Treviso» <32.
[…] Come già evidenziato per i Diari partigiani, la natura formale di resoconto, spesso denso e schematico per la mole consistente di dati raccolti, non limita la capacità di fornire una rappresentazione articolata dei fatti che sa essere, al tempo stesso, sensibile alla soggettività dello scrivente e alle perturbazioni morali e materiali che interessarono la popolazione. Mantiero e Chimenton favorirono l’emergere della soggettività non imponendo ai sacerdoti un questionario rigido sul modello di quello proposto dalla congregazione concistoriale, come invece aveva deciso di fare mons. Agostini, vescovo di Padova.
I circa 200 documenti raccolti dalla fine del maggio 1945 all’aprile 1946 risultano dunque molto diversificati per lunghezza, strategia compositiva e approfondimento di aspetti particolari <34.
[…] Ciò conferma la centralità nella memoria degli esiti favorevoli alla causa antinazifascista caldeggiati, più o meno esplicitamente, dagli stessi sacerdoti, nonché la complessità di una data – quella del 25 aprile 1945 – che, pur essendo stata assunta a emblema di una svolta nazionale, non fu altrettanto signi‘cativa nel territorio diocesano, dal momento che l’insurrezione fi‘nale si compì con l’arrivo delle truppe anglo-americane solo agli inizi di maggio. Più relazioni, dunque, esordiscono con la formula «nulla di rilevante» in riferimento al 1940-43, sebbene vi si possa leggere in fi‘ligrana la guerra lontana che già gravava con i suoi lutti sulle famiglie delle parrocchie. Chimenton reagiva – e con ferma risolutezza – contro quella che reputava una inadempienza ingiusti‘cata, quando anche il tempo dell’occupazione nazista e della Repubblica sociale veniva sommariamente risolto in pochi episodi dagli esiti ritenuti di scarsa importanza per l’assenza di morti, ovvero di quelle lesioni sociali che non potevano essere taciute. I testi pervenuti al vicario si riempivano allora di sue fi‘tte annotazioni e domande al margine, cui facevano seguito lettere stupite che egli stesso inviava allo scrivente per capacitarsi su come nulla o quasi potesse essere accaduto in un tempo di cesura sociale e politica che pareva senza precedenti.
Leggerli nel loro insieme – si pensi che la loro pubblicazione richiede 1.500 pagine – conferma il giudizio del vicario: la guerra del 1943-45 si manifesta in tutta la pervasiva violenza agita dai nazifascisti. Si incontrano la paura, l’arbitrio e la profonda con“ittualità all’interno delle comunità, nonché le diff”use conseguenze materiali e morali che i sacerdoti descrivono alla luce dei loro compiti di assistenza morale e spirituale.
[…] Le relazioni acquistano il signifificato di autorappresentazioni della Chiesa locale e diocesana, impegnata ad assumersi il ruolo di incubatore delle risorse culturali e politiche che si imporranno nell’età repubblicana. I silenzi e le sottolineature contenutistiche dei parroci vanno almeno in parte riferiti alla loro consapevolezza che quei testi avrebbero potuto acquistare una visibilità pubblica nel tempo del dopoguerra. Se anche ciò non fosse accaduto, attestavano la continuità pastorale durante la difficile ricostruzione morale e materiale dell’intera Nazione, per la quale la Chiesa si candidava come un’istituzione di riferimento <39.
