Circa la Repubblica Partigiana di Torriglia

 

… c’era una baita appollaiata su un costone folto di castagni, in località Rocca di Merlo, dov’erano rifugiati una dozzina di renitenti alla chiamata alle armi e qualche inglese scampato dal vicino campo di prigionieri a Calvari.
I contadini dei dintorni gli portavano patate e farina di castagne: quel poco che potevano dare, che altro non avevano, povera gente; i quattro giovani si sistemano lassù con loro, mentre per tutta la valle e fin giù nelle cittadine rivieraschi, con la presenza a Rocca di Merlo di quel pugno di uomini decisi a far qualcosa, non importa cosa, pur di fare, già si stava acquistando fiducia nel domani e si guardava con commiserazione quei pochi fascisti che, dopo l’8 settembre, avevano ripreso a circolare.
Poi ai primi di ottobre sul monte Antola vi fu in convegno di dirigenti del Movimento di Liberazione, e si cominciò con l’assegnare le zone e a dare le direttive: la più importante era di attaccare e far fuori il maggior numero di fascisti e di tedeschi.
Attaccare con che cosa?
Ebbene, il fatto della mancanza di armi in realtà rappresentava un inconveniente trascurabile, poiché era ovvio che, attaccando nemico, le armi sarebbero conquistate.
Giovanni B. Canepa, La Repubblica di Torriglia: Partigiano Marzo, Fratelli Frilli Editori, 2013

Così nella prima quindicina di novembre, gli uomini della banda di Cichero salirono in due gruppi da Lavagna (guidati da Bini) e da Rapallo (guidati da Bisagno) sino al casone messo a disposizione da Stecca, un contadino-ciabattino che abitava in località Gnorecco di Cichero.
Qui si incontrarono Aldo Gastaldi (Bisagno), Giovanni Serbandini (Bini), G.B. Canepa (Marzo) e vennero poste le basi della Resistenza nel Levante.
A questi si unirono una decina di uomini di Lavagna e tre soldati siciliani, sbandatisi dopo l’armistizio del 8 settembre 1943. Bisagno ebbe il comando della banda e Bini ne fu il primo commissario. Otello Pascolini (Moro), che era rimasto a Lavagna per dirigere l’organizzazione clandestina, raggiunse gli altri alla fine di novembre, sfuggendo alla cattura.
Nei giorni che seguirono, sino alla fine di dicembre, la banda si temprò attraverso dure esperienze, mantenendo sempre un saldo nucleo, che non si disgregò neppure quando le peggiori privazioni ed i più gravi pericoli ne assottigliarono il numero.
Carlo Brizzolari, Genova. Una città nella resistenza (1943-1945), Valenti, 1978

Operazioni militari
– settembre 1943: cominciano a formarsi le prime bande partigiane.
– primavera 1944: le forze partigiane vedono accresciuta la loro consistenza numerica e la loro forza politico-militare.
– giugno 1944: si assiste all’avvio dell’offensiva partigiana che si dirama attorno a Bobbio (che venne prima liberato poi perso e poi, successivamente riconquistato).
– giugno-luglio 1944: l’infittirsi delle azioni partigiane inducono i nazifascisti a spostare i loro presidi verso i grandi centri; praticamente restava sotto il loro diretto controllo solo il litorale.
– luglio 1944:le forze partigiane portano a compimento la liberazione di una vasta area compresa tra il fiume Trebbia e il fiume Aveto; partendo dal Passo della Scoffera il territorio attraversato dalla statale 45 Genova-Piacenza giunge fino alle vicinanze di Bobbio, comprendendo importanti località: Torriglia, Montebruno, Propata, Rondanina, Fontanigorda, Rovegno, Pareto, Ottone, Marsaglia, Barbagelata, Lumarzo, Gorreto.
Azioni di Governo
– luglio 1944: a Torriglia viene insediata dal Comando partigiano una Giunta che si occupa della gestione amministrativa; i primi provvedimenti presi riguardano la situazione alimentare che si era fatta preoccupante per via sia dei molti sfollati che erano confluiti nella zona sia perché la Prefettura di Genova aveva interrotto l’invio degli approvvigionamenti per paura che finissero preda dei “ribelli”.
– luglio-agosto 1944: a Farini d’Olmo viene designata una Giunta Comunale che agisce insieme al Commissario Prefettizio; anche qui ci si occupa in prevalenza del settore alimentare: vengono fissati il prezzo del grano, il quantitativo del frumento da assegnare a ciascuna famiglia e i prezzi dei principali generi di più largo consumo.
– agosto 1944: fu possibile attuare una completa organizzazione del movimento partigiano di montagna con la creazione della “Terza Divisione Liguria” (che poi assumerà il nome di “Divisione Cichero”).
-5 agosto 1944: viene decisa l’istituzione di tribunali partigiani.
– seconda quindicina di agosto: si costituisce un Comando Unificato di zona che ha la funzione di coordinare tutte le formazioni dislocate nella zona montuosa del settore Genova – Alessandria – Pavia – Piacenza.
– estate-autunno 1944: in molte località del versante ligure diventano attive delle Giunte Amministrative (la maggior parte di esse viene istituita direttamente dai comandi partigiani; poche sono quelle che vengono scelte tramite consultazione elettorale); si occupano principalmente di rifornimenti alimentari, di contenimento del “mercato nero”, di questioni fiscali (viene deciso che bisogna continuare a pagare le tasse tranne quella marcatamente “fascista” sul celibato), ci si adopera nel reperimento tra gli sfollati, di maestri per poter riattivare le scuole nelle varie frazioni ecc.
Fine della “Repubblica”
– fine agosto 1944: al momento di sferrare il rastrellamento i nazifascisti dispongono di oltre 30.000 uomini fra tedeschi, due Divisioni italiane, la “Littorio” e la “Monterosa” e tutti i gruppi fascisti della Liguria, del Piemonte e dell’alta Emilia.
– 4 novembre 1944: i partigiani riescono a resistere agli attacchi tedeschi.
– 23 novembre 1944: i nazifascisti riprendono con più vigore l’offensiva; il rastrellamento investe le zone del Pavese e del Piacentino per poi distendersi su tutto il territorio della “zona libera” (il 28 novembre 1944 cade Bobbio).
– metà dicembre 1944: i nazifascisti raggiungono le valli Staffora e Curone.
– gennaio 1945: il rastrellamento prosegue per tutto il mese colpendo pesantemente sia la popolazione civile che i partigiani; la “repubblica” cade e viene deciso lo sganciamento: divisi in piccoli nuclei i partigiani filtrano tra le maglie dei nazifascisti.
