La costruzione di una memoria negativa della Resistenza in ampie zone del Veneto rurale

Pedescala (VI): Monumento ai Martiri della furia nazista – Fonte: Federico Bonato, art. cit. infra

Il 2 maggio 1945, 73 anni fa, terminò il massacro passato alla storia come ‘eccidio di Pedescala‘.
Fra il 30 aprile e il 2 maggio, in val d’Astico, più precisamente nei comuni di Pedescala, Settecà e Forni, si è consumata una violenta strage perpetrata dai soldati dell’esercito tedesco verso la popolazione locale. 82 i morti, in prevalenza civili (63 a Pedescala e 19 tra Forni e Settecà).
Un massacro sul quale, la storica Sonia Residori, nel volume ‘L’ultima valle’ ha fatto chiarezza, rifuggendo da interpretazioni ideologiche.
[…] A Pedescala i soldati tedeschi incendiano anche alcune stalle, con dentro animali e l’asilo infantile e anche don Carlassare rimane ucciso.
Camillo Pretto, che a quel tempo aveva otto anni, parla di “morti distesi per terra in mezzo a pozzette di sangue”. 82 in tutto i morti di Pedescala.
Fatti analoghi accadono nello stesso momento neidue comuni limitrofi di Settecà e Forni, in cui le vittime della barbarie nazifascista sono 19. A Forni i tedeschi prendono in ostaggio 62 persone. Un testimone oculare di nome Giovanni Battista Dellai raccontò: “Li vedevo passare in piccoli gruppi questi poveri uomini scortati dai tedeschi con un comando secco e autoritario, tutti li uomini li portano al locale dopolavoro dai 60 70 sono rinchiusi visti d’occhio dalla S.S. tedeschi”.
Secondo un documento della Croce Rossa internazionale, l‘1 maggio alcuni partigiani rapiscono 18 tedeschi della Wehrmacht in ritirata, li uccidono e li gettano nella ‘Caverna della Rossetta’ (una specie di foiba vicino a Tonezza).
I soldati tedeschi, il giorno seguente si danno a furti e saccheggi nelle case e rimangono tra Pedescala, Forni e Settecà fino alla mattina del 2 maggio. Entro le 9 della mattina non ce n’è più nessuno.
Il rifiuto della Medaglia e lo ‘schiaffo’ a Pertini
Come spiega Sonia Residori, nel 1983 una parte della popolazione rifiutò la medaglia d’argento al valore militare che l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini, proponeva. Il rifiuto fu motivato così: “Spararono poi sparirono sui monti (riferendosi ai partigiani), dopo averci aizzato contro la rabbia dei tedeschi, ci lasciarono inermi a subire le conseguenze della loro sconsiderata azione. Per tre giorni non si mossero, guardando le case e le persone bruciare. Con quale coraggio oggi proclamano di aver difeso i nostri cari?”.
Il racconto dell’eccidio di Pedescala non ha avuto una sola versione, di versioni se ne sono sentite e lette diverse, descritte a seconda delle posizioni politiche.
Il ‘Comitato permanente vittime civili di Pedemonte’ attribuiva la colpa del massacro ai partigiani perché essi spararono sui tedeschi in ritirata.
Federico Bonato, Valdastico. Eccidio, la storica Sonia Residori: ‘Ecco come avvenne il massacro’, AltoVicentinoOnLine.it, 2 maggio 2018

Fonte: G.E. Fantelli, Op. cit. infra

1 – Resistenza ripudiata <1
I figli della stessa madre, costretti a schierarsi nei due campi opposti, sotto due diversi eserciti, cominciarono a odiarsi. Molti furono costretti a imbracciare nuovamente le armi, combattendo e scannandosi a vicenda. Cominciò l’era dei soprusi, delle rappresaglie, delle vendette, della caccia spietata all’uomo. Il sangue cominciò a scorrere nuovamente sul suolo sacro della patria: fratelli che uccidevano i propri fratelli. [da “Pastore eroico” – Alessi, 1961]
Venne poi il periodo dell’infausta guerra del 1943-1945 […]. Tragici drammi lo segnarono, particolarmente nell’ultimo periodo, con l’odio, la divisione fraterna, il terrore, la violenza, il sangue. [da “Trebaseleghe e la sua antica pieve di Santa Maria” – Basso, 1973]
Non appare per nulla edificante l’immagine della Resistenza proposta da alcune pubblicazioni uscite nel camposampierese durante gli anni ‘60 e ‘70, ridotta com’è a pagina di storia dolorosa, una mostruosità sotto tutti i punti di vista, una esperienza da archiviare al più presto.
Nel primo dei due passi riportati, essa è presentata come una insensata guerra civile, occasione di saccheggi e gratuite violenze e i partigiani vengono tranquillamente equiparati ai fascisti. Altro che lotta di liberazione dai tedeschi e dal fascismo, momento di riscatto politico e militare della nazione italiana, preludio alla riconquista della libertà e della democrazia! Quel che più inquieta, è che il testo non si può liquidare come infortunio di uno storico improvvisato, senz’arte né parte, perché in realtà non fa altro che recepire il giudizio prevalente nell’opinione pubblica di paese.
Nella seconda citazione, il periodo 1943-45 viene presentato come il momento più buio dell’intera guerra mondiale, più tragico degli stessi anni 1940-1943, teatro delle folli avventure fasciste in Africa e nella penisola balcanica, terminate con il disastro di El Alamein e la ritirata di Russia. Significativa anche l’aggettivazione prescelta: «infausto» anziché “tragico”, quasi a sottintendere la possibilità di un diverso giudizio storico ed etico qualora – come era storicamente avvenuto per le campagne di Abissinia o di Spagna – l’esito della guerra fosse stato favorevole alle armi fasciste.
A ben riflettere, non siamo di fronte a casi di revisionismo storico avant lettre, ma alla pura e semplice riproposizione, su carta stampata, di alcuni stereotipi sulla Resistenza divenuti senso comune fra gli strati meno acculturati della gente, per effetto di un determinato esito della battaglia per la costruzione della memoria. Chi rimanesse sconcertato dalla radicalità di certe conclusioni e nutrisse riserve sulla loro fondatezza, non ha altro da fare che prendere visione degli esiti, altrettanto paradossali, del referendum istituzionale del 2 giugno 1946. La schiacciante vittoria riportata dalla monarchia in tutti i comuni del camposampierese (con percentuali vicine all’85% a S. Giustina in Colle, Camposamapiero, Villa del Conte, Loreggia, Massanzago o Trebaseleghe), in quasi tutto il cittadellese (fatta eccezione per Piazzola e Galliera), in tutta la castellana (eccettuato il capoluogo) ed in quasi tutto il bassanese non lascia spazio a interpretazioni di diverso segno.
[…] In questa sede, l’obiettivo è quello di rendere ragione dei meccanismi che hanno determinato nel Veneto centrale (e bianco) una memoria così negativa della Resistenza ed un sostanziale ripudio dei valori di impegno civile e di collaborazione interpartitica che l’avevano ispirata. Ed il compito, più che di giudicare o condannare, è ancora una volta quello di spiegare e capire, se è vero, come ci ricorda Contini, che la «la ricostruzione storica», se «non può certo appiattirsi sulla memoria locale, non può neppure contrapporsi a essa, tentando di cancellarla come si potrebbe fare per un opinione politica errata». Al contrario, essa «deve, piuttosto, studiarne la struttura e la logica di sviluppo», partendo dal postulato che spesso «la memoria della comunità nasce da motivazioni legate al senso di identità e di appartenenza che nulla hanno a che vedere con la storiografia» (Hobsbawn). Ed in effetti il percorso a ritroso, proteso alla individuazione delle ragioni e dei meccanismi, che in queste zone hanno determinato un così diffuso ripudio della Resistenza, finisce col trovare la sua spiegazione proprio nella peculiarità della cospirazione antifascista veneta, saldandosi in particolare con la sua fase terminale, ad egemonia moderata e a leadership cittadellese.
Il risultato conseguito va oltre ogni iniziale previsione, perché il filo di Arianna, costituito dal processo di sedimentazione della memoria, ha consentito di penetrare in molti anfratti della guerra di liberazione nel Veneto, di far luce su molti lati oscuri e di proporre, in definitiva, nuove e suggestive chiavi di lettura della medesima.