Spetta ai ricercatori che interpreteranno queste fonti riflettere su quelli che Egidio Ceccato, ad esempio, definì «depistaggi dei dirigenti della resistenza moderata e delle autorità civili e religiose» <40 in relazione alla cruenta strage nazifascista consumatasi il 29 aprile 1945 lungo 15 chilometri che uniscono l’Alta padovana all’area castellana. Episodio, questo, che segnò profondamente la memoria delle comunità dell’allora congregazione di Godego, tanto da far produrre cronache puntuali in special modo nella grande parrocchia di S. Martino di Lupari, il cui cappellano descrisse nel dettaglio le molteplici e raccapriccianti ferite che i tedeschi in ritirata infersero agli abitanti della zona. Il bisogno di dare un senso ad una violenza senza precedenti indusse l’autore a raccogliere le voci della gente, legittimando l’interpretazione fornita in seguito dallo storico; se con ciò intendesse realmente demonizzare gli occupanti stranieri, relativizzare il ruolo dei fascisti e lanciare sospetti su quello dei partigiani, sarà l’ulteriore comparazione di queste fonti a dirlo <41. Fonti che per la prima volta vengono proposte al pubblico in versione integrale, organizzate per congregazioni, e quindi non più isolate ciascuna nel proprio archivio parrocchiale, bensì riunite a quelle contermini nella versione finale che ogni autore scelse di inviare al vicario generale e, per suo tramite, al vescovo.
[NOTE]
6. A riconoscere la centralità del tema anche il recente convegno Il 1945 e la transizione dopoguerra, organizzato dall’Insmli (Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia) presso l’Università di Milano in occasione del settantesimo anniversario della Liberazione.
7. Per citare alcuni esempi cfr. Diario storico della 10ª Divisione Garibaldi “Italia”, a cura di Vincenzo Coppo, prefazione di Giuseppe Longo, Tipografia Botto-Alessio, Casale 1945; Diario storico della Divisione Garibaldi-Carnia, a cura dell’Ufficio Stampa e Propaganda di Tolmezzo, Stabilimento Grafico Carnia, Tolmezzo 1945; Diario storico della divisione Viganò. Gloria eterna agli eroi caduti per la libertà, a cura del Comitato di Liberazione Nazionale e del Corpo Volontari della Libertà, Tip. succ. Gazzotti e C. di G. Chiarvetto, Alessandria 1945; Giulio Guderzo, C.V.L. Comando divisione Valle Versa “Dario Barni”: diario storico, Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, Milano 1960; Brigata Giacomo Matteotti di montagna: diario delle principali operazioni di guerra. 1 maggio 1944 – 21 aprile 1945, a cura di Norberto Bobbio, Tip. L. Parma, Bologna 1964. Per le riedizioni più recenti cfr. Guerra di liberazione Friuli-Slovenia, 1943-1945: diario storico operativo della Divisione d’assalto Garibaldi Natisone, a cura del Comitato regionale Anpi Friuli-Venezia Giulia, Grafiche Missio, Udine 1980; Ettore Troilo, Diario storico della brigata Maiella (5 dicembre 1943 – 15 luglio 1945), «Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla Resistenza», VII (1986), n. 3, pp. 207-509; Brigata Garibaldi “F. Sabatucci” 5° battaglione “Bruno Contiero”. Diario storico, a cura dell’Anpi Provinciale di Padova e del Pds sezione di Conselve, Tipolio Centrograf, Padova 1992.
8. In questo senso una svolta periodizzante è stata impressa dall’edizione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 – 25 aprile 1945), a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Einaudi, Torino 1952, che ha creato le condizioni per una consistente “oritura di edizioni critiche di diari, memorie e scritti autobiografici (di cui non è possibile rendere conto in questa sede) la cui spinta non sembra essersi ancora del tutto esaurita, come dimostrato dal recente Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani, a cura di Stefano Faure, Andrea Liparoto, Giacomo Papi, Einaudi, Torino 2012.
10. Aistresco, b. 6, fasc. Brg. Italia Libera, Rapporto Brigata Italia Libera, 7 agosto 1945.
11. Ivi, b. 33, fasc. Relazioni, Compagnia Ceccato.
12. È il caso per esempio della «Cronistoria del Gruppo La Castellana», ivi, b. 7, fasc. La Castellana.
13. A sottolineare questo aspetto, ponendolo in contrapposizione ai diari e alle memorie dei singoli combattenti, è anche Mario Avagliano nella sua introduzione a Generazione ribelle. Diari e lettere dal 1943 al 1945, Einaudi, Torino 2006, p. XXX.