Redazione, La Repubblica di Torriglia – Cronologia degli avvenimenti, Val Trebbia … e il territorio delle Quattro Province, 17 dicembre 2020

La zona di Torriglia (GE) – Fonte: Wikipedia

[…] Testimonianza che egli stesso rese nel 1975 […]
Nel 1943 ero un giovane operaio della Breda (1° Sezione) di Sesto S. Giovanni. Ero poco più che adolescente: avevo 17 anni. Partecipai agli scioperi del marzo 1943 per migliori condizioni di vita e perché, pur confusamente, avvertivo l’ingiustizia del fascismo.
Già durante quell’avvenimento la Breda, essendo fabbrica militarizzata, era sotto il controllo militare tedesco. Ricordo il 25 luglio 1943 e la caduta di Mussolini, ricordo il pianto di mio padre che era di gioia ed il suo riandare col ricordo al pensiero del fratello ucciso dai fascisti durante le violenze squadriste del 1921.
Durante il governo Badoglio prese ancor più vigore alla Breda l’opposizione operaia ed entrai in contatto con l’organizzazione clandestina del P.C.I.
Dopo l’8 settembre 1943 il governo della cosiddetta Repubblica sociale decretò in ottobre il primo bando di leva del 1° trimestre della classe 1926 al quale avrei dovuto rispondere.
Decido di raggiungere le prime formazioni partigiane in via di costituzione a Premana (Valsassina) sotto la guida di un giovane operaio sestese: Spartaco Cavallini detto Spa.
Nel corso di un rastrellamento che scompagina sul nascere le formazioni della Valsassina resto per parecchi giorni privo di collegamento e ritorno, non senza difficoltà a Monza.
Fattasi nel frattempo pericolosa la mia permanenza a Monza riesco, tramite il CLN di Sesto S. Giovanni ed una staffetta partigiana della quale non conoscerò mai il nome, a raggiungere sul finire del 1943 una formazione partigiana di Giustizia e Libertà che opra sui monti del piacentino sopra Pianello Val Tidone e precisamente alla confluenza delle valli d’Aveto e Trebbia.
Qui ritrovo il monzese Emilio Acerbi al quale mi legava una fraterna amicizia nata sin dall’età della scuola. Comincia così la mia esistenza di partigiano nella quale si intrecciano azioni di guerriglia e di rischiosi colpi di mano come quello compiuto contro il presidio fascista di Pianello Val Tidone che frutta alla mia formazione un cospicuo bottino di armi e munizioni.
L’estate del 1944 vede la mia formazione, che nel frattempo era andata ingrossandosi di nuovi effettivi, in fase offensiva nella speranza da tutti manifestata dell’imminente liberazione.
Vaste zone sono così liberate come la Val Trebbia e la cittadina di Bobbio mentre sui monti a cavallo fra la provincia di Genova e Piacenza si costituisce la repubblica partigiana di Torriglia. La zona in cui mi trovavo veniva ad assumere grande importanza strategica in quanto si controllava la strada statale n. 45 che collega Piacenza a Genova.
E così vennero ancor più intensificate le nostre azioni di guerriglia e sabotaggio. Ricordo l’attacco e la distruzione della polveriera di Cantone nei pressi di Piacenza in cui erano depositate forti quantità di esplosivi per le guerre dei nazi-fascisti. Penetrai con altri nel cuore della notte eludendo il controllo delle sentinelle riuscendo a piazzare le cariche esplosive al posto giusto e rapidamente raggiungere gli altri amici che ci coprivano la ritirata quando, ormai defilati, fummo sbalzati a terra dallo spostamento d’aria del rapido succedersi delle esplosioni che avevano destato tutta Piacenza e le zone vicine.
Ricordo, in quell’estate di speranza, l’attacco alla colonna tedesca sulla via Emilia avvenuto di notte a Rottofreno (Piacenza) dove con altri sostenni un’impari battaglia contro forze preponderanti alle quali infliggemmo serie perdite in uomini e mezzi. Qui piansi la morte dell’amico Emilio Acerbi di Monza che con altri 11 partigiani dette la vita per la libertà. Ci avvicinavamo all’inverno e sfumavano le illusioni della liberazione.
Si addensava su di noi la reazione dei nazi-fascisti che non tarderà a coinvolgere la mia Brigata. Ricordo il primo freddo e le prime nebbie, forti reparti di mongoli, di fascisti e di tedeschi cercarono, muovendosi da tre direttrici di marcia e cioè da Piacenza-Genova e Varzi, di serrarci in un grosso mortale accerchiamento. Ricordo i combattimenti sostenuti contro forze di gran lunga superiori alle nostre ed infine le lunghe marce di sganciamento sino a raggiungere una zona di sicurezza dove coi resti della mia Brigata sono fraternamente accolto, sopra S. Stefano d’Aveto, dai garibaldini della Divisione Pinan-Cichero.
Mentre eravamo in fase di riorganizzazione ricordo il proclama di Alexander che invitava i partigiani a desistere da ogni azione il che procurò seri problemi al Comando partigiano. Ricordo che la maggior parte delle forze partigiane, aiutate anche dalla solidarietà della popolazione, si strinse attorno ai suoi comandanti Istriano e il popolare Bisagno Renato. Superai così il terribile inverno del 1944 fra insidie e disagi d’ogni genere grazie anche all’aiuto fraterno dei montanari e contadini della Valle d’Aveto. Giungeva così la primavera del 1945. Ricevemmo dagli americani un grosso lancio che consentì di accrescere le nostre capacità offensive. Ci preparammo a scendere verso Genova dopo aver eliminato il presidio di Rezzoaglio e del passo della Forcella sopra Chiavari.
