Sulla morte del patriota antifascista triestino Luigi Frausin

Trieste – Fonte: Wikipedia

Dai percorsi esistenziali dei due resistenti non sono stati omessi gli aspetti controversi, in primis la questione, spesso evocata ma di rado approfondita, della soffiata costata la vita a Frausin, o della «delazione slava»[…] Partendo dagli ambienti di nascita e seguendone le vicissitudini cercheremo, fintanto che i documenti lo consentiranno, di tratteggiare attendibilmente i volti politici dei due comunisti, inserendoli nella giusta cornice storica e tentando, per questa via, d’apportare nuove conoscenze sull’antifascismo e la resistenza in Italia e in Europa. Frausin e Kolaric erano nativi di Muggia, della Muggia industriale a cavallo dei due secoli, sede dell’Arsenale triestino e del Cantiere navale San Rocco; luogo propizio alla nascita di una classe operaia legata alla produzione navalmeccanica, progressivamente staccatasi dal lavoro agricolo in favore del porto e della fabbrica. La storia economica e sociale di queste industrie costituisce uno sfondo indispensabile per cogliere lo sviluppo di un sostrato politico entro cui i due crebbero, sposando dapprima la causa socialista ed evolvendo poi verso il comunismo […] Sema ha così condensato le tappe iniziali del percorso del muggesano [Luigi Frausin]: nato il 21 giugno 1898 da Giorgio e Caterina Trebian, affiancò sin dall’infanzia il padre nel mestiere di pescatore, prese la licenza elementare, entrò precoce nelle fila socialiste, divenne carpentiere al S. Rocco e nei cantieri di Trieste e Monfalcone, partecipò al Primo conflitto mondiale. Quella che il biografo ha aggiunto alle benemerenze del biografato e che a prima vista può apparire una semplice nota di colore, ossia il nomignolo affibbiatogli da fanciullo: Pimpano, c’introduce, a piccoli passi, nella dimensione psicologica del Frausin più maturo, quella segreta e cospirativa che spingeva i dirigenti e i membri del partito comunista con incarichi delicati ad adottare degli alias, pena il riconoscimento e la cattura. Postogna e Andrea Ricciardi hanno indicato lo pseudonimo di Frausin in Aristide, che non fu l’unico usato. Paolo Spriano ha menzionato una lettera, sequestrata al muggesano nel 1932, indirizzata al Centro interno dall’Ufficio politico del partito comunista sedente all’estero, che imponeva ai militanti incarcerati e confinati di non chiedere la grazia. La missiva è stata rinvenuta in un fascicolo depositato all’Archivio centrale dello stato denominato «Emissario comunista Pessina Pietro», vale a dire Frausin […] Frausin, raccontano le carte, fu a «capo degli arditi del popolo in un primo periodo e poi a capo della guardie rosse di Muggia». A prescindere dal turbinoso mutare delle sigle di questi corpi e dalle incongruenze con cui si trova a che fare chi voglia ripercorrerne le evoluzioni, variabili da zona a zona, non può esserci dubbio che per il muggesano, già abituatosi al sangue e alla fatica in trincea, la partecipazione al brutale confronto fisico con i fascisti, al combattentismo di strada in ruoli di comando, tanto da essere annoverato da qualcuno «fra i più spericolati» per la dimestichezza avuta con le bombe a mano, sia stata un ulteriore laboratorio antropologico, capace d’addestrarlo vieppiù alle tecniche di lotta e avvezzarlo agli stenti che avrebbero segnato, nel futuro imminente, la sua vita di fuggiasco […] Per avere informazioni di prima mano sul soggiorno francese di Frausin dobbiamo cedere la parola a Postogna: “Durante la mia permanenza a Parigi l’ho potuto conoscere meglio che a Muggia. Quando arrivai per la prima volta, chiamato dal partito su proposta dei compagni di Marsiglia, ero assieme a Ilio Barontini, un qualificato dirigente di Livorno: ad aspettarci alla stazione erano Luigi Longo (Gallo) e Luigi Frausin (Aristide). Quando lo incontrai e potei conoscere quali erano i suoi compiti prima della grande svolta e dopo (1929-1930), Gigi veniva già in Italia clandestinamente con passaporti e carte d’identità falsi. Più di qualche volta a Parigi, Gigi mi invitava a pranzo e alle volte venivano Grieco e anche Longo. Per quanto mi risulta, a quel tempo Frausin era già stato in Sicilia, a Milano, a Venezia e anche a Trieste” […] Luca G. Manenti, La rossa utopia. Luigi Frausin, Natale Kolaric e il comunismo internazionale (1918-1937) in «Qualestoria», n. 1 giugno 2019, Il comunismo nell’area Alpe-Adria. Protagonisti, miti, demistificazioni, Istituto Storico della Resistenza del Friuli Venezia Giulia

In questo clima claustrofobico da isolamento domiciliare, con prove in alcuni paesi europei di fascismo prossimo venturo, ho preparato questi brevissimi cenni sull’emigrazione politica clandestina dal Friuli, o che ha visto come protagonisti dei friulani, durante gli anni del fascismo. Emigrazione in uscita dall’Italia ma anche in entrata, durante la seconda guerra mondiale. Molte delle notizie che espongo sono state reperite nel corso di un progetto avviato dall’Aicvas e finanziato dal Ministero della Difesa, e presentate in occasione del convegno organizzato il 30 novembre 2018 dall’associazione a Gorizia, su: Vie di libertà e di lotta. Le vie di espatrio clandestino dall’Italia durante gli anni della dittatura fascista. Gli atti del convegno non sono stati ancora pubblicati. Qui voglio ricordare alcuni dei risultati di quella ricerca.
Quali erano i percorsi utilizzati nella nostra regione durante gli anni del regime per uscire clandestinamente dall’Italia? Possiamo ricordarne alcuni, ma i tragitti potevano cambiare sulla base della esperienza e della fantasia delle guide e delle situazioni via via determinate.