26. Ivi, b. 26, fasc. Divisione F. Sabatucci – Brigata d’Assalto Garibaldi Wladimiro Paoli – Diario Storico, p. 14.
27. Ivi, b. 6, fasc. Tito Speri, Diario Brigata Tito Speri, p. 1.
28. Ivi, b. 8, fasc. Brigata Gobbato, Diario Brigata Gobbato, pp. 1-5.
29. Ivi, b. 6, fasc. Brg. Nuova Italia, Diario Brigata Nuova Italia, p. 4.
30. Un compito analogo, ma con esiti e risonanze pubbliche maggiori, era stato affidato e condotto da Chimenton già durante e al termine della Prima guerra mondiale: si trattava in quel caso di un’indagine sulla ricostruzione delle chiese del basso Piave distrutte nell’ultima fase del conflitto. Il suo rilevante contributo produsse una significativa documentazione archivistica depositata presso l’Archivio diocesano di Treviso e da poco edita, nonché una raccolta di testi di cui si dirà in seguito.
31. Avvertenze, «Bollettino Ecclesiastico della Diocesi di Treviso», 1945, n. 6, p. 89.
32. Lettera di mons. Costante Chimenton a don Sante Martelozzo, Treviso 1 ottobre 1945, in Archivio della Biblioteca del Seminario vescovile di Treviso, Fondo Monsignore Costante Chimenton, Cronistorie parrocchiali Diocesi di Treviso 1940-1945, b. II, faldone 1, fasc. Coste di Maser. Tutte le relazioni sono raccolte nella b. II, faldoni 1-4, fascicoli 157-199.
34. Don Tarcisio Roncato, arciprete della piccola comunità di Moniego, merita una menzione al merito per la tempestività della consegna, esito evidente di come le sollecitazioni non fossero necessariamente edite o formalizzate in testi scritti.
35. Ernesto Brunetta, Correnti politiche e classi sociali alle origini della resistenza nel Veneto, Neri Pozza, Vicenza 1974, pp. 71-72.
36. Parrocchia di Bavaria, Cronaca del periodo bellico 1940-1945, testo dattiloscritto non firmato né datato, p. 1.
37. Don Attilio Andreatti, Memorie dei cinque [anni] di guerra 1940-1945 relative alla parrocchia di Paese, testo dattiloscritto, 13/12/1945, pp. 3 e 5.
38. Mons. Valentino Gallo, Chiesa arcipretale di S. Matteo Ap. di Riese – Relazione del Parroco del periodo bellico, vol. II, Azione svolta dal Parroco di Riese durante il predetto periodo bellico, testo dattiloscritto non datato, p. 6.
39. Per un approfondimento sulle Cronistorie vd. Erika Lorenzon, Crollo dello Stato e comunità parrocchiali. Le relazioni dei parroci della diocesi di Treviso sulla seconda guerra mondiale, in Soggettività popolare e unità d’Italia. Il caso veneto, a cura di Livio Vanzetto, «Venetica», XXVI (2012), n. 25, pp. 159-181; Id., Il monopolio dell’annuncio. Nelle cronistorie dei parroci della Diocesi di Treviso (1940-1945), «Snodi pubblici e privati nella storia contemporanea », 2013, n. 12, pp. 131-143.
40. Egidio Ceccato, Eccidi nazi-fascisti tra storia e memorie di paese, in Memoria della Resistenza. Una storia lunga sessant’anni, a cura di Alessandro Casellato e Livio Vanzetto, «Venetica», XIX (2005), n. 11, p. 100.
41. Don Mario Stocco, Cronaca di Guerra della Parrocchia di S. Martino di Lupari – notizie degli avvenimenti più importanti, testo dattiloscritto, 23/04/1946, p. 32.
