Tra i primi a scavare per far luce sul coinvolgimento americano in Vietnam vi è certamente Isador Feinstein Stone

‘Scavavamo nel letame non perché odiavamo il mondo ma perché lo amavamo’ <179, con queste parole era stato spiegato lo spirito che animava i muckrakers all’inizio del ’900, quello stesso spirito che riemerse, sempre negli Stati Uniti, nella seconda metà degli anni Sessanta, quando l’escalation della guerra in Vietnam dettò definitivamente la parola fine per il c.d. giornalismo del consenso: la discrepanza tra le versioni governative ed i resoconti sul campo avevano infatti reso incolmabile il credibility gap che già aveva minato le amministrazioni precedenti; le dichiarazioni ufficiali provenienti da Washington venivano ora messe seriamente in discussione.
Lo scontro non era più solo ideologico ma si giocava sul tema dell’accesso alle informazioni confidenziali: la generazione di cronisti maturata con il movimento per i diritti civili aveva infatti fatto propria l’idea che il dovere dei media fosse quello di rendere pubblico ciò che i funzionari cercavano di nascondere, di svelare i misfatti ed essere allo aveva regalato all’allora presidente della Repubblica Valéry Giscard d’Estaing o il più recente scandalo sull’acquisto da parte del Presidente Nicolas Sarkozy di un appartamento di due piani ad un prezzo molto basso contrattato con il venditore che gli ha fatto un “regalo”.
stesso tempo vigili ed attenti, attivare la coscienza dei cittadini per promuovere il bene pubblico <180.
Il giornalista investigativo, ovvero colui che insegue ogni fonte umana o cartacea per raccogliere elementi inconfutabili che possano portare alla luce fatti di rilevanza pubblica, diviene così il simbolo della professione in quanto controlla il potere e si rivolge ai lettori come cittadini e non come consumatori, svelando ciò che i potenti avrebbero voluto tenere segreto ma che la gente comune deve sapere. Ed è così che il reporter, scettico e curioso, si avvicina a quell’immagine di watchdog che si indigna davanti ai soprusi, che non si ferma alle apparenze, che pubblica la verità a qualunque costo e che, infine, passerà alla storia.
A differenza dei loro predecessori, questi nuovi muckrakers, pur credendo che cittadini informati su trasgressioni e menzogne si sarebbero mobilitati per ottenere riforme, o anche semplicemente la verità, puntano ora il dito non più contro le venalità delle grandi aziende, bensì sulle trasgressioni del governo: l’ingiustizia sociale diventava così un tema delle nuove inchieste, in particolare quando questa era l’evidente conseguenza delle gravi scorrettezze compiute da quei politici che, eletti e retribuiti dalla comunità, devono rispondere pubblicamente dei propri atti ben più di chiunque altro.
2.3.1. La guerra in Vietnam: la fine del giornalismo del consenso.
La storica frattura fra stampa e amministrazione, che ha avuto luogo durante la guerra del Vietnam, non è ovviamente nata in un momento esatto ma ha risentito della rottura del consenso, sia all’interno della stessa classe dirigente e politica che nella società civile, all’epoca protagonista di manifestazioni di piazza sempre più frequenti e massicce; invero solo con la legittimazione del reporting critico da parte delle opposizioni e, in particolare di parlamentari come J. F. Kennedy o E. McCarthy, il contrasto alla guerra uscì dalla c.d. “sfera di devianza” <181 per entrare in quella della “controversia legittima” con tanto di titoli in prima pagine sulla stampa c.d. mainstream <182. Infatti, nonostante qualche testimonianza diretta di corrispondenti dal fronte avesse confutato le versioni ufficiali già nei primi anni del conflitto, fino al massiccio contrattacco dei vietcong del gennaio 1968 <183, la maggioranza della stampa aveva appoggiato acriticamente l’intervento militare.
Tra i pochi inviati delle grandi testate che denunciarono aspramente e precocemente quello che fu definito il “pantano del Vietnam” vi sono M. Browne dell’Associated Press, N. Sheehan della United Press International e D. Halberstam del New York Times, i quali, con i loro resoconti sulle sconfitte militari delle forze armate americane, finirono nel mirino di opinionisti rinomati e vicini all’establishment come J. Alsop del New York Times, M. Higgins dell’Herald Tribune e K. Beech del Chicago Daily news.