Le vie più utilizzate soprattutto dagli antifascisti di Trieste e Gorizia, di tutte le correnti politiche, erano quelle aperte dalle organizzazioni irredentiste slovene (Tigr). Un primo percorso conduceva da Čadrg, a nord est di Tolmino, nell’attuale parco del Tricorno, allora in Italia, sino ai laghi di Bohinj, in Jugoslavia, con un percorso in quota che non sono riuscito ad identificare con precisione e che probabilmente cambiava. Esistono alcune belle testimonianza di antifascisti italiani, comunisti ed anarchici, che hanno utilizzato questo passaggio, da “Adriano” (Giorgio Jaksetich) a Umberto Tommasini. Il secondo era nei pressi di Postumia, probabilmente attraverso la zona della Hrusica, il terzo sulle pendici del monte Jalovec / Gialuz, ad est di Cave del Predil. Le guide, come ha testimoniato uno dei protagonisti di quelle vicende, Dorče Sardoč, erano militanti antifascisti sloveni che facevano quel lavoro massacrante e pericoloso gratuitamente e per idealismo (D. Sardoč, L’orma del Tigr, Gorizia, Fondazione Dorče Sardoč – ZTT – Centro Gasparini, 2006 pp. 66 – 67). Le guardie confinarie jugoslave, quando intercettavano gli esuli, solitamente avevano indicazione di identificarli, rifocillarli ed inviarli verso Lubiana o altre città slovene. Se invece i fuggitivi cadevano in mano alle guardie confinarie italiane, erano incarcerati in base al reato di “tentato espatrio clandestino”.
Queste vie si fanno pericolose dal marzo 1937, dopo il patto tra i ministri degli esteri della Italia fascista e della monarchia jugoslava. Da quel momento le guardie confinarie jugoslave non accolgono più gli esuli antifascisti ma li respingono in Italia. Gli antifascisti anche friulani che escono dall’Italia clandestinamente dopo quella data lo fanno in buona parte valicando il confine dal Piemonte o dalla Lombardia verso Francia o Svizzera, talvolta senza guide, dopo aver ricevuto istruzioni sul percorso da seguire.
Nei primi anni Venti si espatriava, secondo Ignazio Silone, allora a servizio della polizia fascista, anche direttamente da Tarvisio. Era di una semplicità sconcertante: dall’osteria presso il confine gli antifascisti aspettavano l’ora del pranzo delle guardie confinarie per svignarsela a piedi verso Arnoldstein (D. Biocca – M. Canali, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Milano, Luni Editrice, 2000, pp. 186 – 187). Questa via diventa difficile dopo le relazioni di Silone e dopo il colpo di stato clerico – fascista di Dollfuss del 1933 che rende complicata la presenza di fuoriusciti antifascisti in Austria. Un terzo canale di espatrio era Fiume, dove qualcuno riusciva a passare profittando della distrazione delle guardie confinarie italiane, il canale che divideva la città dalla cittadina di Susak, posta in Jugoslavia. Felice Nappi/Knapič, futuro combattente di Spagna assieme al fratello Antonio, originario di Pola, lo ha descritto bene in una testimonianza in via di pubblicazione.
Una volta usciti dall’Italia questi esuli clandestini avevano una serie di “indirizzi” di associazioni e persone da cui potevano ottenere aiuti per proseguire il viaggio attraverso Austria, Svizzera e Francia. La Francia era in quel momento il crocevia dell’antifascismo europeo. Si trattava in ogni modo di un percorso complicato, pieno di rischi ma era un capolavoro di organizzazione che portava clandestinamente gli esuli politici a destinazione attraverso tre o quattro confini. […]
Marco Puppini, Espatri e rimpatri clandestini di antifascisti friulani negli anni del regime, Friuli Occidentale. La storia, le storie, 3 aprile 2020

da pagina 58 di Trieste nella lotta per la democrazia, edito a settembre 1945 da Comitato cittadino dell’U.A.I.S. Trieste, pubblicato sul Web da www.diecifebbraio.info

Qualche anno fa, nell’ambito delle mie ricerche sui collegamenti tra Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia ed il Comitato di Liberazione Nazionale triestino, mi sono imbattuta in una struttura piuttosto misteriosa: la “rete” o “missione” Nemo, per conto della quale sembrava essere giunto a Trieste il capitano di corvetta Luigi Podestà, che ebbe dei contatti piuttosto stretti con il commissario Collotti dell’Ispettorato Speciale e con i dirigenti della SS, e che definire ambigui è quantomeno riduttivo […] La riunione con il CLNAI si svolse il 14/7/44, in casa di un certo Carlo De Filippi (che era venuto a Trieste in giugno per parlare con Schiffrer e portargli dei fondi per il suo lavoro [77]), ed erano presenti, oltre ai “giuliani” Gaeta, don Marzari ed il comunista Luigi Frausin, il presidente del CLNAI Pizzoni, il liberale Giustino Arpesani (Giustino), il democristiano Achille Marazza (Fabio), il socialista Oliviero di cui Gaeta non sapeva il nome, l’azionista Leo Valiani (Leo), il comunista Dozza (Ducati) ed un “segretario del CLNAI” identificato come Cecconi, ma il nome in parentesi è cancellato [78]. Nell’accordo firmato a Milano si legga anche che “il CLNAI e l’OF ordinano al CNL per la Venezia Giulia ed al Comitato interregionale del fronte di liberazione per il territorio sloveno, di mobilitare al massimo le formazioni militari partigiane e di potenziare la lotta contro il nazifascismo” [79]. Ciò dovrebbe chiarire la posizione di subalternità in cui si trovava il CLN giuliano rispetto alla coalizione antifascista, cosa che non appare dalla storiografia “ufficiale” che invece tende ad attribuirgli una posizione egemonica in realtà non esistente. Nel corso degli incontri con l’OF (rappresentato da Anton Vratuša Urban e Franc Štoka), sia a Milano che poi a Trieste, la posizione estremamente nazionalista del CLN giuliano finì con l’impedire che si creasse un organismo di collegamento tra i due organismi [80]; ciò influì anche nei rapporti con il CLNAI, col quale alla fine fu il solo Partito comunista a mantenere dei collegamenti regolari, mentre il resto del CLN giuliano rimase isolato, quantomeno fino a dicembre, quando furono inviati a Trieste gli emissari della Rete Nemo. Tra agosto e settembre 1944 i nazifascisti