Irene Bolzon e Erika Lorenzon, “… Nell’avere nuovi occhi”. Indagine e racconto della resistenza tra fonti inedite e nuovi parametri interpretativi, Venetica, 32/2015

Picchetto d’onore reso ai patrioti martiri il 2 maggio 1945 di fronte al duomo di S. Martino di Lupari (PD) – Fonte: Paolo Miotto, art. cit. infra

Il territorio di S. Martino di Lupari nei giorni dell’insurrezione contro il nazifascismo fu teatro di importanti scontri fra la resistenza e l’esercito tedesco in ritirata. In paese erano presenti due formazioni partigiane di diverso orientamento politico. La formazione Tullio Pegorin, nata per prima fin dall’inverno del 1944, aveva la sede principale nell’abitazione di Giuseppe Fasan e del medico primario Colle presso l’antico Maglio a Campretto. Per un certo periodo si definì gruppo misto indipendente. In realtà era controllata da elementi comunisti come Arduino Ceccato, Gino Bos detto Smith e soprattutto Hovrin Wassili, il “Capitato russo”. Solo negli ultimi mesi antecedenti la liberazione aderì alla Brigata Cesare Battisti di Castelfranco Veneto.
Di orientamento democristiano-popolare era invece il cosiddetto gruppo cattolico di Campagnalta o Giovane Italia, ribattezzato in seguito Fior Fioravante, e inquadrato nella Brigata Damiano Chiesa I, che poteva contare sull’appoggio del clero e ciclostilare in canonica sia i volantini, sia un giornalino clandestino [1].
Entrambe avevano lavorato per sabotare le infrastrutture utili al nemico e rendere la vita difficile ai fascisti fino alla primavera del 1945. Dal 3 aprile S. Martino fu militarizzato da truppe tedesche, ripiegate da Bologna, con l’intento di stanare la resistenza e preparare una nuova linea di blocco contro l’avanzata anglo-americana nel cittadellese. Il giorno 7 giunge in paese la famigerata Divisione Falck, che si renderà tristemente nota per l’efferata strage di civili del 29 aprile. Ripartirà l’11 e il 12 aprile verso le Valli di Comacchio, dopo aver depredato il paese di tutti i mezzi di trasporto.
Il 25 aprile, giorno nel quale si proclama l’insurrezione generale contro il nazifascismo, a S. Martino la guerra continua. Mentre nella serata i gendarmi fascisti “repubblichini” si danno alla fuga e sono intercettati a Cittadella, i presidi tedeschi presenti nelle scuole elementari e nel palazzo di Ida Conte vedova Franceschi in Via Roma resistono per l’arrivo di rinforzi delle S.S. Il tanto atteso assalto partigiano alle guarnigioni tedesche, previsto per il 25 con tanto di signorine convocate appositamente[2], non avviene mai. Il 27 i soldati tedeschi, caricando su sei o sette macchine molto materiale, se ne andarono dal paese verso le 13.30, lasciando sul posto un capitano e un soldato. Il giorno successivo – recitano le cronache locali – il paese è completamente in mano ai partigiani locali che lo presidiano. È l’unico paese del circondario in mano dei patriotti; a Cittadella i patriotti si sono asserragliati dentro il castello e a Castelfranco nulla hanno potuto fare. L’isolamento desta un po’ di preoccupazione[3]. Sparatorie, regolamenti di conti, ruberie si susseguono tutto il giorno e il 29 aprile giunge l’epilogo.
La Divisione Falck, supportata dalle S.S., guida la ritirata dei nazisti. Si uniscono i fascisti troppo compromessi. Provenendo da Padova attraverso la Statale Valsugana, di primo mattino giungono all’altezza di S. Giorgio in Bosco e deviano per Sant’Anna Morosina per evitare Cittadella liberata. Prelevano ostaggi come scudi umani contro gli agguati dei partigiani, fanno loro rimuovere gli ostacoli frapposti dalla resistenza nei giorni successivi e seminano il terrore e la morte nei paesi che incontrano: Villa del Conte, Abbazia Pisani, Borghetto, Campretto, Lovari, S. Martino, Campagnalta e infine Castello di Godego, dove, in località Cacciatora, passano per le armi la settantina di ostaggi rimasti in vita fino a quel momento[4]. Alla fine si contarono almeno 133 vittime civili. Molti si salvarono in modo rocambolesco e fra questi anche Angelo e il figlio Carlo.