La strada verso Genova era così aperta. Accolti al passaggio da manifestazioni di gioia da parte della popolazione arrivammo a Genova in aiuto alle formazioni di città mentre erano ancora in corso duri combattimenti nel centro della città e al porto […]
Redazione, Scomparsa di Francesco Passoni, ANPI Monza e Brianza, 16 dicembre 2012

Propata (GE) – Fonte: Wikipedia

Propata (GE) è un piccolo comune del versante padano dell’Appennino ligure, al confine con la provincia di Alessandria, nel quale le vicende della lotta partigiana sono strettamente intrecciate a quelle della Brigata “Jori”, appartenente alla Divisione Cichero. Il gruppo di Cichero si era costituito tra l’autunno e l’inverno 1943 nell’omonima frazione a circa 16 km a nord di Chiavari, in un territorio contadino montanaro decisamente povero e distante dai grandi centri, ed era caratterizzato da un rigido codice di comportamento, unito a un grande rispetto della popolazione locale e dei nemici. Per le regole quotidiane di democrazia che bisognava sempre rispettare la “Cichero” fu considerata da diversi storici una fra le migliori incarnazioni degli ideali etici della Resistenza. Nel maggio 1944, per l’afflusso di uomini, la “Cichero” si divise in distaccamenti che si distribuirono sul territorio; dopo avere deciso di entrare a far parte delle formazioni garibaldine (III brigata Garibaldi), tra giugno e luglio un distaccamento occupò anche l’Alta Val Trebbia, tra Torriglia e Ottone, costituendosi, alla fine di luglio, nella Brigata “Jori” . Nel giugno 1944, inoltre, anche la Val Trebbia, da Torriglia a Rivergaro, entrò a far parte della zona libera che gravitava intorno al comune di Bobbio: dileguatisi pressoché tutti i presidi nazifascisti, in quei luoghi si insediarono i partigiani, dipendenti dal comando unico piacentino e dalla VI Zona ligure. Ma il territorio di Torriglia era particolarmente strategico per il transito tra la valle del Po e la Liguria, particolarmente per l’esercito tedesco. Per questo tra il 22 e il 29 agosto la Wehrmacht, appoggiata da uomini della Rsi, avviò pesanti operazioni di rastrellamento, che furono comunque contrastate dai partigiani fino al novembre, quando il territorio libero fu espugnato definitivamente. In quell’occasione, tuttavia, un intero battaglione di alpini della Monterosa, ufficiali compresi, si consegnò alla “Cichero” con armi ed equipaggiamento, costituendosi in una brigata partigiana che avrebbe combattuto al fianco delle altre sino alla Liberazione. A novembre il comando della “Jori” si spostò a Casa del Romano, dove fu colpito, come le altre brigate, da un nuovo rastrellamento, molto più efficace del precedente, che costrinse i partigiani a dividersi in piccoli gruppi e a spostarsi continuamente per evitare le puntate tedesche. Gli attacchi tedeschi si intensificarono ancora durante l’inverno quando, a metà gennaio 1945, sul monte Antola atterrarono due missioni alleate, una statunitense e l’altra britannica, e si stabilirono sul territorio controllato dalla brigata “Jori”. Verso la fine di aprile, il comandante della Divisione “Cichero” ordinò alla “Jori” di scendere a Genova: il 24 la brigata diede avvio all’avvicinamento alla città, che si concluse la sera del 26 in piazza Manin.
Memoranea

Il rastrellamento dell’inverno 1944-1945
Al nostro comunicato del IV Novembre il nemico a tutta prima parve che non sapesse né potesse reagire. Siamo ormai alla fine di novembre e l’inverno s’avanza: le nostre formazioni hanno rioccupato l’intero territorio della sesta zona e quasi non hanno trovato resistenza.
L’Oreste e l’Arzani, due delle brigate della divisione, al comando di Scrivia [n.d.r.: Aurelio Ferrando] e di Moro, sono scese nelle vallate del Vobbia e del Minceto, e ora si spingono sulla camionale, bloccano il traffico, attaccano presidi, prelevano prigionieri a Ronco, Isola del Cantone, Rigoroso, Stazzano; mentre la Cajo che è passata anch’essa alle dipendenze della Cichero, occupa Santo Stefano, che è una grossa borgata nell’Aveto. Dal canto loro le brigate Berto e Jori, al comando rispettivamente di Banfi e di Croce, investono Gattorna, scendono a Borgonovo, fanno saltare il ponte di Carasco dov’è un grosso contingente tedesco, e controllano l’intera valle del Trebbia; la Coduri infine all’ala destra dello schieramento domina il litorale e quasi giornalmente opera colpi di mano in quel di Sestri Levante.
In tutta la zona su tedeschi e fascisti incombe il pericolo delle nostre incursioni : hanno finito col trincerarsi in posti di blocco, protetti da cavalli di Frisia e da casematte, e si guardano bene dall’allontanarsi, mentre all’inizio delle grandi strade di comunicazione, quella del Trebbia, della Fontanabuona, dell’Aveto e di Centocroci, ricompaiono i cartelli «Actung! Bunden gebit» che avvertono i viandanti del pericolo di inoltrarsi in quella zona infida, infestata dai banditi.
Pare quasi che il nemico si sia rassegnato ad aspettare la fine delle ostilità rinunciando ad attaccarci.
Ma ecco che il Comando tedesco chiede un’altra volta di parlamentare e al posto di blocco ripristinato nelle gole del Pertuso si presenta un maggiore tedesco accompagnato da un ufficiale italiano che gli fa da interprete:
«Il signor maggiore vi dà atto che siete bravi soldati e coraggiosi… ma che la lotta è troppo dura per voialtri che mancate di tutto… mancate di viveri, di medicinali, di munizioni… e ancor più dura si farà quest’inverno… dice che non dovete farvi illusioni… ». Parla affabilmente, come se conversasse con amici: e il tono stesso della sua voce esprime preoccupazione per le nostre condizioni. L’ufficiale italiano continua a tradurre:
«L’Alto Comando Tedesco l’ha incaricato di dirvi che se deporrete le armi garantirà la vita a tutti… soldati e ufficiali… e con la sua garanzia… garanzia scritta… firmata dall’ Alto Comando… potreste tornarvene a casa senza che nessuno osi molestarvi… ».
Ma Attilio, il commissario che si è presentato all’incontro l’interrompe: «Gli dica che le nostre armi le abbiamo conquistate a voi e ai tedeschi, e l’abbiamo conquistate per servircene: se le rivogliono abbiano il coraggio di venirsele a prendere…».
Ora il tono di voce del maggiore s’è fatto improvvisamente aspro e ordina: «Tradurre, tradurre subito!» e l’ufficiale italiano s’affretta a tradurre: « Il maggiore dice che stanno facendo affluire i mongoli… un’intera divisione di mongoli, provenienti dall’Ossola… in val d’Ossola non hanno risparmiato nemmeno le donne… e anche qui non risparmieranno nessuno… dice che con la vostra cocciutaggine vi assumete la responsabilità di quanto potrà accadere alla popolazione…».