operarono una grossa azione repressiva che portò all’arresto di una settantina tra comunisti (fra essi Luigi Frausin, assassinato dopo essere stato orribilmente torturato) e membri dell’OF, ed alcuni esponenti del CLN (Felluga, che morì a Dachau e, da quanto scrive, lo stesso Gaeta, che però sarebbe stato presto liberato [81]). Nell’ottobre del 1944 si formò quindi un terzo CLN, composto dal Partito d’Azione (rappresentato da Ercole Miani), dal Partito Socialista (Carlo Schiffrer), dalla Democrazia Cristiana (don Edoardo Marzari, presidente e tesoriere) e dal Partito Liberale (Antonio Selem): questo CLN non aveva rapporti con il CLNAI, che aveva mantenuto la linea espressa nel “Manifesto” di giugno, invitando i triestini che volevano lottare contro il nazifascismo a collaborare con l’OF. Paladin riferisce anche di uno scambio di messaggi tra Felluga e Valiani, in seguito ad un incontro (23/7/44) tra Felluga ed un rappresentante udinese del CLNAI, definito “rinunciatario” da Felluga perché invitava il CLN giuliano a lasciare da parte le questioni nazionali. Valiani rispose (2/8/44) ribadendo la linea della “difesa assoluta dell’italianità di Trieste, Fiume e via dicendo”, invitando a perseguire però la lotta comune e collaborare con PC e DC [82]. Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana su La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013

da pagine 59,60,61 di Trieste nella lotta per la democrazia, edito a settembre 1945 da Comitato cittadino dell’U.A.I.S. Trieste, pubblicato sul Web da www.diecifebbraio.info

[…] Giorgio Iaksetich entrò in possesso del documento tramite Lino Zocchi il 14 aprile 1974. Dopo aver diretto la Federazione del PCI a Bolzano negli anni Cinquanta e aver prestato servizio come lettore d’italiano all’Università di Budapest in Ungheria, Iaksetich era rientrato nella sua città natale nel 1971; da allora si era impegnato in un’intensa attività di studio e di ricerca sulla Resistenza al confine orientale italiano, con particolare riferimento alle vicende che determinarono nell’agosto 1944 la cattura e l’assassinio per mano nazifascista di Luigi Frausin, segretario del PCI a Trieste dall’agosto dell’anno precedente. Dalla fine della guerra, intorno alla questione delle cause e delle relative responsabilità dietro alla morte di Frausin, infuriava una «battaglia delle memorie» interna allo schieramento antifascista. Infatti, la tesi della «delazione slava» – e cioè del presunto tradimento perpetrato ai danni del segretario della Federazione del PCI dai vertici della Resistenza slovena, in virtù della sua asserita opposizione all’annessione di Trieste alla Jugoslavia – era stata avanzata e ribadita nei decenni dopo la guerra da settori significativi dell’antifascismo democratico giuliano, erede dell’esperienza dell’ultimo CLN di Trieste, a partire dai nomi di Carlo Schiffrer e Giovanni Paladin. Una tesi brandita in chiave propagandistica anche dai comunisti rimasti fedeli a Mosca dopo lo «scisma» fra Tito e Stalin nel 1948, con reiterati interventi sulla stampa locale («Il Lavoratore», «Delo») e nazionale («l’Unità», «Rinascita») lungo tutto l’arco temporale del conflitto che oppose il Cominform a Belgrado, per poi essere abbandonata ai primi segnali visibili di riavvicinamento tra URSS e Jugoslavia nel 1954-55. Anche perché sostenuta da un così vasto e variegato spettro dell’antifascismo triestino, pur nella differenza di ragioni e tempistiche, quella tesi era stata infine incorporata ed espressa nelle motivazioni ufficiali della Medaglia d’oro al valor militare assegnata dalla Repubblica italiana alla memoria di Frausin [“Patriota di sicura fede, già duramente provato per la sua dedizione all’Italia ed alla Libertà, subito dopo l’armistizio si distingueva in Trieste nell’organizzare la resistenza contro l’invasore tedesco. In circostanze pericolose e nell’esecuzione di temerarie azioni, forniva sicure prove di valore. Caduto in mani tedesche per delazione slava, lungamente e barbaramente torturato, nulla rivelava sulla organizzazione partigiana, sempre mantenendo nobile e fiero contegno. Prelevato dal carcere dai nazisti fu nuovamente seviziato e messo a morte. Zona di Trieste, settembre 1943 – settembre 1944“] nel 1957. Più gravemente ancora, nel profilo biografico del decorato annesso alla motivazione si chiamavano in causa, come fautori della delazione, i dirigenti sloveni che sedevano nel 1944 nel Comitato antifascista di coordinamento tra Osvobodilna Fronta (OF – fronte di Liberazione sloveno) e CLN italiano (Comitato di Liberazione nazionale). Le indagini di Iaksetich si posero dichiaratamente l’obiettivo di contrastare l’assunto della «delazione slava» […] Nel prendere in esame il capitolo delle accuse di matrice cominformista, Iaksetich approfondì in particolare l’attacco propagandistico sferrato nel novembre 1949 dal PC del Territorio libero di Trieste (PCTLT, allora guidato da Vittorio Vidali) contro il gruppo dirigente titoista, e retrospettivamente contro il movimento di Liberazione jugoslavo. Tale attacco si era sostanziato nella pubblicazione, sui giornali di partito «Il Lavoratore» e «Delo», di un documento definito «spaventoso» e presentato come il rapporto di una spia che all’epoca della stesura del testo (estate autunno 1944) avrebbe «servito i nazisti» […] I due giornali facevano i nomi, oltre a quelli di Frausin e di suo nipote Giorgio, di Natale Kolaric, Luigi Facchin-Fakin, Bruno Cossi-Kos, Vincenzo Gigante e altri membri della Federazione triestina del PCI nel 1944. Al fine di appurare il grado di veridicità dell’operazione propagandistica, se cioè il documento fosse realmente esistito, fosse autentico o non invece il frutto di contraffazioni posteriori, fosse stato o meno manipolato e quanto, Iaksetich interpellò la rete di contatti composta dai compagni di partito attivi nella regione come dirigenti nel dopoguerra. Fu per queste vie che egli ricevette da Lino Zocchi, nel 1949 segretario del PCI a Gorizia, una copia del rapporto integrale della spia in