[1] Le cronache parrocchiali, con evidente spirito di partigianeria, affermano che i primi nuclei partigiani di matrice comunista e socialista sorsero non tanto per questioni patriottiche, quanto piuttosto per motivi personali di contrarietà con gli elementi aderenti al fascio luparense. I partigiani provenienti dalle file dell’Azione Cattolica invece sono definiti elementi buoni [… ] i quali cercarono di permeare di buon senso il primo gruppo (di sinistra) e abbracciarono la causa patriottica con retta intenzione e come un dovere da compiere disinteressatamente. Su questa lettura semplicistica e interessata vi sono molte riserve. In entrambi gli schieramenti vi furono persone in gamba e ladri, aderenti alla causa e approfittatori. Entrambe le formazioni, dopo la liberazione, si attribuirono azioni e meriti esagerati e strumentali, dichiarando un numero eccessivo di partigiani e patrioti per fini politici e pensionistici. A S. Martino il ritorno alle istituzioni democratiche e il controllo politico furono esercitati dal clero locale che proponendo come primo cittadino Gino Antonello, già ultimo sindaco prima del fascismo, bloccarono ogni iniziativa dei partiti di sinistra.
[2] Le signorine invitate ad assistere alla presa dei presidi tedeschi dai partigiani della Tullio Pegorin il 25 aprile erano una Petrin, Carmen Canale e Maria Brotto, detta Bulai.
[3] Cronistoria di guerra di don Mario Stocco.
[4] Per queste vicende in territorio luparense rinvio a C. Miotto, P. Miotto, Il territorio di Villa del Conte nella storia. L’abazia di S. Pietro e S. Eufemia, S. Massimo di Borghetto e la contea del Restello, Noventa Padovana 1994, pp. 353-366; C. Miotto, P. Miotto, San Giorgio in Bosco. Società e istituzioni civili in un paese dell’Alta Padovana dall’Unità d’Italia al XX secolo, Limena 1997, pp. 133-147; C. Miotto, P. Miotto, Campretto. Storia di un territorio e della sua antica comunità, S. Martino di Lupari 1997, pp. 189-211; C. Miotto, P. Miotto, Borghetto. Storia di un antico borgo e dell’oratorio di San Massimo, Arcugnano 1999, pp. 318-331; P. Miotto, Abbazia Pisani. Storia di un monastero millenario e della sua gente, Abbazia Pisani 2006, pp. 364-394; P. Miotto, Dai nobili Morosini ai nostri giorni. Sant’Anna Morosina, Cittadella 2009, pp. 192-198. Per una panoramica più in generale degli eventi che portarono alla liberazione dell’Alta Padovana si vedano: G. Corletto, Masaccio e la Resistenza tra il Brenta e il Piave, Cittadella 1965; G. E. Fantelli, La resistenza dei cattolici nel Padovano, Padova 1965; E. Rocco, 1943-1945, Missione “M.R.S”, Cittadella 1998; Quintavalle, Volpi, (cit, 1983); AA.VV., Storia e cultura, numero monografico per il 50° anniversario della resistenza, Abbazia Pisani 1994; B. Gramola, A. Maistrello, La divisione partigiana Vicenza e il suo Battaglione guastatori, Vicenza 1995; G. Conz, Resistenza e liberazione. Cittadella e dintorni 1945-1995, Padova 1995; E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione nell’Alta Padovana, Litocenter 1999; Ibidem, Il sangue e la memoria, Cierre Edizioni 2005; E. Ramazzina, Il processo ad Ada Giannini per l’eccidio nazista di S. Giustina in Colle, Ed. Bertato 2003; G. Beghin, Il campanile brucia. I giorni della paura e della speranza, Loreggia 2005; G. Citton, Le tre Brigate partigiane Damiano Chiesa, Abbazia Pisani 2006; B. Gramola, Sandro e i patrioti della Castellana, Castelfranco Veneto 2008.