Ma Attilio gli ha già voltato le spalle, e mentre quelli, interdetti lo guardano allontanarsi, senza affrettarsi raggiunge il posto di blocco: in questo modo pone termine al colloquio. S’inizia con questo episodio il periodo più tragico della lotta di liberazione mentre il generale Alexander esorta i partigiani a tornarsene a casa, truppe di ex prigionieri mongoli inquadrati da tedeschi danno inizio al grande rastrellamento dell’inverno del ’44; con rapide puntate, che vengono effettuate in piena notte e in condizioni difficilissime, per sentieri impraticabili, occupano di sorpresa le borgate in fondo valle, si installano in villaggi abbarbicati sulle pendici dei monti, terrorizzano le popolazioni; eppoi improvvisamente, non si capisce come, si disperdono, dileguandosi, per tornare subito dopo sui loro passi, magari alle prime luci dell’indomani. Con tale tattica è difficile prevedere i loro movimenti, mentre una ridda di notizie contraddittorie che pervengono da ogni dove, in un primo tempo, impediscono al nostro Comando di organizzare una difesa e di preparare contrattacchi e imboscate.
A metà gennaio i mongoli avevano raggiunto Rezzoaglio e pareva che di lì, seguendo il corso dell’Aveto, volessero scendere fino a Marsaglia per congiungersi con la colonna proveniente da Bobbio e con quella spingersi nella valle del Taro, in direzione di Bedonia; invece, risalita la provinciale occupano Santo Stefano da dove la Cajo ha fatto appena in tempo a ritirarsi, e improvvisamente ridiscendono in direzione del passo della Forcella. Qui organizzano un vero caposaldo, con campi di mine, trincee e reticolati; e da quel passo si limitano a controllare la zona.
Ora dal passo del Bocco, da Reppia e da Velva, dove erano già affluiti notevoli rinforzi di alpini e di bersaglieri comandati da tedeschi, si scatena un furioso attacco: la brigata Coduri, nella sacca di Comuneglia, si direbbe destinata ad essere annientata, invece con una marcia notturna operata in condizioni inimmaginabili, è riuscita a filtrare attraverso la rete che si sta rinserrando e s’è piazzata a Issioli, alle spalle dello schieramento attaccante.
Dal canto suo la Brigata Berto ha potuto raggiungere Sopra la Croce e s’è attestata sulle alture che dominano questa località, mentre, sull’altro versante del Trebbia, la Jori ha rioccupato Casa del Romano, riallacciandosi alla Brigata Oreste nei pressi di S. Clemente.
Siamo ai primi di febbraio e il Comando della Divisione è stabilito a Carrega: puntando su questo obiettivo i tedeschi risalgono rapidamente in val Borbera, ma a Cartasegna vengono fermati dagli uomini della Jori, mentre a Dova e a Pian Cerreto la brigata Oreste assesta duri colpi alle colonne dei rinforzi. I nostri sono ormai passati al contrattacco e come falchi piombano ovunque viene segnalato il nemico: a Cantalupo, a S, Clemente, a Boggi, a Rondanina, a Montoggio. Finchè, al nemico non rimane che asserragliarsi nella colonia di Torriglia e al passo della Forcella.
Così ha termine la seconda fase del rastrellamento dei mongoli, rastrellamento che sarà anche l’ultimo.
Nel suo ordine del giorno il Comando della Divisione Cichero può annunciare: «Finalmente il nemico sta rientrando alle sue basi con lo smacco subito, mentre il pianto delle mamme cui sono state violentate le figlie lo segue come una maledizione. Giusta rappresaglia, 37 mercenari mongoli col loro comandante tedesco, fatti prigionieri, sono stati giudicati dalle popolazioni e passati per le armi sul luogo stesso dei loro delitti. Il Comando rivolge un alto elogio a tutti coloro che hanno combattuto, e in special modo alle Brigate Jori e Oreste, che con il loro spirito aggressivo hanno dato alla causa questa nuova vittoria»; tributa un encomio solenne al Comandante di brigata Croce, con la seguente motivazione: « Comandante di Brigata e impareggiabile partigiano, in due mesi di duri combattimenti si prodigava infaticabile per preparazione e il coordinamento dei propri reparti. Sempre presente ove maggiore era il pericolo: in combattimento di esempio e sprone ai suoi uomini».
(Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)
La “resa” degli alpini del Vestone
Tempo fa dovendosi celebrare l’anniversario della Liberazione, un giornale genovese pubblicò la foto di un gruppo di alpini che rappresentava la “resa” ai partigiani di una battaglione della divisione Monterosa. Si intendeva così ricordare un episodio ormai passato nel dimenticatoio, anche perché in tanti libri sulla Resistenza nessuno ebbe mai a parlarne.
Eppure si tratta di uno degli episodi più significativi, coronava lunghi mesi di tenace ardimento e di continui rischi affrontati dai partigiani per avvicinare i loro avversari così da poterli convincere.
Fu appunto in uno di questi tentativi che il Comandante di una pattuglia, mi pare che si chiamasse Dentice, e un suo compagno di cui mi sfugge il nome, furono fatti prigionieri e da qui ebbe inizio l’azione che condusse il Comando della Cichero a intavolare trattative, accettando di incontrare il maggiore Paroldo che comandava il battaglione Vestone della Monterosa.
Ho deciso quindi di inserire in questo libro la versione esatta dell’episodio, e mi pare che ne valga la pena.
Innanzi tutto debbo precisare che non si trattò di «resa» ma del «passaggio» di un battaglione degli alpini nelle file dei partigiani: alpini che poi e fino alla Liberazione combatteranno al nostro fianco, seminando coi corpi dei loro caduti il cammino che ci portò alla Liberazione.
Abbiamo visto nelle pagine precedenti che dopo il grande rastrellamento di agosto, il Comando tedesco aveva affidato agli alpini della Monterosa il compito di presidiare la statale del Trebbia; e dunque due battaglioni s’erano insediati a Torriglia e a Bobbio, all’inizio cioè e al termine della strada che segue il corso del fiume; mentre il terzo, il Vestone, si stabiliva al centro della valle, e precisamente a Gorreto, nel castello dei principi Centurione, già sede del comando della Cichero.
Intanto le formazioni garibaldine, rapidamente ricostituitesi, s’erano attestate nell’alta val Polcevera, in valle Scrivia e in val Trebbia e, con continue incursioni, le rendevano insicure. In uno di questi colpi di mano venne catturato l’attendente del comandante del Vestone, Paroldo, un ufficiale questi di carriera che godeva di grande prestigio e che, dopo la disastrosa ritirata in Russia era stato internato coi suoi uomini in un «lager» tedesco.
La gente di Gorreto, dapprima diffidente e ostile, aveva finito con l’intrattenersi volentieri con lui, e parlare dei partigiani che avevano presidiato il paese, e dei loro comandanti. Fu così che quando il suo attendente, di nome Cattani, cadde nelle nostre mani, non gli fu difficile farci sapere che era disposto a trattare il suo rilascio in cambio dei due partigiani caduti nelle sue mani.