Tra i primi a scavare per far luce sul coinvolgimento americano in Vietnam vi è certamente Isador Feinstein Stone, pioniere dell’attenta analisi degli atti e delle carte governativi; ex cronista del New York Post e di The Nation, Stone nei primi anni Cinquanta si era allontanato dalla linea di pensiero della stampa mainstream schierandosi contro la politica della Guerra Fredda. Fu così che, fin dal 1953, inizia a pubblicare le sue puntuali rivelazioni sull’I. F. Stone Weekly, ovvero un piccolo bollettino settimanale stampato nella cucina della propria abitazione. Giornalista paziente, insistente e coraggioso, Stone basa le sue inchieste su interviste aggressive e sulla lettura sistematica e metodica dei documento pubblici, dai dossier più scottanti ai verbali delle più oscure udienze parlamentari; paladino dei più deboli, della libertà di stampa e della giustizia sociale, fino al 1971, anno in cui problemi di salute lo costringono ad interrompere il suo settimanale, portò sotto la luce dei riflettori le omissioni e le menzogne del governo con l’implacabilità delle dichiarazioni nero su bianco dell’amministrazione.
Altro giornalista a precorrere i tempi fu senza dubbio Jack Anderson, per cui l’abbinamento con le immagini del watchdog e del segugio è quanto mai valida dal momento che, al fine di tenere sotto controllo il potere, non ha esitato a trafugare documenti confidenziali, a intercettare conversazioni, nonché a rovistare nella pattumiera. Senza nessun riguardo per l’obiettività giornalistica, la sua attività investigativa in nome della persona comune, del semplice cittadino, è guidata da un fortissimo senso del giusto e dello sbagliato, con un approccio che lo porta alla fama come “l’ultimo dei muckrakers”. Così dopo aver indagato su McCarthy e sull’omicidio di J. F. Kennedy, posò la sua attenzione e la sua penna sulla guerra del Vietnam, pubblicando, sia sul Washington Post che sul Jack Anderson Confidential, imbarazzanti segreti sulla politica estera statunitense.
Dal dicembre 1966 anche il New York Post cominciò a contraddire in modo più evidente le versioni ufficiali con gli articoli di Harrison Salisbury che mettevano in discussione l’idea di bombardamenti americani limitati a bersagli militari.
Poi arriva il 1968 e con esso lo spartiacque dell’Offensiva Tet: l’attacco nemico segna un iniziale vantaggio dei vietcong che, sfruttando l’effetto sorpresa, scioccano gli americani convinti invece di una imminente vittoria; più che a livello militare l’offensiva ha conseguenze pesantissime sul piano psicologico, danneggiando in maniere irreversibile la credibilità dell’amministrazione Johnson e azzerando la pazienza degli americani che improvvisamente si scoprono stanchi di una guerra che non porta a nulla.
Da quel momento la guerra viene descritta dai media non solo come infernale, ma priva di senso e di qualsivoglia giustificazione; i reporter si concentrano sul costo umano, i telegiornali mostrano agli americani il comportamento del loro esercito convincendo la gente che è arrivato il momento di ritirarsi. Nel 1969 il nuovo presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, dopo aver annunciato una politica di “vietnamizzazione”, decide le invasioni di Cambogia e Laos, ritenuti santuari della guerriglia, bloccando del tutto il flusso di notizie: a fare le spese di questa censura sono soprattutto le radio delle forze armate e la testate dell’esercito, Stars and Stripes.
È in un clima di tale tensione che il giornalismo investigativo torna in auge, divenendo un vero e proprio protagonista della politica statunitense. Nell’ottobre del 1969 una fonte attendibile comunica al reporter free-lance Seymour Hersh, ex giornalista dell’Associated Press, che l’esercito sta segretamente processando il giovane sottotenente William Calley, accusato di aver massacrato centinaia abitanti di My Lai, piccolo villaggio nel Nord del Vietnam, fra cui donne, vecchi e bambini <184. Due anni dopo, tempo necessario al reporter per verificare la notizia, la sua ricostruzione viene prima diffusa attraverso una piccola agenzia stampa, Dispach New Service, e poi ripresa da trentasei testate e, in secondo momento, anche dai principali giornali come Life o Look che in precedenza si erano rifiutati di pubblicare l’inchiesta. Oltre a svelare le atrocità commesse, Hersh rivela anche che il massacro è stato volontariamente tenuto segreto dall’amministrazione.