2 – Partigiani, brutta gente
I partigiani? Tutta gente dal grilletto facile, come le brigate nere di Campodarsego. [Villanova di Camposampiero – anno 2000]
La gente considerava i partigiani ladri, persone che non avevano voglia di far niente, solo malegrazie. I danni più grandi li hanno fatti i partigiani, non certo i fascisti. Perché i fascisti hanno fatto del male solo nell’ultimo periodo, ma prima che ci fosse la guerra civile non avevano fatto nessuna malagrazia, proprio niente. Invece i partigiani il materiale dei lanci se lo tenevano per loro, mica lo distribuivano alla gente. Eppoi nella casotta si erano anche portati le ragazze. [Trebaseleghe – anno 1997]
I partigiani sono stati dei vigliacchi e degli approfittatori. Di fronte ai tedeschi sono tutti scappati. In compenso hanno ben pensato di riempirsi le tasche con la roba presa ai tedeschi. Hanno fatto però tutti una brutta fine. [S. Anna Morosina – anno 1999]
Non capisco come mai certe persone, e qui è il caso dei nostri partigiani, non abbiano avuto un po’ di buon senso […] e non abbiano pensato alle terribili conseguenze che andavano incontro agendo in tal modo. Erano giovani e la loro poca esperienza e il loro cervello non ci arrivava. Loro erano convinti di giocare alla guerra come quando erano bambini […]. Ci fu qualche colpo di fucile, ma vista la mala parata si sono dati alla fuga precipitosamente lasciando il paese in balia dei Tedeschi […]. [Bragadin, 1985]
A suo tempo, l’immagine dei partigiani come giovani incoscienti, di dubbia moralità e un po’ vigliacchi nel momento del pericolo, ha messo profonde radici nell’immaginario popolare dell’alta padovana, anche in ragione dello shock indotto dalle due stragi naziste di S. Giustina in Colle (27 aprile 1945) e lungo la direttrice S. Anna Morosina – Abbazia Pisani – S. Martino di Lupari – Castello di Godego (29 aprile), col loro lascito di lutti e risentimenti, malamente metabolizzati.
Due vicende distinte, riconducibili a contesti diversi, essendo la prima stata opera delle Waffen-SS del presidio tedesco di Castelfranco Veneto – intenzionate a recuperare il controllo del territorio e della viabilità e, contemporaneamente, ad impartire una solenne lezione ai partigiani insorti e alla popolazione civile che non li aveva fermati – e la seconda ascrivibile alle colonne germaniche in ritirata dal fronte, imbestialite per gli attacchi partigiani e le interruzioni stradali. Bilancio: oltre 150 civili massacrati, intere famiglie private dei loro sostenitori e un’intera comunità – quella di S. Giustina in Colle – orfana di ambedue i sacerdoti, massime autorità morali del paese.
Oltre che incoscienti e vigliacchi, nell’immaginario collettivo i partigiani sono spesso diventati anche dei ladri («C‘era un piccolo presidio, otto o dieci soldati anziani, dei quali […] quando arrivarono i loro compagni e misero in fuga i pochi e inesperti partigiani […] si vendicarono, facendo loro sapere i nomi di coloro che abusando la loro sorveglianza asportavano (o rubavano come si dice) viveri ed altre cose rinchiuse nel magazzino […] È triste dover pagare con la vita le colpe dei fratelli o degli amici» – (Memoriale Bragadin).
Quasi nessuno, tra i tanti anziani interpellati, al di fuori della ristretta cerchia dei patrioti e dei loro famigliari, ha accostato l’epopea partigiana ad una battaglia per la libertà e la democrazia. Al contrario, a suo tempo non è mancata la storpiatura della parola “partigiani” in “pantegani” (per assonanza con “pantegane”, cioè ratti), quasi ad evocare individui loschi, che si muovevano nell’ombra e non esitavano a colpire a tradimento, per dare sfogo a personali istinti di violenza o procurarsi dei vantaggi materiali.
Una fama negativa, che ha spinto alcune componenti della resistenza moderata – in primis quelle che si sono riconosciute nella F.I.V.L. di Cittadella – a ripudiare lo stesso termine “partigiano”, considerato troppo compromesso, e a rivendicare per sé l’appellativo di “patriota” o, in subordine, di “ribelle”.
Scontato, a questo punto, che a guerra finita in molti paesi si sia registrato un vuoto attorno ai partigiani, molti dei quali hanno preferito abbandonare un ambiente fattosi ostile.
Il nostro Bragadin ha interpretato questo allontanamento come una giusta sanzione popolare («[I partigiani] rimasero ancora quali protettori del popolo per un qualche eventuale risveglio fascista. Purtroppo ebbero scarso successo. Il popolo, dopo l’eccidio non ebbe più fiducia e i caporioni ad uno ad uno lasciarono il paese, non certo con molta gloria»). Il riferimento è al comandante G. Verzotto, che la vox populi ritenne massimo responsabile dell’eccidio del 27 aprile, e al suo braccio destro Bepi Ruffato, primo sindaco del paese dopo la Liberazione.
3 – Le inutili stragi
Questi fatti […] li scrissi qual monito per le generazioni future, affinché per colpa loro non cadino in simili e così dolorose tragedie, risparmiando in tal modo il lutto di tante famiglie così duramente colpite in ciò che avvi di più caro, cioè i figli delle future generazioni. [Bragadin, 1985]
Mai più Resistenza! – sembra concludere il nostro Bragadin. L’ennesima conferma di un approdo anomalo della memoria della guerra di liberazione, ben diverso da quello avvenuto in altre realtà italiane, dove in anni non lontanissimi sono risuonati ben altri slogan (del tipo: «ora e sempre Resistenza!»).
Colpisce l’assioma, nei testimoni del tempo, dell’assoluta inutilità di tutti quei morti. Inutili ai fini militari, in quanto la guerra stava per concludersi egualmente in modo vittorioso, per effetto della travolgente avanzata delle truppe alleate, ma poco utili anche ai fini del riscatto morale e politico dell’Italia.
Questa parte dell’opinione pubblica sembra tranquillamente ignorare che il nostro era allora un paese che aveva molto da farsi perdonare dai vincitori, perché portava le colpe non solo del fascismo, ma anche della guerra rovinosa da esso dichiarata. Colpisce, in un testimone così lucido come Bragadin, considerato il massimo custode paesano della memoria della strage (tanto da essere prescelto come oratore ufficiale, nella commemorazione tenuta nel 1995 in aula consiliare), il deficit di informazioni sul contesto, che aveva reso possibile la rappresaglia nemica. Non solo egli ignora la ragione per cui i partigiani di Verzotto avevano proceduto alla occupazione del paese – vale a dire l’esigenza di non lasciare questo onore ai competitori garibaldini – ma attribuisce la responsabilità della strage alle truppe tedesche in ritirata dal fronte, anziché alle Waffen-SS di Castelfranco Veneto. Soprattutto stupisce l’equiparazione fra passività partigiana e salvezza del paese, nel contesto di una guerra mondiale, in cui la morte era spesso piombata sulle case dei civili dal cielo e nella quale l’esercito tedesco non aveva certo atteso una provocazione per invadere paesi neutrali e massacrarne la popolazione civile. In effetti, solo la collocazione degli eccidi finali nel più ampio contesto della guerra di liberazione e in quello specifico dell’insurrezione avrebbe potuto dare un senso a episodi altrimenti inspiegabili. Solo l’attribuzione di un alto valore morale a quel sacrificio – peraltro prontamente riconosciuto dagli Alleati – avrebbe potuto dare un senso al dramma di tante famiglie, allo sgomento di interi paesi. Solo l’impegno concorde e convinto della classe politica e degli operatori culturali avrebbe potuto – con gli anni, a mano a mano che il tempo avesse lenito il dolore e cicatrizzato le ferite inferte agli affetti ed ai sentimenti – far prevalere la voce della ragione e presentare le vittime delle stragi come il prezzo pagato dall’Italia per il suo riscatto da precedenti peccati politici, primi fra tutti la sua resa al fascismo e la sua partecipazione alla seconda guerra mondiale, a fianco del Terzo Reich hitleriano.
Lutti e rovine che, pertanto, avrebbero dovuto essere messi nella partita di conto, che l’Italia fascista aveva aperto cinque anni prima, il giorno stesso della dichiarazione di guerra alle democrazie occidentali, e nella quale gli anglo-americani avevano già versato la loro quota parte (le decine di migliaia di loro soldati caduti nella contrastata risalita della penisola, fino alla pianura padana).