un’abborracciata traduzione italiana: appunto quella che sottoponiamo qui ai lettori e alle lettrici postillata di note esplicative, allo scopo di renderne intelligibili i riferimenti a individui e luoghi, i richiami e le allusioni al contesto storico coevo, i passaggi concettualmente più oscuri. Iaksetich non poté non constatare rapidamente come il rapporto integrale inviatogli da Zocchi differisse in maniera considerevole dal testo pubblicato dal «Lavoratore » (e dal «Delo», aggiungiamo – sebbene Iaksetich, che non conosceva la lingua slovena, procedette nel confronto solo attraverso il giornale italiano). Tali differenze naturalmente persistono allo sguardo di chi si cimenti nel raffronto oggi […] già all’indomani del Congresso straordinario del partito che sancì nell’estate 1948 la separazione della maggioranza cominformista dalla componente titoista, il gruppo dirigente raccoltosi attorno alla leadership di Vidali annunciava sul «Lavoratore» di sentire «il dovere di fare delle ricerche» a proposito della fine di Frausin, chiosando in modo sibillino: «C’è del mistero attorno alla sua morte. Forse si riuscirà a scoprire una parte del vero». Nei mesi successivi, gli attacchi a Tito ed ai comunisti jugoslavi anti-cominformisti veicolati dalla stampa del PCTLT non fecero che intensificarsi. Il 10 settembre 1948 «Il Lavoratore» riprendeva dall’organo ufficiale del Cominform un articolo del generale dissidente jugoslavo Pero Popivoda dal titolo Smascherati da un membro del PCJ i traditori del popolo jugoslavo, che denunciava la linea antisovietica assunta da Belgrado. Ciò interessa soprattutto perché fu proprio un altro intervento di Popivoda, tratto questa volta dal quotidiano sovietico «Pravda», a essere scelto dal «Lavoratore» e dal «Delo» come aggancio per la pubblicazione del documento della spia il 14 novembre dell’anno seguente. Di questo secondo intervento, i giornali cominformisti di Trieste citavano le frasi che accusavano la dirigenza jugoslava di avere stretto rapporti di collaborazione con i nazisti dai tempi della guerra: rapporti, secondo Popivoda, che sarebbero stati la causa della scomparsa «in condizioni molto sospette» di svariati esponenti partigiani jugoslavi tra cui «membri del CC (Comitato centrale) del PCJ» […] Su questa scorta veniva pubblicato il rapporto della spia, come schiacciante riprova del fatto che anche a Trieste la collaborazione proditoria tra nazifascisti e «imperialisti», ivi inclusi «gli attuali titisti», era già in atto durante la Seconda guerra mondiale.
Che una qualche sorta d’intesa segreta tra Churchill e Tito fosse stata in vigore da ben prima che la «scomunica» staliniana spingesse la Jugoslavia comunista a stabilire con le potenze occidentali una cooperazione di tipo economico-militare, è una illazione che il segretario del PCTLT Vidali aveva affacciato non molto tempo addietro nella sua corrispondenza interna con il PCI […] La versione del documento resa pubblica dal «Lavoratore» e dal «Delo» fu dunque il frutto di un aggiustamento manipolatorio teso all’aderenza quanto più fedele alla linea che si stava imponendo nel Cominform in quella fase. Da esso furono così espunti tutti i passaggi contraddittori rispetto alla manichea raffigurazione di un PCI specchiatamente internazionalista e senza alcuna macchia dal punto di vista etico-politico, vittima degli intrighi criminali di un gruppo dirigente fintamente comunista, quello sloveno-jugoslavo, già assestato nel 1944 sul terreno della deviazione e della collaborazione con gli «imperialisti» tanto tedeschi quanto inglesi.
Venticinque anni più tardi, lo stesso Iaksetich avrebbe mostrato di rendersene pienamente conto: in una lettera a Zocchi del 16 dicembre 1974, egli elencò infatti i passaggi rimossi punto per punto. Essi sono stati evidenziati con apposite note accluse alla trascrizione del documento così come rinvenuto nel fondo Iaksetich dell’Archivio Irsrec Fvg. Qui basti rilevare come la censura cominformista si sia allora abbattuta non solo sui passi che avrebbero potuto gettare un’ombra di discredito sull’affidabilità o sulla lealtà di alcuni dirigenti del PCI, o sulle osservazioni dell’estensore non conformi all’immagine del PCI quale univoca vittima del «tradimento » titoista; ma anche e soprattutto sulle parti del documento che avrebbero potuto svelare il segno complessivo di truffaldina artificiosità dell’iniziativa politico-propagandistica intentata con la sua parziale e alterata pubblicazione.
Furono cancellati così i riferimenti all’archivio di Kolaric, dal quale l’apparato repressivo nazifascista trasse informazioni utili per procedere con l’investigazione: probabilmente perché ciò poteva indicare che il responsabile militare della Federazione, organizzatore e supervisore di tutte le cellule GAP nel territorio da Muggia a Monfalcone, fu arrestato con appresso documenti importanti in sfregio a elementari norme di sicurezza cospirativa. Stessa sorte toccò ai brani che mostravano come il riconoscimento decisivo di Luigi Frausin avvenne in virtù della confessione del nipote Giorgio, evidentemente arresosi alla terribile e infame violenza degli interrogatori cui fu costretto. Infine, fu eliminato il riferimento all’aiuto prestato alle forze di polizia da Bruno Cossi-Kos («Alfredo»), responsabile dell’intendenza e dell’economato della Federazione, nel far avanzare la catena degli arresti che avrebbero portato di lì a poco alla cattura di Frausin. C’è da ritenere, al riguardo, che proprio il coinvolgimento diretto nella trama poliziesca da parte di Cossi – un membro della segreteria del PCI, in quanto tale vicinissimo a Frausin – fosse stato uno dei motivi che indussero Iaksetich a non divulgare il rinvenimento del rapporto integrale della spia, privandosi in tal modo dell’appoggio documentario più potente per demolire la tesi della «delazione slava». La sola versione del documento che rimase nota alla critica fu quindi quella apparsa nei due giornali cominformisti, inficiata dall’utilizzo politico-propagandistico che si è detto.