Nel 1971 un collaboratore del pentagono, Daniel Ellsberg, copia e vende a Neil Sheehan, giornalista del New York Times ed ex inviato della United Press International a Saigon, quarantasette volumi di dossier riservati del Dipartimento della Difesa sul coinvolgimento americano in Vietnam dai quali si deduceva come funzionari di primo livello del governo statunitense avessero ripetutamente mentito sulla politica di Washington nel Sud-Est asiatico. Il 13 giugno 1971 ha così inizio, sulla testata di New York prima e sul Washington Post poi, la serie nota con il nome di Pentagon Papers che di fatto mette la Casa Bianca sul banco degli imputati.
Dopo la terza puntata della serie l’amministrazione Nixon riuscì ad ottenere dal tribunale distrettuale di New York, dietro ricorso del Ministero della Difesa, un ordine temporaneo che ne blocca la pubblicazione “per danno immediato e irreparabile derivatone alla sicurezza nazionale”. È la prima volta che il governo di Washington ricorre alla censura preventiva, bandita nel Paese 250 anni prima in quanto strumento tirannico della dominazione inglese. Per quindici giorni la Casa Bianca riuscì ad impedire al più importante giornale americano di diffondere dettagli di enorme interesse pubblico. Con una storica sentenza <185 il 30 giugno 1971 la Corte Suprema si appella al Primo Emendamento per capovolgere la decisione del tribunale distrettuale e riconoscere al New York Times il diritto di pubblicare i documenti in questione, sostenendo che il governo non è riuscito a dimostrare che la loro diffusione rappresenti davvero una minaccia per la sicurezza del Paese. Commenta il quotidiano newyorkese: ‘Il danno agli interessi nazioni non deriva dalla pubblicazione dei documenti ma dall’iniziativa del governo di cercare di sovvertire il principio costituzionale della libertà di stampa che è l’essenza stessa della democrazia americana’ <186.
Così, in un Paese in cui i movimenti dei neri, delle femministe, dei consumatori e della controcultura giovanile hanno già messo in discussione la legittimità del sistema di governo americano, le rivelazioni sul Vietnam non possono che rendere definitiva e non reversibile la crisi di fiducia nella leadership di Washington. I giorni del coinvolgimento statunitense nel Sud-Est asiatico sono ormai contati e, dal 30 aprile 1975 nessuna bandiera a stelle e strisce sventola più nella capitale del Vietnam del Sud che si arrende a Ho Chi Min. Infine, sebbene molti critici accusano i giornalisti americani di essersi accorti tardi degli orrori della guerra e di aver affrontato solo in un secondo momento eventi decisivi come i bombardamenti sul Vietnam del Nord e i raid sulla Cambogia e sul Laos, non manca chi ancora oggi punta il dito sul Quarto Potere, ritenuto responsabile della sconfitta degli Stati Uniti per i suoi implacabili resoconti che demoralizzarono il pubblico di casa.
[NOTE]
179 BAKER R. S. sul McClure’s Magazine, ora in RIVERS W. L., The Other Government: Power and the Washington Media, New York, 1982, p. 143.
180 BASSO S. e VERCESI P. L., Storia del giornalismo americano, Mondadori Università, Milano 2009, p. 170.
181 Stampa alternativa ed antagonista.
182 BRANCOLI R., Il risveglio del guardiano, Garzanti, Milano, 1994. Pp. 228-229.
183 Offensiva Tet.
184 Il numero delle vittime non fu mai stabilito con certezza, anche perché i soldati, per nascondere l’eccidio, gettarono bombe a mano sui corpi e incendiarono le capanne. Forse 70, come sentenziò la Corte Marziale, 347 dice la stima ufficiale statunitense, 504 secondo il piccolo museo memoriale vietnamita che sorge oggi in mezzo alla vegetazione e al silenzio. Nel rapporto militare il capitano Medina scrisse che erano stati uccisi 90 Vietcong e nessun civile.
185 New York Times Co. v. Stati Uniti 403 US 713 (1971).
186 An Enlightened People, in New York Times, 1 luglio 1971.
Nicolò Maria Salvi, Il requisito della verità della notizia nel giornalismo d’inchiesta, Tesi di laurea, Università LUISS Guido Carli, Anno accademico 2015-2016