Quest’opera di informazione e di sensibilizzazione, in una alta padovana shoccata dai lutti, è mancata. Et pour cause. La contropartita sarebbe stata una precisa responsabilizzazione del fascismo nostrano per la guerra e le stragi, capace di alimentare una maggiore richiesta di epurazione e di rottura col passato, istanze presenti sì nell’ambiente, ma in posizione minoritaria («tenete presente che i fascisti detenuti, sebbene non abbiano commesso personalmente dei delitti, sono ugualmente complici dei delitti, dei massacri, delle persecuzioni, delle impiccagioni, degli incendi delle case commessi […] da parte dei fascisti […] e quindi sono responsabili in pieno se non materialmente almeno moralmente della spaventosa tragedia che si è abbattuta sullo nostra disgraziata patria. E quindi anche loro devono subire la sorte di tutti i delinquenti palesi o nascosti, iscritti o non iscritti, che tanto orrore hanno seminato tra noi» – S. Martino di Lupari, 10 maggio 1945). Configurare, in tutto questo, una precisa responsabilità della classi dirigente e parlare di una ennesima trahison des clercs diventa legittimo e perfino doveroso.
4 – Ponti d’oro al nemico che fugge?
I pochi partigiani qui del paese, associati ad altri dei paesi circonvicini, commisero molti sbagli [;]… data l’ora ormai scontata per le armate Tedesche […] non dovevano commetterli e lasciar loro libero il passaggio, che se ne andassero a casa loro, invece di ostacolare la loro ritirata […]. È una follia quella di sbarrare loro il passaggio! Al contrario, c’è un proverbio che a questo proposito parla chiaro, ‘al nemico che fugge ponti d’oro’, cioè aiutarli ad andarsene. Purtroppo i nostri partigiani non fecero così ma fecero tutto il contrario e le terribili conseguenze caddero su dei poveri innocenti, che non avevano fatto nulla di male. [Bragadin, 1985]
Ai partigiani, che presero le armi negli ultimi giorni di guerra, l’opinione pubblica rimproverò, tra l’altro, la violazione di una norma di saggezza ancestrale, che impone di fare ponti d’oro al nemico che fugge. Si dà il caso che il suggerimento risulti palesemente in contrasto con le direttive impartite in quel momento alle forze della Resistenza. Contro ogni aspettativa, è proprio un invito ad insorgere, cioè di «impedire al massimo la ritirata dei tedeschi […] di uccidere tedeschi […] di impedire la fuga del nemico», quello che proviene dai vertici della Resistenza veneta, su input alleato (28 marzo 1945). Secche indicazioni ad «ostacolare con tutti i mezzi i movimenti delle truppe e del materiale del nemico» vengono ribadite, in data 20 aprile 1945, anche nel «caso di collasso del fronte germanico in Italia». Direttive apparentemente insensate, che mettevano in conto reazioni tedesche a danno della popolazione civile, ma che gli Alleati – interessati com’erano a risparmiare al massimo le vite dei loro soldati – apparivano nel diritto e nelle condizioni di pretendere. In realtà, a ben considerare, è un quadro di un’insurrezione a metà, quello che emerge da un’attenta valutazione degli eventi maturati in quei giorni nell’alta padovana e nel Veneto centrale. Alla prova dei fatti, le direttive insurrezionali furono interpretate e messe in atto in modo diverso, a seconda della località, del colore politico della formazione, della sensibilità del singolo comandante partigiano. Ad esempio, mentre a Castelfranco Veneto Gino Sartor non impartisce mai l’ordine di insurrezione, solo qualche chilometro più a nord l’area controllata da “Masaccio” è in piena ebollizione. A loro volta, le formazioni cittadellesi adottano una tattica molto prudente e i loro comandi il 28 aprile concordano un compromesso con i tedeschi, per un passaggio indisturbato delle colonne attorno alle mura medioevali.
Così, se – come scrisse Bressan il 23 aprile – esistevano delle concrete possibilità di evitare il rischio di rappresaglie, esse erano legate ad una condotta prudente da parte partigiana («raccomando calma a sangue freddo, non essere precipitosi e pensare anche agli interessi dei nostri paesi»), ma ancora di più alla contemporaneità dell’insurrezione («per le attuali azioni di sabotaggio non temere rappresaglie dato che si attaccherà in tutta l’Italia Sett [entrionale]»). Sappiamo che queste condizioni non si verificarono affatto nel Veneto centrale, anche se far dipendere certe rappresaglie tedesche dalla sostanziale inattività delle formazioni partigiane di Castelfranco o Cittadella, risulterebbe oggi esercizio di sterile dietrologia.
A dire il vero, a rendere più pesante il bilancio di vittime contribuirono anche fattori casuali. Ad esempio, le interruzioni stradali praticate dai partigiani in molti paesi dell’alta padovana e della castellana avevano un intento puramente difensivo, ma nessuno poteva prevedere che il 29 aprile i soldati della divisione “Falcke” avrebbero abbandonato la strada Valsugana, per ripiegare lungo arterie secondarie, cogliendo di sorpresa le pattuglie partigiane, convinte fino all’ultimo di aver a che fare con nuclei isolati di militari tedeschi. E una rigorosa ricostruzione della dinamica della strage del 29 aprile (5. Anna Morosina-Castello di Godego) permette di concludere che si trattò di un prezzo fatto pagare all’insieme stesso della resistenza della zona, più che a qualche singola e imprudente pattuglia partigiana.
Senza contare che dietro al detto “ponti d’oro al nemico che fugge” si nascondono molta più ignavia ed etica della rassegnazione, di quanto comunemente si creda.
[…] Invano si cercano, nei testi delle commemorazioni dedicati alle stragi, elementari o sia pur sommarie contestualizzazioni storiche, o riferimenti sia pur minimi a ideologie come fascismo o nazismo, a beneficio di un’opinione pubblica colpita e sconcertata per i fatti appena successi. Nei discorsi tenuti a S. Giustina in Colle il 4 maggio 1945 dal prefetto di Padova Sabadin e dal Vescovo mons. Agostini (ma la commemorazione di Zancan del 27 aprile del 1946 è sullo stesso tono), l’eccidio nazista è presentato come una terribile punizione divina per sanzionare la cattiveria degli uomini e mettere alla prova la loro fede.
In tutti questi interventi, la memoria delle vittime viene spesa in una prospettiva di rinnovamento morale e religioso, anziché politico («io penso che queste siano le vittime innocenti, che si sono immolate perché un popolo intero si riscattasse sulla via del bene e sulla via dell’amore»: Zancan – 1946), così come non manca chi si spinge a presentare l’intera vicenda resistenziale come una guerra combattuta «nel nome di Dio e della Patria», contro il «pericolo mortale del teutonico protestantesimo nemico della candida […] e santa anima italiana» (Zanetti – 1946).
In più, oggi noi sappiamo che fu una precisa volontà politica a determinare, negli anni Cinquanta, l’insabbiamento dei procedimenti giudiziari avviati dalla magistratura militare contro i comandanti dei reparti tedeschi, macchiatisi di stragi di civili. La conseguenza più grave fu non tanto la negazione della giustizia, quanto quella della verità storica. Rimasti in ombra i veri colpevoli, tenuta all’oscuro di ogni plausibile spiegazione in sede storica o politica,
l’opinione pubblica finì per addossare ogni colpa ai partigiani, cioè all’ultimo anello di una catena di responsabilità, che qualcuno non volle o non seppe ripercorrere fino in fondo. Molteplici fonti scritte ed orali documentano il progressivo passaggio da una fase iniziale di semplice amarezza (per i lutti patiti), ad una seconda fase, caratterizzata da montante ostilità verso i partigiani. Tra i più implacabili accusatori dei patrioti troviamo proprio i sopravvissuti agli eccidi e quanti avevano corso il rischio concreto di perdere la vita o gli averi. Più tardi si aggiunsero, a soffiare sul fuoco dei risentimenti, i qualunquisti di tutte le risme e tanti fascisti interessati a annacquare le loro responsabilità.