Ma la principale delle ragioni che spinsero Iaksetich alla reticenza, e insieme la «più grave» delle alterazioni apportate dal PC «vidaliano» al testo del documento (come Iaksetich la definì nella lettera a Zocchi sopra citata), è il taglio effettuato sulla lunga coda (due pagine dattiloscritte) che relaziona per larga parte sulla caduta quasi al completo della rete triestina del servizio d’informazione partigiano sloveno VOS-VDV. Infatti, nell’ambito della stessa operazione di polizia che nell’agosto settembre 1944 provocò l’arresto di quarantaquattro iscritti al PCI o ai GAP, tra dirigenti, quadri intermedi e militanti, furono più di trenta gli appartenenti al VOSVDV che ne condivisero la medesima, tragica sorte. È la realtà che Giuseppe Gueli, ispettore capo dell’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, fotografò in un rapporto inviato al capo della Polizia della Repubblica sociale italiana in data 27 settembre 1944 a conclusione dell’operazione. Si capisce come solo attraverso il taglio di questa sezione del documento della spia la stampa cominformista del PC «vidaliano» aveva potuto contrabbandarlo come la riprova di una macchinazione ordita contro il PCI dal movimento di Liberazione sloveno-jugoslavo […] Ciò che sappiamo rispetto al momento e al luogo in cui il documento fu ritrovato, ma anche rispetto alle vie da esso seguite per arrivare al PCTLT, lo dobbiamo alle ricerche di Iaksetich. Il rapporto originale sloveno, dunque, dovrebbe essere stato ritrovato nel 1946 nel corso dei lavori di ristrutturazione di un immobile sito in via Bonafata a Barcola: un sobborgo marittimo di Trieste storicamente abitato in prevalenza da sloveni, dove la Resistenza prese forma fin dal 1941 nelle strutture dell’OF qui attivatesi così come in gran parte del circondario urbano. Proprio per rafforzare l’azione di contrasto al movimento resistenziale in ascesa, il comando tedesco instauratosi all’indomani dell’8 settembre 1943 a Trieste (divenuta la capitale dell’OZAK) optò per una riorganizzazione degli apparati di polizia che avrebbe condotto, nel maggio 1944, all’apertura di una sede distaccata della SIPO-SD in via Bonafata 3. La coincidenza tuttavia non deve trarre in inganno. Infatti, secondo gli appunti di Iaksetich il rapporto della spia fu invece rinvenuto in corrispondenza di un altro stabile della via, presso il quale abitavano durante l’occupazione tedesca quelli che la popolazione anziana di Barcola ricordava come due collaborazionisti o domobranci (senza fare distinzione tra i diversi segmenti del complesso fenomeno del collaborazionismo sloveno). L’ex partigiano «Adriano» ne identificava però solo uno, cioè Ernest Jazbec, definendolo «noto delinquente». Che il coinquilino di Jazbec sia stato proprio l’estensore del rapporto, ovvero quello Slavko-Luigi Zovic su cui ragguaglia Ravel Kodric nel saggio che si propone di seguito, è un’ipotesi priva di riscontri documentari […] L’attribuzione dell’informativa al movimento cetnico, e in particolare alla diramazione triestino-carsica della sua agenzia d’intelligence DOS, è ricavabile per induzione dall’analisi del testo integrale […] è nella parte finale del documento che il suo estensore fa esplicito riferimento sia alla Mano Nera sia ai domobranci come a organizzazioni terze rispetto a quella cui l’informativa è indirizzata: il che per logica non può che imporre di scartare una loro implicazione diretta nel caso. Inoltre, vi è da registrare l’analoga posizione di alterità nei confronti del potere tedesco manifestata dallo scrivente nella stessa sezione conclusiva del documento: potere tedesco circa il quale egli fornisce alcune informazioni al destinatario del rapporto e verso cui si rivolge con la qualifica di «occupatore reazionario», difficilmente compatibile con la sensibilità politica e il linguaggio collaborazionisti tout court. Tali elementi vanno però combinati con i contenuti sviluppati nel testo, che restano inconfondibilmente anticomunisti, nonché con i toni accesamente anti italiani cui l’estensore spesso indulge.
È così che si viene a comporre un mosaico politico-ideologico da cui emerge piuttosto nitidamente la matrice cetnica, monarchica e nazionalista slovena-jugoslava, dell’informativa.
Quanto all’identità del suo autore, posto che in essa si dà conto di avvenimenti databili dal maggio al settembre 1944, dalla letteratura si è potuto evincere come il responsabile del braccio triestino-carsico del servizio informativo cetnico DOS fosse in quel periodo un certo Slavko Zovic. Si tratta di uno sloveno di Logatec all’epoca ventiduenne, che aveva assolto il ginnasio diocesano di Št. Vid di Lubiana, traditore delle file partigiane e doppio agente al servizio dei nazisti e dei cetnici al contempo.
Egli stesso avrebbe riferito del suo impegno nella DOS (tacendo invece sulla collaborazione con i tedeschi) nel corso di un interrogatorio cui fu soggetto dagli apparati di sicurezza della Jugoslavia comunista nei mesi di febbraio e marzo 1946. Messi a confronto, i dati autobiografici lasciati cadere di passaggio nell’informativa combaciano con le notizie, meglio precisate, rivelate da Zovic durante l’interrogatorio, dimostrando la coincidenza d’identità tra l’interrogato e l’autore del rapporto di circa due anni prima. In particolare, a rivelarsi fondamentali per identificare in maniera inoppugnabile in Zovic l’autore del testo sono le circostanze del suo soggiorno a Gorizia e soprattutto della sua detenzione nel carcere di Trieste nel 1943.
In definitiva, il documento si configura pertanto come un rapporto informativo sulla distruzione del PCI e della rete VOS-VDV nella primavera-estate 1944 redatto da Zovic per conto della DOS e diretto ai livelli superiori di tale organizzazione.
La quantità di informazioni e il grado di dettaglio del resoconto di Zovic non si devono soltanto alle sue fonti, piazzate addirittura nella cerchia dei collaboratori del vicecommissario Gaetano Collotti dell’Ispettorato generale di Pubblica sicurezza; ma anche – e questo è un punto-chiave – al suo essere parte in causa degli eventi descritti. Una partecipazione che il doppio agente fattosi strumento dei tedeschi, ma ancora attivo nei ranghi della VOS-VDV ignari del suo tradimento, non si peritava di dissimulare nell’informativa ai superiori della DOS. Tale atteggiamento lo si può leggere come un riflesso dell’estrema e consustanziale ambiguità mantenuta dal movimento cetnico nei confronti dell’occupante tedesco, con il quale nel 1944 esso si rese disponibile a una collaborazione tanto più stretta quanto più si andò consolidando l’appoggio alleato alle forze partigiane di Tito, nel mentre però si lasciava in piedi una cooperazione con le strutture dell’intelligence britannica. Proprio l’esposizione non più tollerata della DOS con la rete BBZ (Berliner Börsen-Zeitung), diretta da Antonio Anic e Vladimir Vauhnik a vantaggio del MI6 britannico, fu la causa dell’offensiva contro il centro lubianese del servizio cetnico attuata dai tedeschi dalla fine di giugno 1944. Se Zovic era operativo a Trieste ancora a settembre, è ben possibile che ciò sia dipeso dalla volontà germanica di avvalersi fino in fondo delle sue competenze nell’azione anti-resistenziale dell’estate, prima di procedere con lo smantellamento anche della ramificazione triestino-carsica della DOS. Se l’impulso primigenio dell’operazione di polizia contro il PCI fu dato dall’autorità tedesca, tanto che l’allora capo della SIPO-SD Wilhelm Günther avrebbe ricevuto un alto encomio per la sua perfetta riuscita all’inizio del 1945, l’informativa di Zovic ne sviscera con precisione le fasi e le modalità di realizzazione.