Paolo Miotto, I giorni della liberazione a Campretto nella testimonianza dell’ardito Angelo Tonietto (29 Aprile 1945), 1^ parte, storiadentrolamemoria, 29 Maggio 2018

Sul massiccio del Grappa si erano organizzate la brigata “Gramsci”, la brigata “Matteotti”, la brigata “Italia Libera” di Campo Croce e la brigata “Italia Libera” dell’Archeson. Toccavano il territorio di tre province: Vicenza, Belluno e Treviso. Erano una spina nel fianco dello schieramento nazifascista, perché minacciavano le vie di comunicazione della Val Brenta, della Valle del Piave, del Feltrino, le linee ferroviarie, le strade di collegamento della fascia pedemontana, le strutture militari fisse e mobili dello schieramento tedesco e fascista repubblicano.
Mario Faggion, Resistenza e lotta di Liberazione – II. La lotta armata nella primavera-estate 1944, A.N.P.I. Vicenza, 9 maggio 2014

Pedescala e Settecà sono due paesi della val d’Astico che durante gli ultimi giorni di guerra (30 aprile-2 maggio 1945) furono teatro di eventi sanguinosi. In un feroce massacro furono uccise dalle truppe tedesche in ritirata 82 persone, in maggioranza civili, comprese nove donne e il giovane parroco di Pedescala, don Fortunato Carlassare.
Non si trattò di un massacro “a tempo scaduto”, “fuori tempo massimo” e altre sciocchezze simili inventate da giornalisti e scrittori poco accorti perché – sembra quasi banale dirlo – finché una guerra non è terminata si combatte, si continua a uccidere e ad essere uccisi. Infatti, l’ordine di cessare il fuoco per l’esercito germanico entrò in vigore in Italia alle ore 14 del 2 maggio 1945, come stabilito dall’accordo di Caserta.
Al termine del conflitto, la volontà degli Alleati di perseguire i crimini commessi nel nostro Paese dalle forze armate tedesche e fasciste durante l’occupazione – l’iniziale intenzione era di organizzare quella che doveva essere la “Norimberga italiana” – fece sì che gli inquirenti americani si occupassero fin dall’inizio di quanto era accaduto a Pedescala e a Settecà.
Il 6 maggio 1945 Christopher M. Woods, ufficiale britannico della Missione alleata Ruina Fluvius, che per lunghi mesi aveva soggiornato nella zona e nella stessa val d’Astico, inviava un rapporto alla commissione per i crimini di guerra, denunciando quanto segue:
«Mercoledì mattina, 2 maggio 1945, una Colonna di Ss sabotatori in numero di circa 33 (altrove 300, nda) entrò nel villaggio di Pedescala e massacrò la popolazione. Essi uccisero tutti quelli che trovavano per le strade, entrarono nelle case e costrinsero il rimanente della popolazione ad uscire e li obbligarono a portare i corpi nelle case. Dopo di ciò essi chiusero le porte e bruciarono le case. In questo paese e nelle due frazioni vicine (Settecà e Forni) ci sono 73 [recte 82] corpi, uomini, donne e bambini, incluso il prete di Pedescala».
Il 7 giugno 1945 fu formata la commissione che si recò a Pedescala e a Settecà per interrogare i testimoni e far luce sulle due stragi. Di fatto, però, il 5 dicembre 1946 il colonnello Tom H. Barratt comunicava al War Crimes Branch che le indagini erano state chiuse il precedente 2 maggio 1946 dal momento che non risultava coinvolto personale americano o inglese e che era stato trasmesso il materiale al governo italiano. Una volta in Italia il fascicolo finì in quello che viene ormai comunemente chiamato l’“armadio della vergogna”: un armadio contenente centinaia di fascicoli processuali sui crimini nazisti, “dimenticato” per decenni nei locali della Procura generale militare, a palazzo Cesi a Roma.
Il fascicolo relativo al massacro di Pedescala-Settecà divenne il n. 2102 recante la triste intestazione di «Contro: Piazza, Caneda [sic] (Brigata Nera) e 33 militari saldatori [sic] delle SS», che il procuratore generale militare Enrico Santacroce archiviò provvisoriamente il 14 gennaio 1960, «poiché, nonostante il lungo tempo trascorso dalla data del fatto anzidetto, non si sono avute notizie utili per la identificazione dei loro autori e per l’accertamento della responsabilità» <1.