In una memoria così abbandonata a se stessa, gli episodi di abnegazione e di coraggio dei partigiani finirono ben presto nel dimenticatoio, mentre furono fatti passare sotto la lente di ingrandimento tutti gli episodi “di roba e di sangue” – alcuni veri, ma altri gonfiati o inventati di sana pianta – che mettevano in cattiva luce il movimento resistenziale. Diversamente da quanto accaduto altrove, dove «con il passare del tempo […] la memoria della tragedia quasi sempre ha perduto quella traccia di ostilità antipartigiana, e i massacri sono stati di fatto incorporati nella grande narrazione della Resistenza» – ragion per cui i civili uccisi nelle rappresaglie sono stati «assimilati ai partigiani caduti in combattimento, gli uni e gli altri vittime del nazifascismo, gli uni e gli altri caduti nella Resistenza» (Contini) – in molti paesi dell’alta padovana il trascorrere del tempo non ha portato ad alcuna ricomposizione della memoria. […]
1 Il presente saggio, frutto di una prima elaborazione della relazione presentata al convegno di Cadoneghe il giorno 28 aprile 2000, è qui proposto con un apparato critico essenziale, in quanto rappresenta una sommaria anticipazione di tematiche e tesi che saranno oggetto di approfondimento in una prossima pubblicazione. La nuova ricerca – dal probabile titolo Patrioti contro partigiani. (Tra storia e memoria: G. Sabadin e l’estremismo moderato nella Resistenza delle Venezie. Trame, cadaveri e bufale eccellenti) – si giova di nuovo materiale archivistico, proveniente dalle sezioni “War Office” e “Foreign Office” del “Public Register Office”, che ha portato ad una sostanziale conferma delle tesi qui espose ed ha anzi consentito inopinati sviluppi di alcune intuizioni.
Egidio Ceccato, La memoria sconcertante. Miti e misteri nella Resistenza dell’Alta Padovana e del Veneto centrale, Centro Studi Ettore Lucini

In ogni caso la Resistenza si presenta oggi come un groviglio inestricabile di fatti e rappresentazioni, il cui valore morale e ideale non può essere valutato che in maniera unitaria.
Che le vicende dei “venti mesi” abbiano costituito una preziosa posta in gioco contesa da coloro che, nel dopoguerra, si sono battuti per la conquista dell’egemonia politica, lo dimostrano le aspre battaglie ingaggiate dopo la fine del conflitto proprio per elaborare ed imporre una memoria pubblica del biennio 1943-45 funzionale alle esigenze e agli obiettivi di ciascun contendente <1.
Rotta la fittizia unità ciellenistica che, specie nel Veneto, aveva mostrato crepe profondissime già negli ultimi mesi di guerra <2, le forze moderate scatenarono nell’immediato dopoguerra una offensiva culturale tesa a creare una netta distinzione tra la resistenza “cattiva” dei partigiani garibaldini-comunisti <3, intenzionati ad alzare il livello dello scontro e della violenza, e la resistenza “buona” dei patrioti anticomunisti, impegnati a liberare l’Italia dagli occupanti con iniziative per quanto possibile non violente <4.
In quegli stessi anni il Pci, dal canto suo, si limitò, almeno nel Veneto, a rivendicare la sua partecipazione non marginale ad una lotta di liberazione intesa come quinta guerra di indipendenza, con l’obiettivo dichiarato di accreditarsi come soggetto politico credibile ed accettabile per il ceto medio urbano di ascendenza patriottico-risorgimentale. E la guerra di classe, la “rivoluzione interrotta”? Nella nostra regione questi argomenti scomodi rimasero confinati ai dibattiti interni al partito, con funzione consolatoria per una base operaia ed intellettuale sempre più marginalizzata e frustrata nelle sue aspirazioni <5.
La “narrazione antifascista” ritrovò una certa unitarietà dopo la fine della fase più aspra della guerra fredda e con l’instaurarsi in Italia di un clima politico sempre più favorevole agli accordi di centro-sinistra; un’evoluzione, già evidente a livello nazionale dopo il 1955, che nel Veneto si manifestò pienamente con un certo ritardo, nella seconda metà degli anni sessanta <6.
[…] In effetti, dopo la Liberazione, l’atteggiamento dell’opinione pubblica locale verso i partigiani cambiò in maniera rapidissima, quasi da un giorno all’altro; e non solo nella zona della “Martiri del Grappa” ma in quasi tutti i paesi del Veneto rurale.
Ad Asiago, ad esempio, la grande rogazione, l’antica processione primaverile lungo i confini della parrocchia, si svolse solennemente il 9 maggio 1945 con la partecipazione dei partigiani armati, ai quali, in tal modo, veniva riconosciuto pubblicamente il ruolo di difensori del paese; uomini in armi ai quali, in nome di un superiore interesse, la comunità locale aveva affidato, in carenza di autorità statale, la gestione del potere di vita e di morte. Poi però, nel corso dell’estate del 1945, i parroci dell’Altopiano, che si erano mostrati fino ad allora favorevoli al movimento partigiano, cambiarono atteggiamento assumendo una posizione super partes; un tempestivo adeguamento, in linea
con la sperimentata strategia ecclesiastica di mantenimento di rapporti empatici con i ceti popolari, al radicale cambiamento in corso nel comune sentire resistenziale degli abitanti dell’Asiaghese <57.
Nell’Alta Padovana, i comandanti della prima brigata democristiana Damiano Chiesa così avevano descritto l’insurrezione finale in una relazione datata maggio 1945: “nei giorni 26-27-28-29 aprile battaglie e guerriglie infuriano in tutto il territorio della Brigata. È semplicemente ammirevole lo slancio e l’eroismo di tutti i capi, gregari, ausiliari e dell’intera popolazione civile. Le parole son ben poca cosa per descrivere una rivolta così completa e sentita di tutto un popolo dopo anni di oppressione e terrore” <58.
Ci sarà stata anche enfasi ed esagerazione in queste parole scritte a caldo; ma certamente esse non potevano non contenere un fondo di verità, come venne riconosciuto dagli stessi Alleati che dichiararono di non aver trovato ostacoli sulla loro strada, proprio grazie all’azione partigiana.
Eppure, solo qualche mese dopo (dicembre 1945), il viceprefetto di Padova, l’azionista camposampierese Attilio Gallo, diede le dimissioni per denunciare “la deleteria mentalità fascista che permea ed intossica tutte le attività” <59. Il repentino ritorno al potere in tanti paesi di campagna di un personale politico già compromesso con il fascismo dimostrava il fallimento del tentativo di scardinare gli antichi assetti del potere locale. I capi partigiani, sui quali avevano scommesso una parte dei giovani contadini, non erano riusciti a sostituirsi alle vecchie élites clerico-moderate, vuoi perché emarginati o uccisi nell’imminenza della Liberazione, vuoi perché impossibilitati, per estrazione sociale e formazione culturale, ad entrare in sintonia con la mentalità popolare e con le esigenze del patronage. Significativamente, il già citato viceprefetto Gallo presentò le sue dimissioni anche per denunciare “l’egoismo spietato della maggior parte della popolazione che tende solo al proprio egoistico interesse personale” <60.
In pochi mesi, nei paesi veneti ripresero vigore le vecchie informali reti di patronage impegnate ad attrarre finanziamenti pubblici per i bisogni infrastrutturali delle comunità locali e a fornire assistenza individuale ai contadini per le più svariate esigenze: pratiche burocratiche, ricerca di un posto di lavoro, agevolazioni per il servizio militare, assistenza emigratoria, ricoveri ospedalieri, prestiti, raccomandazioni varie, assistenza agli analfabeti, aiuti per far studiare i figli o per la cura degli anziani.
Preso atto della situazione venutasi a creare già alla fine del 1945, tutti quelli che poterono farlo rientrarono sotto l’ombrello protettivo dei vecchi “patroni”, rimuovendo eventuali esperienze resistenziali e velleità di rinnovamento; i più compromessi, invece, furono costretti ad andarsene.
E fu così che la Resistenza-guerra di popolo fu ben presto rifiutata e rimossa proprio all’interno delle comunità contadine che l’avevano alimentata; al punto che non è raro trovare nei paesi qualche anziano che nega recisamente la sua attività partigiana, ben documentata negli archivi resistenziali.
Al riguardo, Egidio Ceccato ha scritto che “la rappresentazione della resistenza [elaborata nell’alta padovana] poneva i partigiani, autori di soprusi e vendette, sullo stesso piano dei loro fratelli fascisti, indotti a rispondere alle provocazioni dei primi con rappresaglie e con una spietata caccia all’uomo” <61: tutti invasori venuti dall’esterno a violare gli spazi intangibili di comunità incolpevoli.