La proposta era naturale che sollevasse discussioni e dissensi perché fino ad allora mai avevamo avuto contatti di quel genere con le forze della repressione; lo stesso Comando Regionale, interpellato, espresse parere contrario a quell’incontro. Qui però era in gioco la vita di due partigiani che, da un momento all’altro, potevano essere tradotti a Genova e fucilati, sicché i Comandanti non tennero conto delle obiezioni e senz’altro fissarono l’incontro.
Intanto il Cattani, affidato a un distaccamento, non aveva tardato ad ambientarsi: il nuovo sistema di vita basato su una disciplina che i partigiani s’erano liberamente imposta, l’aveva profondamente colpito e già chiedeva di far parte delle nostre formazioni. Così venne deciso che avrebbe seguito il Commissario e si sarebbe tenuto un pò discosto, pronto ad accorrere se l’avesse chiamato.
Il maggiore si presentò sul posto convenuto in compagnia di un subalterno e del parroco di Gorreto; e subito tenne a precisare che si era deciso a quell’incontro unicamente per trattare la liberazione del suo attendente: in cambio era disposto a liberare i due prigionieri.
« D’accordo sul cambio — fece il commissario – ma nel caso che il suo attendente intendesse rimanere con noi… ». « Impossibile! — l’interruppe il maggiore — Fatemelo dunque vedere, e che me lo dica lui… ».
A questo punto il Cattani balzò fuori dall’anfratto in cui si teneva nascosto e corse a gettarsi tra le sue braccia; ma quando sentì ch’era venuto a liberarlo senza esitazione dichiarò di sentirsi già libero e che ormai aveva scelto il suo posto sui monti, con il movimento di Liberazione.
Il maggiore lo fissava sbalordito, incapace di trovare parola; ma poi, improvvisamente reagì e, afferratolo per le braccia proruppe: «Che t’hanno fatto, disgraziato, t’hanno «stregato?».
E il Cattani, senza scomporsi, sommessamente, ma con fermezza: «M’hanno aperto gli occhi, signor Maggiore, mi hanno aperto gli occhi», e intanto a piccoli passi s’andava scostando. Il maggiore pareva che non riuscisse a capacitarsi di quanto era successo, e quando il commissario gli si fece accanto e prese a parlargli della lotta che ormai era decisa, e che dunque combattere i partigiani significava prolungare una guerra assurda, manco pareva ascoltarlo e continuava a scuotere la testa, in silenzio.
Insisteva, il Commissario: perché ostinarsi a servire i tedeschi, farsi loro complici? Non si rendeva conto che la vera Italia era al fianco di quei «ribelli» ch’egli stava combattendo?
Sì, forse ora se ne rendeva conto, ma era talmente scon­volto da non poter ribattere, e così pose termine in fretta all’ incontro. Prima però di separarsi fu convenuto che i due partigiani sarebbero stati scambiati con prigionieri tedeschi.
Fu in seguito a questo colloquio che il Comando della Cichero dispose che l’attività militare venisse allentata e così sia da una parte che dall’altra si conduceva una strana guerriglia: con gli alpini che pareva si facessero sorprendere a bella posta lontano dal loro distaccamento per farsi prelevare, quando non cercavano loro stessi di raggiungere le nostre formazioni, chiedendo di farne parte. Finché il Comando tedesco si vide costretto a ritirare i due battaglioni da Bobbio e Gorreto smistandoli a Torriglia, e rinunciando così a presidiare la vallata del Trebbia.
Tale decisione non mancò di sollevare nel Comando di zona il dubbio che la tattica perseguita dalla Cichero, e cioè di allentare l’attività militare per favorire la crisi della truppa e degli stessi comandanti del Vestone e indurli alla resa, fosse sbagliata e lo fece presente nella riunione che indisse a Fontanachiusa; ma il Comandante e il Commissario della divisione, convinti com’erano che la crisi degli alpini era provocata dalla convinzione ormai acquisita che l’ Italia per cui valeva la pena di combattere e di sacrificarsi era quella dei partigiani, dichiararono di non potere rinunciare a un estremo tentativo. Si trattava di un’azione spericolata di cui si volle incaricare Bisagno, che sceso a Torriglia, s’aggirò per tre notti in mezzo alla confusione provocata dall’afflusso dei tre battaglioni alpini, tentando di stabilire a ogni costo un ultimo contatto col maggiore Paroldo.
Al Comando di divisione non si avevano più notizie, si sapeva soltanto che prima di partire aveva indossato la divisa di un alpino e il Commissario, che gli era profondamente legato, viveva ore di angoscia, tra la pressione del Comando di zona che insisteva perché prendesse un’iniziativa, e il timore che qualsiasi cosa si facesse rischiava di precipitare la situazione e compromettere l’esito della missione.
Finalmente giunse la comunicazione tanto attesa: un messaggio di Bisagno che convocava il Commissario a Costamaglio, una località nelle vicinanze di Montebruno, in una piccola osteria a picco sul Trebbia: là col maggiore Paroldo e il suo aiutante Ebner si discussero le modalità dell’operazione e ci si accordò perché quella notte stessa il battaglione al completo, con armi e carriaggi, raggiungesse Gorreto unendosi alle formazioni partigiane.
L’indomani, IV novembre 1944, il Comando Zona poteva diramare il seguente comunicato:
«Stamane, nell’anniversario dell’armistizio che nella grande guerra, l’Italia ha imposto all’esercito austro-ungarico e tedesco, il battaglione alpino Vestone è passato al completo nelle file della Divisione Garibaldina Cichero.
Gli alpini hanno cosi ritrovato la vera Italia, quella Italia nostra e onesta che combatte sui monti per la sua libertà. Il Comando della divisione saluta gli alpini del Vestone e plaude al loro gesto e alla ritrovata fraternità nel nome dell’Italia». (Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)
La nascita della Repubblica e della VI Zona Operativa
Verso la metà di settembre del ’43, un sardo di cui non mi sovviene il nome, e tre giovani siciliani: Severino, Rizzo e Giuseppe, abbandonate le caserme di Caperana, un sobborgo di Chiavari, risalirono la vallata del Malvaro fino a Favale. Qualcuno del Comitato che, subito dopo l’armistizio, s’era costituito nella cittadina rivierasca, gli aveva fatto indossare degli abiti civili e li aveva indirizzati lassù, dove avrebbero trovato i partigiani; dando loro anche una parola d’ordine, ma raccomandando di usarla con la massima discrezione e prudenza.