Dal momento che i colpevoli non furono processati e condannati, e che le uccisioni apparivano senza una valida causa, a Pedescala si formò una memoria orale, avallata anche da giornalisti del salotto buono televisivo, secondo la quale all’origine della strage ci sarebbe stata l’uccisione da parte dei partigiani di un certo numero di soldati tedeschi (sette ma a volte tre, o cinque-sei) che si stavano ritirando, desiderosi solamente di tornare a casa, dal momento che la guerra era già finita. Il loro corpo non venne mai trovato perché abilmente occultato, forse dai partigiani, forse dai loro stessi commilitoni.
1) Pmvr (Archivio della Procura Militare di Verona), Pgm, fasc. n. 2102 contro: Piazza, Caneda (Brigata Nera) e 33 militari saldatori delle Ss, c. 1, contenuto in Pmpd, fasc. 31/96, 1501/96, 347/99 procedimento penale a carico di Caneva Bruno Carlo [et al.], 180/2005/ARCH.PM, per: a) violenza continuata mediante omicidio pluriaggravato commesso contro privati; b) concorso in incendio e distruzione continuato e aggravato.
Sonia Residori, Il massacro di Pedescala e Settecà, Academia.edu

La ritirata della Wehrmacht, i partigiani che cercano di ostacolarla, la rappresaglia, 14 innocenti che restano sul terreno. Accadde a Dueville 62 anni fa, il 27 aprile del 1945, e fu uno dei tanti tragici episodi che insanguinarono il Vicentino negli ultimi giorni della 2ª Guerra mondiale. A riprenderne e delinearne i contorni ci ha pensato il duevillese Francesco Binotto, autore dell’ultima parte del libro Memorie partigiane curato da Benito Gramola (Arti Grafiche Postumia, pagg. 128), con il breve saggio “Cronaca di una rappresaglia”.
Il dramma di Dueville ebbe inizio a mezzogiorno di quel 27 aprile: in mattinata il presidio tedesco aveva abbandonato l’abitato, ma diverse colonne in ritirata dal fronte del Po transitavano per la zona e alcuni partigiani della Brigata “Mameli”, occupato il paese anche per impedire il disordinato saccheggio dei magazzini abbandonati da parte della popolazione, fecero fuoco su una motocarrozzetta in perlustrazione davanti all’osteria “Alla Berica”, colpendo a morte il passeggero mentre il guidatore tornava verso la Marosticana.
La vittima – ma vi furono altre sparatorie e alcuni testimoni ricordano in tutto le salme di tre militari – diede il pretesto ai tedeschi per attuare una ritorsione spietata: entrati in paese un paio d’ore dopo, si abbandonarono ad una feroce caccia all’uomo nel centro cittadino, partendo dall’osteria. Alle 18 tutto era finito: mentre i tedeschi ripartivano verso nord Dueville piangeva la morte di 14 uomini, il più giovane di 16 anni, il più anziano di 61. Altri quattro duevillesi erano stati feriti, due case risultavano incendiate e un centinaio di persone, rastrellate e radunate nel campo da calcio, avevano vissuto ore di terrore.
Binotto ricostruisce la sua versione della strage soprattutto attraverso una serie di interviste fatte ai sopravvissuti, avvertendo il lettore delle inevitabili imprecisioni dovute alla contaminazione del tempo sulle memorie dei singoli, ma riuscendo comunque a presentare un quadro sufficientemente lineare degli avvenimenti. Quanto alle polemiche che hanno accompagnato i fatti, particolarmente in merito all’episodio che scatenò la rappresaglia, riconosce limiti ed errori delle formazioni partigiane ma invita a non dimenticare gli ordini di attaccare ricevuti dai comandi superiori ed individua senza remore un solo colpevole: l’esercito tedesco.
La prima parte del libro presenta invece, sotto forma di memoriale, le gesta di due partigiani intervistati da Gramola, il bassanese Disma Martin e il villaverlese Antonio Giudicotti. Il primo dopo l’8 settembre operò sull’altopiano di Asiago con il gruppo di Antonio Giuriolo e con il Battaglione “Settecomuni”, aggregandosi poi alla Brigata “Garemi” e infine alla Brigata “Giovane Italia”: catturato nel febbraio del 1945, fu prigioniero delle SS italiane alla Longa di Schiavon fino alla liberazione.