Tenendo presente l’insegnamento di M. Halbwachs <62, occorre riconoscere che la costruzione di una memoria negativa della Resistenza in ampie zone del Veneto rurale non fu il risultato di un’azione scientemente voluta dalle élites conservatrici, ma l’esito inevitabile di dinamiche memoriali innescatesi spontaneamente all’interno di ciascun gruppo sociale paesano; una scelta della comunità locale, in gran parte inconsapevole, finalizzata all’autotutela e alla sopravvivenza. In questi paesi l’ideologia della Resistenza intesa come quinta guerra di indipendenza, elaborata sia dal Pci che dalle élites moderate urbane, non oltrepassò i limiti di rachitiche e burocratiche cerimonie ufficiali; la retorica della bellezza della morte per la patria, fatta propria dalla memoria pubblica resistenziale, non poteva certo far breccia tra popolazioni rurali ancora impegnate nella difficile impresa di procurarsi il minimo vitale.
E fu così che la memoria paesana rimase totalmente separata da quella pubblica per molti decenni, nonostante l’azione potenzialmente omologante dei mass media novecenteschi. Un indicatore significativo per farsi un’idea della geografia della memoria separata e del rifiuto della Resistenza è rappresentato dai risultati del referendum monarchia-repubblica del 2 giugno 1946. La monarchia vinse nettamente, con percentuali di voto superiori al 75%, nel cuore rurale della regione dove avevano operato prevalentemente formazioni partigiane vicine alla Dc e al Pda (mandamenti di Camposampiero, Castelfranco Veneto, Bassano e in parte di Cittadella, centri urbani esclusi); nei comuni collinari e montani ai confini tra Vicenza e Verona dove si erano insediati prevalentemente i garibaldini (Val d’Alpone, Val del Chiampo, Monti Lessini); in Alpago, nel basso Bellunese, dove aveva operato la divisione “Nannetti”; e infine in qualche altra zona circoscritta come i Colli Euganei, parte dell’altipiano di Asiago e del Feltrino <63. Ancor oggi, sono queste le zone nelle quali appare più radicato il pregiudizio antipartigiano.
Il fallimento fattuale e memoriale della Resistenza rurale, rimossa e criminalizzata fin dal 1946, rigettò i contadini nelle braccia dei “patroni” più conservatori. Tuttavia, tra le pieghe più recondite della memoria non solo degli sconfitti – quelli che avevano dovuto andarsene e quelli che erano stati costretti a rinnegare le proprie scelte per poter continuare a vivere nella comunità – ma di gran parte della società locale, sopravvisse il ricordo amaro di speranze e di illusioni perdute.
Un libretto recentemente pubblicato, titolato “Masaccio: il tesoro scomparso”, al di là delle intenzione del suo autore che si proponeva di offrire un contributo storiografico utile per la ricostruzione oggettiva dei fatti, costituisce invece uno straordinario documento un po’ naif, pressoché unico nel suo genere, utile per cominciare a capire quali fossero le regole e i meccanismi che presiedevano alla costruzione delle rappresentazioni del passato in ambiente popolare. Nel ricordo doloroso dei suoi compagni contadini, la figura di Masaccio [Primo Visentin] viene mitizzata: un eroe popolare alla Robin Hood, senza macchia e senza paura, che si batte per sconfiggere i cattivi e far trionfare il Bene.
Nel linguaggio e nella cultura contadina mancavano strumenti adeguati per affrontare e illustrare tematiche quali l’impegno politico e le battaglie ideali. Per raccontare e spiegare, a se stessi prima che agli altri, le speranze suscitate dalla presenza e dall’azione di un uomo come Primo Visentin, i suoi più stretti collaboratori – e con loro anche gran parte della società locale – furono perciò costretti ad elaborare sommessamente una narrazione fantastica, costruita peraltro sulla base di fatti almeno in parte oggettivi; ripensati e reinterpretati in funzione delle esigenze dell’immaginario popolare. E non avrebbe potuto andare diversamente in un ambiente socioculturale che aveva appoggiato la Resistenza per una pragmatica scelta di convenienza, l’unica possibile in quel contesto.
Si narra dunque che Masaccio avesse accumulato e nascosto “non milioni, forse miliardi, una quantità inimmaginabile di denaro”: “molti barili pieni zeppi di soldi, oro, gioielli, portafogli, orologi; un tesoro immenso” <64, proveniente dai lanci alleati o requisito ai fascisti e ai tedeschi. “Nelle nostre campagne erano stati interrati barili e barili di soldi; quelli a casa erano poca cosa in confronto. Non solo sotto le vigne, anche sotto gli alberi c’erano casse di ferro piene di soldi” <65. Un “tesoro talmente grande da far ripartire l’economia […] se non del Veneto, certamente del Trevigiano e del Vicentino” <66, ha commentato l’autore. Tutto sparì dopo la morte di Masaccio. “Come dappertutto quando c’è qualcosa da sgraffignare, si son buttati dentro [alla Resistenza] i disonesti, i ladri e molto peggio. […] Le stesse persone che poi hanno ucciso il Masaccio per rubare alla collettività tutti quei danari che sarebbero serviti alla ricostruzione” <67.
In queste narrazioni favolistiche, c’è un fondo di verità. Con l’uccisione di Masaccio e con l’emarginazione e la neutralizzazione di tanti altri capi partigiani di estrazione rurale, la società contadina del Veneto centrale fu effettivamente derubata di un tesoro di inestimabile valore: un patrimonio di consenso e di fiducia popolare verso una nuova classe dirigente emergente che avrebbe potuto portare, nel lungo periodo, al definitivo superamento di antichi sentimenti di rifiuto e di ostilità nei confronti dello Stato e delle sue istituzioni; un obiettivo invano perseguito dalle classi dirigenti liberali postrisorgimentali che non erano mai riuscite, nonostante l’impegno pedagogico, a “fare gli italiani”. I contadini e, nei decenni successivi, i loro eredi operai-contadini e piccoli imprenditori rimasero ai margini della vita democratica, diffidenti e ostili; incapaci di esercitare in prima persona i diritti di cittadinanza.
[NOTE]
1. Sulla costruzione della memoria resistenziale nel Veneto: E. Ceccato, La memoria mutilata. Rappresentazioni della Resistenza nel Veneto bianco, “Venetica”, terza serie, 6, 2002, pp. 173-212; Id., La memoria sconcertante. Miti e misteri della Resistenza dell’Alto Padovano e del Veneto centrale in Veneto e Resistenza tra 1943 e 1945. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, a cura di L. Vanzetto, Padova 2001; Id., I giorni del lutto e del riscatto 1940-1945. Guerra e Resistenza a Campo San Martino, Curtarolo e Piazzola sul Brenta, Limena (Pd) 2006, in particolare pp. 257-282; M. Simonetto, Storiografia della resistenza nel Trevigiano. Motivi politici e sociali 1945-1995, Treviso 1996; E. Franzina, La memoria breve. Fascismo e resistenza nel “ricordo dell’altro ieri” (1945-1948), in La società veneta dalla resistenza alla Repubblica, a cura di A. Ventura, Padova 1997, pp. 673-693; S. Morgan, Rappresaglie dopo la resistenza. L’eccidio di Schio tra guerra civile e guerra fredda, Milano 2002; Memoria della resistenza. Una storia lunga sessant’anni, a cura di A. Casellato e L.Vanzetto, “Venetica”, terza serie, 11, 2005; L. Vanzetto, La resistenza nel Veneto, in Italia 1943-1945. Resistenze a confronto, a cura di A. Gianola e M. Ruzzi, Associazione “Resistenza sempre”, Chiusa di Pesio (Cn) 2008, specialmente pp. 22-26.