Apprendiamo così che essa cominciò a Monfalcone (GO) e maturò tra il maggio e il giugno 1944, in un periodo di flessione dell’attività resistenziale slovena e di diffuse illusioni circa i tempi di conclusione della guerra: periodo per questo ritenuto propizio dal PCI per uscire allo scoperto, soprattutto attraverso l’intensificazione dell’iniziativa gappista. Allo stesso mese di maggio, peraltro, risale la presa in servizio a Trieste di Günther, il che può indicare che l’avvio dell’operazione sia legato proprio a tale avvicendamento ai vertici della polizia tedesca. In ogni caso, fin dalle prime battute a esservi coinvolto fu Rado Seliškar, a sua volta partigiano rinnegato e stretto collaboratore di Collotti. Se la regia della macchinazione fu tedesca e Zovic un suo indispensabile ingranaggio, infatti, l’Ispettorato generale ne fu il braccio esecutore.
Grazie alle conoscenze di Seliškar a Monfalcone e al confronto con le informazioni tratte dall’archivio sequestrato a Kolaric al momento dell’arresto, il mirino della repressione riuscì presto a spostarsi su Trieste. È qui che il ruolo di Zovic divenne cruciale. La sua frequentazione dell’ambiente partigiano sloveno e la possibilità da parte sua di intercettare militanti, funzionari e dirigenti del PCI si rivelarono determinanti per aggredire la sezione del partito per natura più esposta, ovvero l’intendenza atta ai rifornimenti e alle comunicazioni. Tenendo conto della sequenza cronologica degli arresti che colpirono il PCI nell’estate 1944, desunta dai dati archivistici e dalla letteratura disponibile, il primo «autista» del cui fermo il rapporto di Zovic dà conto in forma anonima dovrebbe essere quell’Enzo Marsi all’epoca ufficiale di collegamento tra la Federazione triestina del PCI e la Brigata Garibaldi Trieste, già additato negli studi di Iaksetich e Fogar come principale indiziato della delazione contro Frausin; in breve giro fu il turno del responsabile dell’intendenza della Federazione, Bruno Cossi, «con l’aiuto del quale» (per citare le parole di Zovic) poterono proseguire tanto i sequestri di mezzi e beni quanto gli arresti (tra cui quello del comandante GAP Giovanni Coccon). Si era aperta così la strada che avrebbe portato presto, alla fine di agosto, al cuore direttivo dell’organizzazione e in particolare al suo «spiritus movens» (sic nell’informativa) Luigi Frausin. Tristemente, nel documento si può leggere della rara e sorprendente capacità di resistenza che quest’ultimo oppose alle torture subite, al punto che gli aguzzini valutarono nei suoi confronti l’impiego di speciali droghe per piegarne la volontà.
Subito dopo, l’ondata di arresti investì la rete della VOS-VDV. Ciò accadde in parte a causa dell’ovvia compenetrazione tra i movimenti di Resistenza italiano e sloveno, specie in virtù della parziale condivisione del sistema di corrieri e staffette, ma soprattutto – citiamo dal documento – «a causa [di] continue incomprensioni e confusioni che questi elementi provocavano a noi, come organizzazione, e anche individualmente». I sospetti partigiani su Zovic, infatti, si erano addensati già quando l’attenzione investigativa era focalizzata sul PCI: pertanto egli palesava la consapevolezza che «occorreva concludere l’attuazione al più presto, perché esisteva già il pericolo che i signori del centro incomincino a comprendere il giuoco». Ora che a essere falcidiata era la Resistenza slovena, Zovic raccontava con un certo allarme ai superiori della DOS di essere bersaglio di accuse e «continue minacce». «Il mio lavoro era difficile», concludeva, «però i frutti [furono] in seguito tanto più grandi».
Come detto, si trattò di un «lavoro» che condusse alla fine di settembre 1944 alla caduta di un totale di almeno settantacinque elementi, italiani e sloveni, della Resistenza intesa come movimento unitario e binazionale. Fu una pagina tra le più drammatiche della storia della guerra di Liberazione nell’OZAK, sulla quale il documento getta oggi una luce ampiamente inedita. Più nello specifico, riteniamo che la sua importanza storiografica sia difficile da negare dal momento che esso sembra apportare una smentita netta e fino a prova contraria risolutiva alla tesi della “delazione slava”, nel significato – più sopra illustrato – implicante una correità del movimento di Liberazione sloveno nell’annientamento della Federazione triestina del PCI e nella cattura fatale di Luigi Frausin. Una tesi propalata nel dopoguerra da autorevoli e differenziati segmenti del campo antifascista, indebitamente sancita ai più alti livelli delle istituzioni repubblicane all’atto di conferire a Frausin la Medaglia d’oro alla memoria, nonché confluita in certa misura e fino a tempi recenti nella storiografia. Rapporto Zovic versione italiana integrale da fondo Iaksetich, Archivio Irsrec FVG, trascrizione a cura di Luca G. Manenti, apparato critico a cura di Patrick Karlsen, Ravel Kodric, Nevenka Troha. Avvertenza: la trascrizione ha volutamente mantenuto gli errori grammaticali e
i refusi, segnalandoli con un [sic], nonché le stravaganze dattilografiche presenti in gran numero nel documento originale. In nota si è riportata una traduzione alternativa di singoli termini o espressioni indicata dalla formula Recte e ricavata da un raffronto con il testo sloveno pubblicato dal «Delo» […] Patrick Karlsen, La distruzione del PCI e della rete della VOS-VDV a Trieste nel 1944 alla luce di documentazione inedita in «Qualestoria», n. 1 giugno 2019, Il comunismo nell’area Alpe-Adria. Protagonisti, miti, demistificazioni, Istituto Storico della Resistenza del Friuli Venezia Giulia

Fig. 8. L’Unità, 17 gennaio 1950. Fonte: Clionet cit. infra

[…] C’era poi il complicatissimo intreccio dei rapporti fra comunisti sloveni che combattevano i nazi-fascisti dal 1941 e le forze clandestine del Partito Comunista Italiano che anche a Trieste si erano andate riorganizzando dopo l’ 8 settembre 1943. Siamo all’ epoca del “secondo C.L.N. triestino”, costituitosi dopo lo scioglimento del precedente a seguito degli arresti effettuati nel dicembre 1943 dai nazi-fascisti. In questo “secondo C.L.N.” sono ancora presenti, a fianco delle altre forze antifasciste, i comunisti diretti da Luigi Frausin e Vincenzo Gigante.