Giudicotti, invece, si mosse soprattutto in pianura: scampato al grande rastrellamento di Granezza, dopo una parentesi come lavoratore nell’Organizzazione Todt fu protagonista nei combattimenti finali contro i tedeschi in ritirata e nella liberazione di Novoledo e Dueville da parte della Brigata “Loris”. Era domenica 29 aprile: assieme ai partigiani che presero possesso del municipio cominciavano a farsi vedere anche le prime truppe americane. Per le 14 vittime del 27, trasportate quel giorno nella chiesetta del cimitero in vista dei funerali che si svolsero il 1° maggio, era però troppo tardi.
Luca Valente, Dueville 1945, cronaca di una rappresaglia, Democraticiperdueville, 20 maggio 2007

La mappa è anche collegata a una tabella cronologica: mettendo in relazione gli eccidi con lo spostamento del fronte militare, si può vedere che la maggior parte venne commessa da membri delle truppe combattenti nella zona del fronte o nella zona militare immediatamente retrostante (7).
Paoletti, volutamente ignorando tutti gli studi compiuti sia da storici italiani che stranieri, fin dall’introduzione al volume [Paolo Paoletti, L’ultima vittoria nazista. Le stragi impunite di Pedescala e Settecà 30 aprile 1945 – 2 maggio 1945, Schio : Tipografia Menin, 2002], sostiene la tesi secondo la quale “i nazisti in rotta non si sarebbero mai lasciati andare a tante nefandezze se i partigiani non li avessero attaccati il 30 aprile, 15 ore dopo che a pochi chilometri di distanza il comandante della Divisione garibaldina “Garemi” aveva concordato con il comandante tedesco di Schio l’abbandono della città, e 12 ore dopo che a Pedescala alcuni comandanti garibaldini avevano firmato un accordo che garantiva il libero deflusso del contingente russo, che da quattro giorni occupava il villaggio … Se oggi possiamo dire che i russi erano del tutto estranei alla strage, ai tedeschi e ai collaborazionisti italiani va attribuita l’esecuzione della strage, ma la responsabilità della provocazione spetta tutta ai garibaldini”.
Paoletti afferma più volte: “Crediamo che si possa dare atto a tutti quei soldati tedeschi che transitavano il 30 aprile per la Val d’Astico che non avevano intenzioni assassine, che non avevano intenzione di uccidere, né partigiani né civili, perché erano consci che di lì a qualche ora si sarebbero dovuti arrendere”. Addebita, quindi, ai partigiani il comportamento criminale dei tedeschi a Pedescala, in quanto i soldati della Wehrmacht sentirono quell’aggressione “come un attacco vile e proditorio, una violazione dello spirito dell’accordo di Schio, come una volontà di infierire su degli sconfitti …” (8).
[NOTE]
7) T. Matta, Un percorso della memoria : guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Milano 1996.
8) Peccato che questi bravi soldati si siano fermati a massacrare per due giorni, anzi erano talmente “depressi e amareggiati” da depredare il tabernacolo della chiesa. Durante il processo degli americani viene chiesto: “D: Perché portarono via le pissidi? R: Perché erano fatte d’oro o d’argento. D: Questo è un atto sacrilego? R: Sì”. Comunque, se per tre quarti del volume la tesi portata avanti da Paoletti è che la strage sia stata compiuta dai soldati della Wehrmacht provenienti da Schio, nell’ultime pagine sembra ipotizzare come probabili criminali i tedeschi di “un’altra colonna che veniva da Thiene” (p.160) e gli italiani volontari della 22a Brigata Nera (p.166). Malauguratamente, a forza di giudicare, i riflessi del passato finiscono per mescolarsi con i preconcetti del presente.
Sonia Residori, La banalità del massacro in Pio Rossi, Achtung banditen, Edizioni Menin, Schio (VI) 2005, pp. 147-156