2. E. Ceccato, Patrioti contro partigiani. Gavino Sabadin e l’involuzione badogliana nella resistenza delle Venezie, Verona e Treviso 2004; Id., Freccia, una missione impossibile. La strana morte del maggiore inglese J. P. Wilkinson e l’irresistibile ascesa del col. Galli al vertice militare della Resistenza veneta, Verona e Treviso 2004. Inoltre Politica ed organizzazione della resistenza armata. II. Atti del Comando Militare regionale veneto, a cura di C. Saonara, Vicenza 1993; L’insurrezione e il partito. Documenti per la storia dei Triumvirati insurrezionali del partito comunista e atti del triumvirato veneto, a cura di C. Saonara, Vicenza 1998. Già nel 1977, il comunista G. Gaddi concludeva il volume I comunisti nella Resistenza veneta (Milano 1977), osservando che l’unità della Resistenza “almeno nel Veneto fu in gran parte fittizia” (p. 185). Sulla delicata situazione creatasi in Veneto nei primi mesi dopo la Liberazione, si veda: M. Ruzzi, Spionaggio, controspionaggio e ordine pubblico in Veneto, aprile-dicembre 1945, Verona 2010; F. Agostini, The Venezie region after the Liberation. From regional commissioner John K. Dunlop’s monthly reports (May-December 1945), “Annali della Fondazione Mariano Rumor”, III, Vicenza 2009, pp. 131-235.
3. Il Pci cercò di ostacolare, senza successo, la pericolosa tendenza linguistica, innescata dai moderati, ad attribuire identico significato a termini quali “partigiano”, “garibaldino”, “comunista”: Gaddi, I comunisti cit., p. 119 (ma si veda anche G.E. Fantelli, La Resistenza dei cattolici nel padovano, Padova 1965, p. IX).
4. E. Franzina, L’azione politica e giudiziaria contro la resistenza (1945-1950), in La Democrazia Cristiana dal fascismo al 18 aprile, a cura di M. Isnenghi e S. Lanaro, Venezia 1978, pp. 242-247; Ceccato, La memoria mutilata cit., specialmente pp. 189-192.
5. Esemplare la vicenda politica ed esistenziale di Gaddi proposta da A. Casellato, Giuseppe Gaddi, Verona 2004, spec. pp. 134-148.
6. Gaddi, nel citato volume I comunisti nella resistenza veneta, solo verso la metà degli anni settanta coglie i sintomi di “un processo unitario in corso, accelerato dalle celebrazioni del 30° anniversario della Resistenza” (p. 21).
57. L. Vanzetto, La Resistenza in Altopiano: una guerra di autodifesa della comunità, in L’Altopiano dei Sette Comuni, a cura di P. Rigoni e M. Varotto, Verona 2009, pp. 382-383.
58. Ceccato, Il sangue e la memoria cit., p. 174.
59. Ivi, p. 213.
60. Ibidem.
61. Ceccato, Patrioti contro partigiani cit., p. 23.
62. M. Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di P. Jedloski, Milano 1987; Id., I quadri sociali della memoria, Napoli 1997.
63. Vanzetto, Geografia partigiana cit., pp. 110-112.
64. Monegato, Masaccio: il tesoro cit., p. 106.
65. Ibidem.
66. Ivi, p. 157.
67. Ivi, pp. 128 e 130.
Livio Vanzetto, L’eredità della Resistenza nel Veneto in Il Veneto nel secondo Novecento, FrancoAngeli, 2015

Fonte: G.E. Fantelli, Op. cit. infra

12. – I cattolici che avevano sostenuto fin dall’inizio la necessità che le formazioni militari operassero sotto un comando unificato indipendentemente dai partiti, si trovarono ad aver ragione quando le formazioni garibaldine incominciarono a sfaldarsi per dissensioni interne dovute alle imposizioni autoritarie del Partito e al politicantismo propagandistico che esercitavano tra i gregari; fu questo il periodo in cui fiorirono le Brigate del Popolo, quelle apolitiche e le interpartitiche. Se la guerra fosse continuata più a lungo, la Democrazia Cristiana avrebbe potuto mettere in piedi un numero ancor maggiore di Brigate del Popolo e di Brigate apolitiche.
13. – Anche tra i Cattolici della Resistenza ci furono i santi e i meno santi (come ci furono tra i garibaldini e tra le altre Brigate); ma bisogna riconoscere che gli ideali religiosi e il loro influsso moderatore mantennero l’azione militare dei cattolici entro i limiti dell’umanità, della giustizia e del senso di responsabilità verso la popolazione in mezzo alla quale avveniva. Se presso le Brigate cristiane si verificò qualche azione militare che portò alle rappresaglie nazifasciste, ciò fu dovuto non al cinismo dei capi, ma alla loro inesperienza e agli imprevisti della guerra; se si dovette procedere contro spie o criminali fascisti si operò nel pieno rispetto della persona umana e in seguito a prove vagliate da un tribunale regolare; se si dovette provvedere alle necessità elementari dei gregari, non si ricorse mai alle ruberie e alle estorsioni, ma si procedette coi mezzi e nelle forme proprie di una società civile.
14. – Con questo spirito di moderazione e di misurato autocontrollo, non si possono certamente creare dei miti presso le popolazioni, che restano colpite più da ciò che è appariscente ed esagerato che da ciò che è umile e normale; più dal male che dal bene, tanto più se questo bene è frutto di astensione voluta e cosciente. Ma la storia che sfronda i miti e che vaglia le azioni degli uomini farà un giorno giustizia per tutti; anche se non così perfetta, come quella di Dio.
15. – A confondere poi le idee sulla Resistenza e addirittura a sovvertirle, dopo la liberazione, venne la propaganda comunista che se ne appropriò tutti i meriti e creò presso l’opinione pubblica un suo particolare mito. Se c’è in Italia una regione in cui tale mistifìcazione sia storicamente falsa è proprio nella Diocesi di Padova, per non dire addirittura in tutta la Venezia Euganea. Così, mentre i Cattolici si adoperavano onestamente a fare in modo che non sorgesse uno squadrismo di nuovo conio, i comunisti lavoravano proprio alla creazione delle nuove «sciarpe littorio». Fortunatamente, più tardi, anche i dirigenti del Partito Comunista capirono l’errore e cambiarono tattica.
16. – I postulati etico-religiosi della Resistenza, finora tanto trascurati, sono invece i più importanti di tutti quelli sui quali gli storici vanno affannandosi. Con la crisi dello Stato Etico, la Resistenza li ha portati al posto più alto, in luogo dei postulati politico-secolarizzati, propri delle dittature del secolo ventesimo e se la Resistenza si distingue da qualunque altra guerra è proprio per i problemi morali fondamentali all’Umanità, di cui essa si è fatta paladina, sia pure attraverso gli errori e le passioni proprie degli uomini: gli ideali cioè della libertà, della dignità umana, della giustizia, della democrazia. Ma finché si riducono questi ideali a puri problemi di politica (come pretende fare qualche partito) l’Umanità avrà sempre da tremare terrorizzata e inquieta. Non per i partiti politici (se si escludono i comunisti militanti) morirono centinaia di partigiani veneti, ma per l’affermazione di questi valori eterni, mentre non sapevano se il loro sacrificio sarebbe stato «politicamente» valido: poteva anche non esserlo qualora le sorti esterne della guerra fossero improvvisamente mutate, ma questo non aveva importanza «ciò che importa è l’idea» diceva Giacomo Chilesotti. Giova pur sempre ricordare ai politici immemori l’antico principio che «non è il martirio che fa il martire, ma l’idea per la quale egli si immola» perché solo in questo senso la Resistenza continua e deve continuare sempre con la rigenerazione di noi stessi prima di tutto e poi della Società. «Noi combattiamo per rinascere – diceva Giovanni Carli – se rinascita ci sarà, essa dovrà venire da noi».
G.E. Fantelli, La Resistenza dei cattolici nel Padovano, F.V.L., 1965

Primo Visentin (“Masaccio”)

“Se lottiamo sinceramente per un ideale, se vogliamo veramente rifare un’Italia, bisogna condurre a fondo l’opera di purificazione delle nostre coscienze, eliminando la cancrena più vergognosa della vita civile: la disonestà.
Il profondo e giusto disprezzo degli stranieri per noi italiani è originato appunto dalla convinzione che, nella maggioranza dei casi, italiano sia uguale a ladro.
O noi bruciamo questa piaga schifosa o saremo sempre un popolo senza dignità e senza onore.