Quei poveri ragazzi, arrivati che furono a Favale – e le scarpe slabbrate e scalcagnate, e l’abito stesso striminzito facevano pensare che fossero zingari – cominciarono a chiedere a questo e a quello in cui s’imbattevano, dov’era il Comando partigiano e, poiché tutti diffidavano, finirono con lo spifferare la parola d’ordine: « sutta a chi tucca! » che d’ora in poi, come una bandiera, spronerà all’azione le nostre formazioni dell’entroterra genovese, diventando il motto delle Divisioni «Cichero ». C’era una baita appollaiata su un costone folto di castagni, in località Rocca di Merlo, dov’erano rifugiati mezza dozzina di renitenti alla chiamata alle armi e qualche inglese scampato dal vicino campo di Calvari. I contadini del posto gli portavano patate e farina di castagne: quel poco che potevano dare, che altro non avevano, povera gente; i quattro giovani si sistemarono lassù con loro, mentre per tutta la valle e fin giù nelle cittadine rivierasche, con la presenza a Rocca di Merlo di quel pugno d uomini decisi a fare qualcosa, non importa cosa, pur di fare, già si stava acquistando fiducia nel domani e si guardava con commiserazione quei pochi fascisti che, dopo l’8 settembre, avevano ripreso a circolare.
Poi, ai primi di ottobre, sul monte Antola vi fu un convegno di dirigenti del Movimento di Liberazione, e si cominciò con l’assegnare le zone e dare delle direttive: la più importante era di attaccare e far fuori il maggior numero di fascisti e di tedeschi. Il fatto della mancanza di armi in realtà rappresentava un inconveniente trascurabile, poiché era ovvio che attaccando il nemico, le armi si sarebbero subito conquistate.
Attaccare: con che cosa?
Lo spietato massacro della Benedicta, segnò la fine del periodo di incubazione del movimento partigiano nell’entroterra geno­vese. I colpi di mano di ribelli isolati stanno diventando vere e proprie azioni coordinate, e il Comando tedesco, fortemente preoccupato, con un grande rastrellamento tenta di distruggere quei focolai di ribellione, anche per rendere sicure le grandi arterie della Fontanabuona, del Trebbia e dell’ Aveto che collegano la Liguria con Piacenza e con Parma.
Dalle basi di Monleone, nella Fontanabuona, e di Torriglia e Rezzoaglio sulle strade del Trebbia e dell’Aveto, partono ogni giorno ingenti forze di fascisti inquadrati da tedeschi, e percorrono le mulattiere che portano sull’Antola e sul Ramaceto, setacciano le vallate, invadono villaggi sperduti sulle pendici di quei massicci, incendiano casolari, razziano bestiame, terrorizzano la gente del posto.
Ma i partigiani, considerata l’impossibilità di opporsi validamente a quella furia, già hanno predisposto un piano di difesa: parte di essi, con a capo il Commissario, si spingeranno nel profondo delle cave di ardesia di Orero, cave abbandonate da anni, percorse da un labirinto di gallerie impraticabili che s’addentrano nel cuore delle montagne; mentre il resto delle forze, col nuovo Comandante della formazione, Bisagno, si rifugerà nei boschi di Panexi, scaverà delle tane ai piedi degli alberi, e i partigiani potranno acquattarvisi, mentre il nemico, che non s’azzarda a penetrare nel folto, sfogherà la sua rabbia mitragliando alla cieca. Finché, dopo un paio di settimane, visto che quella lotta contro un nemico invisibile è destinata a non portare alcun risultato, il Comando tedesco ordina di ridiscendere a valle, lasciando che i fascisti, sui loro fogli, si vantino di avere liberato l’intera zona dai ribelli. Ma ecco, improvvisa e fulminea, la risposta di Bisagno: intima al podestà di Ferriere di dare le dimissioni e di sloggiare dal paese; e poiché questi, forte di un distaccamento di fascisti accasermatosi nelle scuole, si rifiuta di ottemperare all’ordine, al termine fissato blocca la statale e mentre un pattuglione occupa il centro del villaggio attirando su di sé l’attenzione dei fascisti, col grosso della formazione circonda la caserma e piomba da solo nell’interno facendola saltare.
Nello stesso giorno alcune formazioni al comando di Croce, scendono dall’Antola, circondano Rovegno, mentre Scrivia e Moro si spingono in val Borbera, occupando municipi e distruggendo elenchi di renitenti e registri degli ammassi. Infine, nella val D’Aveto l’Istriano e a Varese Ligure gli uomini di Virgola costringono i carabinieri ad abbandonare le caserme.
E dunque i ribelli che i fascisti si vantano di avere sgominato, si presentano più forti di prima:ora hanno un Comando di zona, la Sesta Zona Operativa, con tanto di Stato Maggiore che coordina con intelligenza le azioni e truppe efficienti e decise.
Stanno per diventare l’Esercito di Liberazione. (Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)
La Repubblica di Torriglia – Cronologia degli avvenimenti
Operazioni militari settembre 1943: cominciano a formarsi le prime bande partigiane. primavera 1944: le forze partigiane vedono accresciuta la loro consistenza numerica e la loro forza politico-militare. giugno 1944: si assiste all’avvio dell’offensiva partigiana che si dirama attorno a Bobbio (che venne prima liberato poi perso e poi, successivamente riconquistato). giugno-luglio 1944: l’infittirsi delle azioni partigiane inducono i nazifascisti a spostare i loro presidi verso i grandi centri; praticamente restava sotto il loro diretto controllo solo il litorale. luglio 1944:le forze partigiane portano a compimento la liberazione di una vasta area compresa tra il fiume Trebbia e il fiume Aveto; partendo dal Passo della Scoffera il territorio attraversato dalla statale 45 Genova-Piacenza giunge fino alle vicinanze di Bobbio, comprendendo importanti località: Torriglia, Montebruno, Propata, Rondanina, Fontanigorda, Rovegno, Pareto, Ottone, Marsaglia, Barbagelata, Lumarzo, Gorreto.
Azioni di Governo luglio 1944: a Torriglia viene insediata dal Comando partigiano una Giunta che si occupa della gestione amministrativa; i primi provvedimenti presi riguardano la situazione alimentare che si era fatta preoccupante per via sia dei molti sfollati che erano confluiti nella zona sia perché la Prefettura di Genova aveva interrotto l’invio degli approvvigionamenti per paura che finissero preda dei “ribelli”.luglio-agosto 1944: a Farini d’Olmo viene designata una Giunta Comunale che agisce insieme al Commissario Prefettizio; anche qui ci si occupa in prevalenza del settore alimentare: vengono fissati il prezzo del grano, il quantitativo del frumento da assegnare a ciascuna famiglia e i prezzi dei principali generi di più largo consumo.agosto 1944: fu possibile attuare una completa organizzazione del movimento partigiano di montagna con la creazione della “Terza Divisione Liguria” (che poi assumerà il nome di “Divisione Cichero”).