E’ in questo clima che maturò il tradimento di Mariuccia (Maria) Laurenti che avrebbe portato al più grave colpo inferto alle organizzazioni clandestine italiane e slovene che operavano a Trieste.
Il padre di Mariuccia era di origine slovena, la madre friulana. A Trieste si era diplomata all’Istituto Commerciale. Suo fratello Eugenio era commissario ella Brigata Partigiana Triestina. Sposatasi giovanissima con un impiegato militarizzato di origine abruzzese, la Laurenti decise di lasciare il marito quando, incinta, scoprì che lui aveva contratto la sifilide. Rinunciando alla gravidanza, decise di dare una svolta alla sua vita. E si avvicinò alla lotta clandestina. Era una ragazza bellissima, libera come lo erano le ragazze del Litorale rispetto ai costumi severi del tempo. Era sveglia, allegra, civettuola, intelligente. Per queste caratteristiche il suo lavoro di “staffetta” veniva molto apprezzato. Inoltre di lei si era innamorato, pare corrisposto, Vincenzo Bianco (“Vittorio”) che era stato inviato a Trieste dal Partito Comunista Italiano dell’Alta Italia per dirimere le divergenze insorte fra i comunisti triestini e gli esponenti del Partito Comunista Jugoslavo sulla futura appartenenza statuale della città. Bianco, pur molto più anziano di lei, avrebbe voluto sposarla. Le furono affidati incarichi delicati e riservati: tutti si fidavano di lei. Mariuccia Laurenti conosceva molto – forse troppo – dell’organizzazione clandestina della Resistenza triestina, in particolare dei comunisti italiani. Ma non aveva alle spalle la formazione politica e umana che consentiva ad altri di valutare i rischi e controllare la paura, nè tantomeno la tempra per resistere fino alla morte agli interrogatori ed alle torture. Aveva solo vent’anni quando fu arrestata dalla polizia italiana e affidata alla Gestapo. Crollò di fronte all’ alternativa “collaborazione o morte” e parlò. L’organizzazione clandestina del Partito Comunista Italiano a Trieste ne fu decapitata. Quando Mariuccia Laurenti fu rimessa in libertà, iniziò (o continuò?) a fare il doppio gioco, frequentando i vecchi compagni di lotta clandestina e, insieme, spifferando informazioni importanti alla polizia fascista. Decise infine di consegnarsi ai partigiani del IX° Korpus per chiarire il suo comportamento. Fu messa sotto processo: nessuno era disposto a crederle. Branko Babic (“Vlado”), commissario politico del IX° Korpus, disse: “Fin che vive Mariuccia non si può lavorare con sicurezza”. Nell’ aprile del 1945 Mariuccia Laurenti venne fucilata. Ancora oggi, a sessantanni di distanza, non è chiaro se l’elemento decisivo che aiutò i nazi-fascisti negli arresti dell’ agosto 1944 furono le informazioni di Mariuccia Laurenti o se vi fu una parallela “soffiata” che insistenti voci, mai peraltro dimostrate con prove documentali, attribuirono ed attribuiscono tuttora a elementi slavi dell’ “Osvobodilna Fronta” triestino.
Paolo Geri, Scampoli di storia: il tradimento di Mariuccia Laurenti e l’arresto di Luigi Frausin (1944), Bora.la, 13 gennaio 2015

Il Lavoratore, 14 novembre 1949. Fonte: Clionet cit. infra

Tra agosto e settembre 1944 i nazifascisti operarono una grossa azione repressiva che portò all’arresto di una settantina tra comunisti (fra essi Luigi Frausin, assassinato dopo essere stato orribilmente torturato) e membri dell’OF, e gli esponenti del CLN Felluga, arrestato il 3 settembre e morto a Dachau il 6/4/45 e (da quanto egli stesso afferma) anche Gaeta, che però sarebbe stato presto liberato e del quale Paladin scrive che si sarebbe rifugiato a Milano ai primi di settembre dove “attende la fine della guerra”
Claudia Cernigoi, Le Due Resistenze di Trieste, Supplemento al n. 328 – 26/3/15 de “La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”

L’arresto e l’uccisione di Luigi Frausin nell’agosto del 1944 alla Risiera di S. Sabba dette adito al sospetto, non confermato, che il dirigente fosse stato catturato a seguito di una delazione pilotata dall’organizzazione slovena (a causa delle posizioni contrarie da lui assunte sulla questione dei confini, così come delle sue proteste contro la decisione di trasferire all’interno della Slovenia il battaglione italiano “Alma Vivoda”). La sua morte fu preceduta da quella di suo nipote Giorgio Frausin, partigiano della “Garibaldi-Trieste”; poco dopo fu arrestato e ucciso anche Vincenzo Gigante (Ugo), giunto dai territori liberati della Croazia (Gorski Kotar), e seguirono gli arresti degli altri esponenti del gruppo dirigente del PCI triestino (Ermanno Solieri, Luigi Facchini, Alfredo Valdemarin). I nuovi dirigenti del PCI triestino si allinearono completamente alle tesi slovene e jugoslave, uscendo di fatto dal CLN giuliano.