La purificazione deve cominciare dalle formazioni partigiane. Le squadre devono essere composte da elementi onesti e disinteressati, magari poveri e straccioni, con le scarpe rotte e la fame in corpo, ma con la coscienza pulita. Solo così potremo pretendere, domani, in nome della giustizia, l’affermazione integrale dei diritti del popolo. Ogni organizzato deve indirizzare la propria coscienza sul binario dell’onestà. […]”
Il comandante di brigata MASACCIO
Questo scrisse nei concitati giorni di guerra “civile” e di Liberazione 1944/’45 il comandante partigiano Primo Visentin “Masaccio” di Poggiana di Riese (TV). Il maestro di campagna dagli ideali puri, dalla fede solida, teso al perfezionamento della sua anima. L’uomo responsabile di aver fatto saltare in aria, assieme ad Andrea Cocco “Bill” e le loro squadre, il ponte Vecchio di Bassano del Grappa (VI) il 17 febbraio 1945, per evitare che fossero gli Alleati a bombardarlo con danni irreparabili per il centro storico. Il partigiano che nei giorni della Liberazione, il 29 aprile 1945, chiamato in causa per un gruppo di tedeschi ancora presenti in territorio, in quel di Loria (TV), veniva ucciso da un’arma da fuoco alla schiena nel tentativo di disarmare i soldati; morte ancora non chiarita. Forte rimane il dubbio se egli fu vittima di un accerchiamento tedesco, come fu subito dichiarato, o di fuoco “amico” partito da uno o più partigiani della sua stessa squadra. Con intenzione oppure no. Volontà politica o personale. Nulla è stato chiarito!
All’Onestà egli richiamava.
Spesso senza ottenere risposta.
Fonti e consigli di lettura:
– Gianfranco Corletto, “Masaccio e la resistenza tra Brenta e Piave”, Neri Pozza I ed. 1965; Grafica Veneta III ed. 2015: p. 121, ordine del giorno n.5.
– “Primo Visentin Masaccio – medaglia d’oro al valor militare nel 45° della sua morte”, tipografia Moro, Cassola, 1990.
– Egidio Ceccato, “La morte del comandante partigiano Masaccio, delitto senza castigo”, Centro Studi Luccini, 2009.
Paolo Meggetto, Divisione “Monte Grappa”. Brigata “Martiri del Grappa”. Ordine del giorno n.5: ONESTÀ, Frammenti di Storia, 25 aprile 2021

Solitamente si è soliti pensare allo spionaggio e al controspionaggio come ad uno Stato parallelo, a una dimensione altra, a un sottobosco di figure ambigue che si muovono al di là della legalità. Una rappresentazione reale, ma l’affresco che esce dal libro Marco Ruzzi – archivista oltre che studioso della Resistenza – è molto più articolato. L’a. offre infatti una ricostruzione analitica basata sui reports delle sezioni della Field security britannica e della Sicurezza militare italiana relativi alle province venete per i mesi che vanno dalla Liberazione al dicembre 1945. Oltre a fornirci le coordinate per muoverci all’interno di un argomento che può essere a prima vista molto scabroso e scivoloso, l’a. dimostra quanto strette siano le connessioni tra i servizi segreti alleati e gli apparati (in particolare agenti di pubblica sicurezza e carabinieri) che nell’immediato dopoguerra hanno il compito di mantenere l’ordine pubblico in Italia. Una collaborazione, una connivenza e in molti casi una solo apparente distinzione dei compiti: atteggiamenti e comportamenti che hanno un unico obiettivo, ovvero depotenziare le spinte del Cln.Colpisce la vastità di quel reticolo di informatori e confidenti che, nella zona grigia dei mesi successivi alla guerra, si muove tra postfascismo e riflusso del movimento resistenziale, tra desiderio di ritorno all’ordine e anticomunismo; comunque all’interno di uno scontro ideologico tra i maggiori partiti di massa, in primis la Democrazia cristiana e il Partito comunista, dove questi attori sono una parte non disinteressata, anzi pienamente consapevole dell’evoluzione politica in corso. Se molti elementi erano già noti agli studiosi locali, il volume di Ruzzi ha il merito di sistematizzare le informazioni e di collegarle seguendo passo passo le vicende di un dopoguerra che nel Veneto vede una gestione dell’ordine pubblico contesa e problematica, lo scoppio di tensioni sociali che si acuiscono con la smobilitazione partigiana e l’involuzione moderata della Resistenza. Del resto stiamo parlando delle province che erano state i centri del «governo diffuso» della Rsi. Il punto di vista esterno fornito dai reports dell’intelligence inglese consente inoltre di guardare gli eventi con un occhio più distaccato, di contestualizzare in maniera corretta la dimensione della cosiddetta «resa dei conti», di fornirci le prove dell’attivismo del movimento partigiano e delle sue relazioni internazionali per evitare una deriva conservatrice o addirittura reazionaria. Nel complesso si tratta di un libro molto ben documentato e con un solido apparato critico. Di una certa utilità i profili biografici posti alla fine del volume, relativi a figure anche poco note citate nel testo e che aumentano l’interesse per un network variegato. Troppo debole invece l’appendice documentaria che, per un libro che utilizza una grossa mole di fonti provenienti soprattutto dagli archivi inglesi e tutte di rilievo, avrebbe potuto essere ben più robusta.
Daniele Ceschin, Marco Ruzzi, Spionaggio, controspionaggio e ordine pubblico in Veneto. Aprile-dicembre 1945, Sommacampagna, Cierre, 224 pp., € 12,50 2010, Sissco Società italiana per lo studio della storia contemporanea

Ciò detto, dalla primavera del ’44 si aggiunse una tipografia clandestina nella canonica di Campigo di Don Carlo Davanzo, paese situato nei pressi di Castelfranco.
L’8 maggio questa stamperia diede alla luce un giornale clandestino: Il Castellano. Di questa attività dà notizia lo storico Giancarlo Corletto, che descrive la nascita e il tenore dell’iniziativa: “A Carlo Magoga viene l’idea di stampare, a ciclostile, un giornaletto locale. Circolavano parecchi giornali dei vari partiti politici, ma mancava un giornale locale. Il Magoga si consulta con l’amico Bruno Sagui e, insieme, si portano da Don Carlo Davanzo, a Campigo. […] Qui incontrano Gino Sartor e Gino Filippetto. L’idea è accolta favorevolmente; i sopraddetti s’improvvisano redattori; collaborano al giornale anche l’avv. Domenico Sartor e Masaccio.” <230
De Il Castellano rimangono soltanto 5 dei 6 numeri editi, tutti non datati. Sempre Corletto afferma che “Inizialmente, a causa della penuria di carta, la tiratura è di 200 copie, poi, venuti in possesso, con un colpo di mano, di parecchia materia prima, la tiratura aumenta considerevolmente. La distribuzione avviene col sistema della cellula chiusa. Il giornaletto viene letto avidamente e passato di mano in mano” <231
Ma l’attività di questa stamperia terminò bruscamente nell’agosto del 1944, come scrive Giuliano Ramazzina, quando “[il lavoro venne] abbandonato dovendosi attendere ormai esclusivamente all’attività militare”. <232
Nei suoi scritti Gino Trentin parla però di una perquisizione operata dalle SS il 6 agosto 1944 nella chiesa di Campigo. Probabilmente Don Davanzo attirò l’attenzione perché, oltre ad ospitare la pedalina, dava rifugio anche ad alcuni soldati inglesi. <233
[…] Portiamo via anche una macchina da scrivere, un clichet, un ciclostile e tutte le carte d’identità, che ci serviranno per poter elaborare falsi documenti di riconoscimento.” <237
Sempre Trentin spiega come questo materiale fosse stato occultato presso casa sua: “Nei mesi successivi la mia casa si trasforma in un vero e proprio laboratorio logistico. Alcuni dei miei ospiti preparano false carte d’identità, altri preparano armi per le azioni che compiremo, altri, ancora, scrivono e ciclostilano documenti di vario genere” <238
Al di là dei riferimenti citati, non si trovano più notizie dei ciclostile e delle posizioni che questi occuparono. Sta di fatto che rimangono la copia del foglio clandestino sopraccitato (Il torrione) e altri riferimenti lasciati da Rizzo sulla capacità che vi era nella ‘castellana’ di redigere e stampare propaganda autonomamente. Nel suo diario ci sono infatti due riferimenti ad azioni di propaganda, il primo, di mercoledì 27 settembre, in cui dice: “Viene presentato da Masaccio <239 il testo di un manifesto alla popolazione sui fatti del Grappa. Se ne decide la pubblicazione”. <240
[…] La popolazione fu il soggetto più importante che la propaganda partigiana interpellò. Come in ogni movimento di resistenza popolare i partigiani erano dipendenti, in termini materiali e morali, dai territori nei quali combattevano. Si scrive ‘morali’ perché la lotta partigiana era giustificata idealmente proprio dalla popolazione, che i resistenti difendevano da tedeschi e fascisti. Infatti liberare la nazione occupata, salvaguardare il patrimonio industriale, architettonico e rurale erano obbiettivi tutti collegati alla difesa dei civili. Per questo i resistenti non potevano semplicemente limitarsi a mantenere la pacifica coesistenza con le popolazioni coinvolte nel conflitto. Il rapporto di collaborazione, e di adesione alla causa, era indispensabile per assicurare le risorse materiali ed umane vitali al movimento. Non si poteva peraltro utilizzare la logica contrattualistica con la quale operavano le forze armate tedesche. Proprio per questi motivi la via seguita dai nazisti e dalla RSI, che alternavano le lusinghe all’uso del terrore, <473 non si sarebbe dimostrata vantaggiosa per i resistenti. Per tali ragioni i partigiani cercarono in ogni modo nella loro propaganda di avviare un dialogo con la popolazione per ottenerne l’appoggio.