-5 agosto 1944: viene decisa l’istituzione di tribunali partigiani. seconda quindicina di agosto: si costituisce un Comando Unificato di zona che ha la funzione di coordinare tutte le formazioni dislocate nella zona montuosa del settore Genova – Alessandria – Pavia – Piacenza. estate-autunno 1944: in molte località del versante ligure diventano attive delle Giunte Amministrative (la maggior parte di esse viene istituita direttamente dai comandi partigiani; poche sono quelle che vengono scelte tramite consultazione elettorale); si occupano principalmente di rifornimenti alimentari, di contenimento del “mercato nero”, di questioni fiscali (viene deciso che bisogna continuare a pagare le tasse tranne quella marcatamente “fascista” sul celibato), ci si adopera nel reperimento tra gli sfollati, di maestri per poter riattivare le scuole nelle varie frazioni ecc.
Fine della “Repubblica” – fine agosto 1944: al momento di sferrare il rastrellamento i nazifascisti dispongono di oltre 30.000 uomini fra tedeschi, due Divisioni italiane, la “Littorio” e la “Monterosa” e tutti i gruppi fascisti della Liguria, del Piemonte e dell’alta Emilia. 4 novembre 1944: i partigiani riescono a resistere agli attacchi tedeschi. 23 novembre 1944: i nazifascisti riprendono con più vigore l’offensiva; il rastrellamento investe le zone del Pavese e del Piacentino per poi distendersi su tutto il territorio della “zona libera” (il 28 novembre 1944 cade Bobbio). metà dicembre 1944: i nazifascisti raggiungono le valli Staffora e Curone. gennaio 1945: il rastrellamento prosegue per tutto il mese colpendo pesantemente sia la popolazione civile che i partigiani; la “repubblica” cade e viene deciso lo sganciamento: divisi in piccoli nuclei i partigiani filtrano tra le maglie dei nazifascisti.
Le buche
Il ferito aveva rivelato alla dottoressa la tattica delle «buche». Fu una delle più originali intuizioni di Bisagno, che contribuirà decisivamente alla vittoria contro il rastrellamento d’inverno.
Fin dai primi di novembre Bisagno aveva previsto che un nuovo rastrellamento sarebbe stato inevitabile: era facile prevederlo lungo e più duro di quello dell’estate precedente. Questa volta non si sarebbe potuto contare sulla copertura dei boschi. C’era in più un altro pericolo mortale: il gelo, il freddo, che già a novembre del ’44 era rigido.
Bisagno non si lasciò sorprendere. L’obiettivo del nemico era distruggere le formazioni. Bisognava dunque provvedere innanzitutto a salvaguardarle in vista dell’offensiva di primavera per l’attesa liberazione.
Le decisioni furono precise:
Chiudere il reclutamento per evitare d’infoltire i distaccamenti con uomini non ancora abituati alla guerriglia.
Smobilitare le Sap di vallata, i cui uomini potevano trovare rifugio e occultarsi nelle proprie case.
I commissari dovevano illustrare agli uomini la situazione nella luce peggiore: coloro che non si fossero sentiti d’affrontare l’inverno in montagna con poco cibo, al freddo, rastrellati dai nazifascisti, sarebbero stati liberi d’andarsene entro pochi giorni.
Pochissimi si ritirarono: non più di due decine.
Il nemico intendeva disperdere le formazioni, rioccupare le valli, che avevano sì occupato durante il rastrellamento estivo, ma poi abbandonate, lasciando in balia degli attacchi dei ribelli le vie di comunicazione e le ferrovie ai margini dello Stato partigiano.
Il contropiano di Bisagno non si poneva l’obiettivo di respingere sempre e ovunque il nemico, ma di evitare l’agganciamento per poi riprendere le posizioni e appena possibile rioccupare le vallate con il minor numero di perdite. Questi due risultati dovevano essere l’obiettivo principale e avrebbero costituito – come costituirono – il fallimento della manovra nemica.
Era un piano di difesa elastico valido per contrastare l’avanzata del nemico durante il tempo necessario a coprire il fianco e le spalle delle formazioni vicine, per poi ritirarsi con sufficienti prospettive di salvezza.
Di qui la tattica delle «buche» di cui aveva parlato il ferito alla dottoressa. Dopo il primo urto, dopo un giorno o due di combattimenti, al massimo tre, le formazioni «dovevano sparire». Poiché l’eventualità di aggirare il nemico per scendere in pianura era prevedibile solo per piccoli nuclei isolati, occorreva sparire sottoterra.
Ogni brigata doveva avere il proprio settore d’occultamento da dividere in sottosettori per ogni distaccamento. Ogni distaccamento, che era composto di 40-60 uomini, a sua volta doveva dividersi in gruppi da un minimo di 2 a un massimo di 5 uomini, i quali separatamente, in tempi diversi, ciascun gruppo all’insaputa dell’altro, dovevano prepararsi fra le rocce, negli alvei dei ruscelli, negli anfratti e nei luoghi impervi, una vera e propria tana, nella quale rifugiarsi non appena deciso l’occultamento. Questi nascondigli furono subito chiamati «buche», sebbene non fossero effettivamente scavati sotto terra come quelli delle talpe.
Una ingente quantità di gallette di tipo militare venne preallestita nei forni della Val Borbera e dell’alta Val Trebbia. Molti recipienti vennero impiegati per costituire riserve minime d’acqua per 6-8 giorni. Alcuni rifugi peraltro disponevano dello scorrimento nell’immediata vicinanza, quando non nel medesimo anfratto, di rigagnoli o sorgenti.