Ezio Giuricin (1), I rapporti tra Resistenza italiana e Resistenza jugoslava al confine orientale, Centro di ricerche storiche, Rovigno 2008
(1) Il presente saggio costituisce la versione abbreviata del primo capitolo dell’opera scritta dallo stesso autore con Luciano Giuricin, La Comunità nazionale Italiana. Storia e Istituzioni degli Italiani dell’Istria, Fiume e Dalmazia, voll. 2, Rovigno 2008

[…] In un quadro evenemenziale mai lumeggiato compiutamente, la «mai sopita polemica che attribuisce a delazioni slave gli arresti di Frausin e degli altri dirigenti del PC» <10, ha, insomma, rappresentato per la memorialistica e la letteratura storiografica un tema di confronto inevitabile, giocoforza maneggiato dalla scrittura <11 attraverso le forme dell’allusione o dell’inciso, delle conferme o delle smentite inaccessibili alle repliche.
Non è questa la sede per affrontare i vuoti storiografici accennati. Altri studiosi sono impegnati oggi in tale atteso sforzo conoscitivo <12. Non di meno, senza pretese di completezza <13 e peregrinando nelle temporalità di protagonisti e studiosi <14, l’occasione della presentazione al pubblico di un resoconto corale a lungo dimenticato sul circoscritto episodio dell’arresto, la carcerazione e la condanna a morte del partigiano Natale Kolarič, suggerisce di contestualizzarne il valore informativo e simbolico incastonandolo in una breve rassegna di citazioni testuali e architetture interpretative.
Quei terribili mesi del 1944 a Trieste <15 presentavano ai propri attori un profilo che sarebbe risultato impensabile soltanto alcune settimane prima. Un intero mondo, e modo di vivere e concepire la vita giuliana era stato spazzato via dopo l’8 settembre in una sequela di rapidi avvenimenti. La città lungamente bramata da Roma, redenta nel 1918, era ora sotto il tallone del Reich germanico. Feroci polizie teutoniche e incattiviti collaborazionisti vi scorrazzavano depredando e brutalizzando impunemente gli avversari. Nell’antica pilatura del riso di San Sabba, dall’ottobre ’43, aveva trovato sede un Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato allo smistamento dei deportati ebrei e dei resistenti, alla loro eventuale soppressione fisica, e al deposito dei beni razziati. Mentre nella popolazione slovena della regione, da anni angariata dal regime, la determinazione alla resa dei conti cresceva, SS e SD <16 tedesche con l’aiuto dei collaborazionisti braccavano donne, bambini e uomini di origine ebraica per un trasferimento nei lager nazisti che si annunciava senza ritorno. Nella clandestinità gli antifascisti italiani e slavi, e alcuni gruppi di cetnici al servizio del governo jugoslavo in esilio, dalla condotta non sempre cristallina, giocavano la loro disperata partita cercando di opporsi al dominio tedesco. Complicavano ulteriormente la lotta contro l’oppressore i rapporti non sempre improntati da reciproca fiducia tra le forze della Resistenza. In particolare, le relazioni tra i comunisti rientrati dal confino e dalle galere fasciste <17 con l’obiettivo di rimettere in piedi il movimento operaio a supporto delle direttive del CLNAI, e le forze partigiane titine, induritesi moralmente alla scuola della spietata guerra irregolare, non erano esenti da ambiguità alla lunga pericolose per la tenuta del movimento antifascista.
Sottotraccia, le insinuanti grammatiche etniche dei nazionalismi <18 italiano e sloveno sembravano tornare a dettare i tempi degli eventi, fornendo il tono alle scelte politiche e militari contingenti.
Nel classico e più volte riedito “Trieste. Un’identità di frontiera” (1987) Angelo Ara e Claudio Magris, al prezzo di qualche semplificazione, hanno rievocato con efficacia la situazione dell’epoca, cogliendo con acribia un aspetto di carattere culturale spesso sottostimato dagli storici più scolastici. Trattando dei propositi sloveni che auspicavano per Trieste un futuro di autonomia linguistica e amministrativa nella cornice del nuovo Stato degli slavi del Sud, e dei controprogetti democratici italiani volti a prefigurare una Venezia Giulia rispettosa delle minoranze all’interno di un’Italia repubblicana e federale, appuntavano:
” Su questa linea di apertura nazionale, ma di assoluta e irrealistica intransigenza sui problemi territoriali, il comitato di liberazione nazionale di Trieste rimane fermo […] Il problema è reso ancora più aggrovigliato, e la posizione italiana ancora più debole, dalla sostanziale accettazione delle tesi jugoslave da parte dell’ala italiana del comunismo giuliano […]. La certezza che la costruzione di una società socialista fosse un’ideale molto più vicino alla sua realizzazione in Jugoslavia che non in Italia determina poi la piena convergenza del comunismo italiano sulla linea di quello jugoslavo, correzione di rotta che è facilitata dall’arresto da parte dei tedeschi di Luigi Frausin e di Zeffirino Pisoni, avvenimento che priva dei suoi dirigenti più importanti la tendenza italiana del comunismo triestino” <19.
In continuità con la pagina di Ara-Magris si esprimeva trent’anni dopo Raoul Pupo. Nel volume “Trieste ’45” scriveva: «l’apertura delle galere fasciste» successiva alla caduta di Mussolini nel luglio del ’43,
” rimette in circolazione un gruppetto di militanti comunisti italiani, come Luigi Frausin, Vincenzo Gigante e Giordano Pratolongo, assieme a Natale Kolarič, sloveno ma anche lui cresciuto alla medesima scuola internazionalista del Komintern, tutti con anni di galera o confino alle spalle. La nuova dirigenza comunista giuliana è determinata ad applicare anche a Trieste le logiche della resistenza italiana, e ciò significa collaborazione del Pci con gli altri partiti antifascisti all’interno del Cln e quindi di riacquisizione di autonomia nei confronti del Kps [il partito comunista sloveno]”.”
In breve, se sul piano dottrinale si trattava di superare i precedenti tentennamenti filo-slavi della leadership di Vincenzo Marcon <20, sul piano pratico «è tutta la politica annessionista slovena» circa i territori contesi alto-adriatici ” a venir apertamente contestata da Frausin, divenuto segretario della federazione triestina del Pci, in quanto giudicata di ostacolo alla strategia dell’alleanza con le altre forze antifasciste italiane, riunite nel Cln” <21.
Andrea Scartabellati, La “delazione slava”. Trieste 1944: alcune note tra storia e antropologia a partire da una fonte dimenticata in morte di Natale Kolarič, Clionet,  Volume 4, 14 giugno 2020