Come si è anticipato, Maurizio Reberschack individua una particolare impostazione tenuta dai resistenti nel rivolgersi alla popolazione. Essi posero su due piani completamente diversi Resistenza e nazifascismo. Nei manifesti, la lotta resistenziale era diretta espressione del popolo e i garibaldini si proclamavano essere i suoi “figli migliori” che lottavano con “umanità”. Nazismo e fascismo erano invece la “belva nazifascista”, inumana e ferina. Quindi, al di là del messaggio che doveva essere diffuso, la propaganda non mancava mai di sottolineare lo stretto rapporto di unione tra popolo e partigiani e la diversità dai nazifascisti.
[NOTE]
230 Gianfranco Corletto, Masaccio e la resistenza tra il Brenta e il Piave, Vicenza, Neri Pozza, 1965, p. 47.
231 G. Corletto, Masaccio e la resistenza tra il Brenta e il Piave, op. cit., p. 47.
232 Giuliano Ramazzina (a cura di), La resistenza castellana negli scritti di Enzo Rizzo, Treviso, ISTRESCO, 1995. pp. 27-28.
233 Giacinto Cecchetto (a cura di), La Resistenza tra Resana e Castelfranco Veneto nella testimonianza di Gino Trentin, Castefranco Veneto, Cavasin, 1991, p. 21-22.
237 G. Cecchetto, La Resistenza tra Resana e Castelfranco Veneto nella testimonianza di Gino Trentin, op. cit., p. 24.
238 G. Cecchetto, La Resistenza tra Resana e Castelfranco Veneto nella testimonianza di Gino Trentin, op. cit., p. 24.
239 Primo Visentin, noto capo partigiano cattolico che operò nella zona di Castelfranco.
240 G. Ramazzina, La resistenza castellana negli scritti di Enzo Rizzo, op. cit., p. 15.
473 Lutz Kilkhammer scrive “Il terrore nei confronti della popolazione civile era dunque un mezzo di lotta messo in conto freddamente, e che mirava a un duplice scopo: da un lato si sperava in tal modo di attizzare l’odio della popolazione civile contro i partigiani, dall’altra doveva servire come mezzo di pressione sui ribelli, che di regola agivano nella propria regione”. Cfr. Gustavo Corni, Il sogno del grande spazio, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 190.
Giuliano Casagrande, Le parole della Resistenza. La propaganda partigiana nel Trevigiano, Tesi di Laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2012/2013

Ermes Farina è nato a Pianezze (Vi) il 24 agosto 1920. Iscritto alla Fuci, militare sino all’8 settembre, si unisce alla Resistenza cattolica, prima a Marostica nella Brigata “Giovane Italia”, assumendo nell’autunno del 1944 il ruolo di rappresentante democristiano nel Comando militare provinciale di Vicenza. Nella primavera del ’45 subisce due arresti.
[…] Secondo lei il ruolo dei cattolici nella Resistenza è stato maggiore nel vicentino che non nelle altre province venete? È stata una particolarità della provincia di Vicenza?
Direi della provincia di Vicenza e anche di gran parte della provincia di Padova. Ma anche a Verona. Nel vicentino proprio in forma massiccia e con grandi apporti. Nella provincia di Vicenza si erano costituite tre divisioni importanti: la Divisione “Vicenza”, interpartitica (riconosceva i diversi partiti, tant’è vero che il comando era costituto da elementi indicati dai partiti), la Divisione “Ortigara”, apolitica (non voleva intromissioni dei partiti, ma era praticamente anticomunista, perché aveva avuto vicissitudini con la “Garemi”) e la Divisione “Garemi”, comunista. Nel febbraio ’45 c’è stata un’apposita riunione, in canonica a Povolaro, per definire la divisione delle aree della provincia di Vicenza: la zona del Pasubio, con Valdagno ecc., alla “Garemi”; la zona dell’Altopiano di Asiago, con la pedemontana, all’“Ortigara”; il resto della pianura alla Divisione “Vicenza”, che assumeva allora questo nome al posto di Comando Militare Provinciale: teoricamente il Comando Militare Provinciale aveva ingerenza anche nella “Garemi” e nell’“Ortigara”, ma in pratica governava il territorio che non era competenza di queste due. Faceva eccezione la “Giovane Italia” che fino al febbraio ’45 dipendeva dal Comando Militare Provinciale ma in quella riunione, per uniformità, fu aggregata all’“Ortigara”. Nonostante questa delimitazione delle aree di competenza, la “Garemi” aveva delle intrusioni nella zona del l’“Ortigara”, tant’è vero che il comandante della “Garemi” viveva a Breganze, nell’area dell’“Ortigara”, pur non avendo là il suo comando. La Divisione “Vicenza” è stata poi quella che, alla data dell’attribuzione della medaglia d’oro alla città di Vicenza [1995] (la seconda medaglia d’oro, dopo quella del 1848), aveva tutti i comandanti vivi: comandante della Divisione, vicecomandante, commissario, vicecommissario e intendente; e in più anche i comandanti di brigata erano vivi, a quella data (poi, in breve tempo, se n’è andato più di qualcuno…).
[…] Mi dica qualcosa sul dopoguerra: quali sono state le sue impressioni sul rapporto tra Resistenza e dopoguerra? I valori che voi rappresentavate sono stati espressi?
No, nel dopoguerra io ho avuto parecchio da contrastare coi miei democristiani – e in particolare con lo stesso Mariano Rumor – perché non veniva valorizzata la Resistenza. Anche Rumor, che era stato inquadrato proprio nella mia formazione, non ha dato seguito. Mi pare sia stata abbastanza palese la volontà di non dare corda ai comunisti che avevano innalzato la bandiera della Resistenza, per cui la Dc ha scelto la posizione opposta. Ma noi lamentiamo che, in questo modo, tutta la quota resistenziale cattolica è andata a finire in ombra; mentre, se andiamo nel vicentino, per lo meno due terzi della Resistenza era costituito da cattolici. Il fatto stesso che noi andassimo in qualsiasi canonica e trovassimo le porte aperte… ogni volta che io andavo nella canonica di Breganze il parroco appena mi vedeva diceva: «Maria, intanto daghe da magnar, e dopo parlemo!». Ed era dappertutto così. Un’altra volta, ad una congrega (una riunione di preti) dovevo andare a parlare con un altro sacerdote e il mio parroco, che ovviamente conosceva le mie attività, mi ha preso in disparte e mi ha detto «hai bisogno di soldi?». Questo era lo spirito, dappertutto, nel vicentino; ma io frequentavo anche il padovano, essendo mia madre di S. Giustina in Colle (dove mio cugino è stato fucilato alla Liberazione), e vedevo che anche là i cattolici avevano preso le posizioni di comando, ed erano la prevalenza: quella era la zona seguita dell’avvocato Gavino Sabadin (la parte della provincia di Padova da Cittadella in giù, e la zona da Piove di Sacco a Montagnana).
Allora, secondo lei, la Dc ha in qualche modo sacrificato la memoria della Resistenza per opporsi al Pci che invece la esibiva?
Secondo me sì, così come ha sacrificato le vicende di Cefalonia, per non creare una situazione internazionale difficile. Sono pienamente convinto che sia stata la Democrazia cristiana; io ho fatto cinquant’anni in Democrazia cristiana, avendo cominciato nel ’43 e finito nel ’93.
Giovanni Sbordone, Intervista a Ermes Farina, Memoria resistente, Iveser, 2003