L’operazione «buche» fu condotta con estrema segretezza. La popolazione non ne seppe nulla. Nemmeno i comandanti conoscevano l’ubicazione di tutti i rifugi. Il piano fu ben impostato: il sistema si rivelò nel complesso efficace e redditizio. (Brano tratto da “Pittaluga racconta – Romanzo di fatti veri 1943-45” di Paolo Emilio Taviani – Edizioni il Mulino)
Marco Gallione, Resistenza – La repubblica di Torriglia, Alta Val Trebbia, 27 gennaio 2009

G.B. Canepa, “partigiano Marzo”, La Repubblica di Torriglia, Genova, Frilli Editori, 2009, pp. 168 […] Questo prezioso volumetto di racconti non ha la prospettiva storica (e un po’ arida, burocratica) del celebre Una repubblica partigiana, in cui Giorgio Bocca documentava l’esperienza della repubblica dell’Ossola, perché più che raccontare la storia, racconta le storie della divisione Cichero, la leggendaria formazione partigiana garibaldina che riuscì a rendere autonoma una vasta porzione di territorio nell’entroterra genovese per 5 mesi, tra l’estate e l’autunno del 1944. Alla fine di novembre la Repubblica venne meno di fronte ai feroci rastrellamenti tedeschi e alla mancanza di supporto degli Alleati, ma la lotta continuò culminando nella liberazione di Genova il 25 aprile 1945. Qui trovate le storie di un pugno di uomini, una decina, che dopo l’8 settembre decide di combattere e i racconti, quasi in forma diaristica, come dei veloci schizzi impressionisti, ci restituiscono le sofferenze, la fatica e la sovrumana pazienza della lotta clandestina. Possiamo sentire l’odore di quella vita, il sapore del castagnaccio senza sale, il desiderio di una sigaretta, l’incapacità di alcuni a rassegnarsi a dormire su un letto morbido quando finalmente lo si trovava. Tra i protagonisti della Cichero c’era il leggendario comandante Aldo Gastaldi, detto Bisagno […] C’era il russo comandante Fiodor, l’unico straniero ad avere avuto la medaglia al valore militare italiana durante l’ultimo conflitto mondiale. C’erano azionisti, cattolici e comunisti gli uni a fianco agli altri, che cantavano assieme Bandiera Rossa o che osservavano il silenzio per permettere, a chi voleva, di pregare.
Queste pagine documentano con leggerezza e umiltà le storie di persone normali in circostanze eccezionali. C’è l’eroismo, anche sconsiderato; c’è la dura disciplina e l’umana pietà per il nemico che doveva venir meno di fronte all’esigenza di rispondere colpo su colpo alle rappresaglie, come quella tremenda fatta dai soldati mongoli, ex prigionieri al soldo dei tedeschi per sfuggire al campo di concentramento. Ci sono le pagine strazianti dell’eccidio del Turchino e della strage della Benedicta. Nel 1944 l’autore aveva quasi cinquant’anni: Giovanni Battista Canepa, detto Marzo, era uno dei comandanti della Cichero, a fianco di Bisagno […]
Filippo Casaccia, Partigiano Marzo: LA REPUBBLICA DI TORRIGLIA, Carmilla, 24 giugno 2009

Nei primi di gennaio del 45 vennero a costituirsi due nuovi Battaglioni, Matteotti-Val Bisagno.
Il Comando venne stabilito al Porto (Torriglia):
Comandante Marcello Machiavelli Marcello
Vicecomandante Olivo Mezzacasa Olivo
Commissario Giorgi Mitta Mario
Vicecommissario Astro Dondero Giorgio
Capo di Stato Magg. Doria Macaggi Carlo
Commissario Dist. Arno Arnoldi Ettore
Comandante di Batt. Burrasca Benti Giovanni
Comandante Dist, Mauro Ciancherotti M.
Comandante Dist. Nay Mezzadra Bruno
Comandante Dist. Gino Podestà Franco
Com. Dist. Gialon Sartori Estarino
Comandante Dist. Tigre Siri Giovanni
Comm. Dist. Ca Verbino Paolo
[…] 10 Febbraio 1945 – Una missiva firmata da Luigi e Civi119 comunica ad Umberto che: Da fonte sicura risulta che circa 400 “Uomini” sono passati da Bargagli diretti a Torriglia, inoltre un intenso raggruppamento di Truppa é a Gattorna, che a Lumarzo sono state ultimate le postazioni delle batterie pesanti; Circola voce di imminentissimo rastrellamento. Visto la gravità della situazione i Distaccamenti G.L. G. Matteotti di San Marco d’Urri, hanno deciso dopo riunione, di lasciare liberi i Volontari e di nascondere le armi fino al cessato pericolo.
10 Febbraio 1945 – Il Comando della 1^ Compagnia del II° Battaglione della G.L. scrive a Umberto che: Da informazioni ricevute ha saputo che a Bargagli sono passati 400 uomini diretti a Torriglia, che un mucchio di truppa è a Gattorna; Che a Lumarzo hanno finito di sistemare le postazioni dell’artiglieria pesante. Che con la presenza dei Tedeschi a Gattorna; Uscio; Pannesi; Lumarzo; Torriglia e a Cicagna, che i nemici possono venire anche da Neirone; Rossi; Tasso e Craviasco e il loro gruppo può essere rastrellato e essere tagliato fuori, hanno fatto una riunione dei Comandanti dei Distaccamenti così hanno deciso: Visto che la Volante è fatta da gente di questi Paesi e utile che si ritirano nelle proprie abitazioni, e che pure la loro Compagnia cercherà di dileguarsi nei rifugi o simili attendendo qualsiasi evento. Il comando è costretto a consentire queste decisioni, impegnandosi di riorganizzare tutto in 24 ore. Il documento porta diverse firme poco leggibili (Sembrano: Civi, Lume o Luigi, Milio e Pirri?)
[…] 19 Aprile 1945 – Ore 10,30 Giungono a Torriglia Truppe con armi, muli e carri con viveri, munizioni e altre scorte, di rinforzo al presidio locale. (La notizia è firmata Commissario “Luigi” e dal Comandante “Ugo”)
[…] 18 Aprile 1945 – Si comunica alle 18,30 al Comando G.L. G. Matteotti che nella notte alle ore 02,00 Un gruppo di sabotatori nemici di venti uomini ha lasciato Torriglia e non hanno più fatto rientro, di prestare attenzione e di stare all’erta nelle Zone Partigiane.
[…] Lettera di Carlo a Umberto:
25/4/45
Per Umberto – Urgente – Ore 11 a.m.
In risposta a comunicazione orale in merito dislocazione nostre (Brig. Lanfranconi) da Montebruno a Torriglia.
[NOTE]

Aurelio Ferrando, “Scrivia”

119 Luigi è Casassa Luigi Commissario della Brigata P. Borrotzu – Civi è Faggiani Giuseppe Comandante del Distaccamento Biffera della Brg. Lanfranconi
Bruno Garaventa, Da Pannesi e Lumarzo a… Memorie e cronache degli eventi durante la lotta di Liberazione 1943-45, Ilsrec Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Genova, 2004