Giovanni Palatucci, il questore di Fiume che aiutò gli ebrei

Giovanni Palatucci – Fonte: Palermo Today

[Giovanni Palatucci] Nasce a Montella (AV) il 31 maggio 1909. Si laurea in Giurisprudenza nel 1932 presso la Regia Università di Torino.
Nel 1936 vince il concorso e si reca a Roma per frequentare il 14° corso per funzionari della Pubblica Sicurezza al termine del quale viene assegnato alla Questura di Genova.
Il 15 novembre 1937 viene trasferito presso la Questura di Fiume, dove assume l’incarico di responsabile dell’ufficio stranieri.
Il 13 settembre 1944 viene arrestato dalla Gestapo e portato nel carcere “Coroneo” di Trieste con l’accusa formale di cospirazione ed intelligenza con il nemico. Qui viene condannato a morte dalle autorità tedesche per la sua attività a favore delle migliaia di profughi ebrei che riuscì a sottratte alle persecuzioni naziste.
Il 22 ottobre 1944 viene deportato nel campo di sterminio di Dachau, vicino a Monaco di Baviera (matricola 117826).
Il 10 febbraio 1945, a poche settimane dalla Liberazione, muore dopo aver subito circa quattro mesi di stenti e sevizie. Il suo corpo viene gettato in una fossa comune sulla collina di Leitenberg, insieme ai corpi di centinaia di ebrei e di antifascisti.
Redazione, Giovanni Palatucci, Polizia di Stato, 17 novembre 2007

La figura principale, all’interno di questa categoria, fu però quella di Giovanni Palatucci [47]. Nato nel 1909 a Montello, in provincia di Avellino, dopo la laurea in legge intraprese la carriera di funzionario di Pubblica Sicurezza. Inizialmente nominato vicecommissario aggiunto presso la Questura di Genova fu in seguito trasferito a Fiume, dove giunse il 15 novembre 1937, assumendo la responsabilità dell’ufficio stranieri. Nella cittadina dalmata intrecciò subito fecondi rapporti con tutti i cittadini compresi quelli di origine ebraica e, successivamente, contando sull’aiuto di alcuni collaboratori all’interno della stessa Questura, attivò una rete di assistenza per i perseguitati razziali. Già nel marzo del 1939 un suo provvidenziale intervento permise a una nave con a bordo 800 fuggiaschi provenienti dalla Jugoslavia, di sottrarsi alla Gestapo trovando rifugio nel paese di Abbazia.
Gli ebrei in fuga dalla Jugoslavia raggiunsero la salvezza contando soprattutto sul cosiddetto “canale di Fiume” che, attivo già dopo il varo delle leggi razziali, divenne di vitale importanza dopo l’occupazione tedesca dei Balcani. Passato il confine, grazie anche all’aiuto di ufficiali e soldati della Seconda armata italiana, i profughi ricevevano una prima accoglienza presso famiglie fidate per poi essere indirizzati in località più sicure. Palatucci, grazie alla sua funzione di responsabile dell’ufficio stranieri, li rendeva dapprima irreperibili e poi li avviava con documenti falsificati in tali luoghi.
Una di queste destinazioni era il campo di raccolta profughi di Campagna, situato in provincia di Salerno, dove Palatucci poteva contare sull’aiuto sia del direttore, un funzionario che era stato anch’egli a Fiume, sia sulla più alta autorità religiosa locale: lo zio monsignor Giuseppe Maria Palatucci. Numerosi ebrei, grazie alla rete intessuta dal Questore di Fiume, furono avviati anche in Abruzzo e in Molise presso i centri istituiti per dare ospitalità agli sfollati di guerra. Dopo l’8 settembre 1943, che ebbe come conseguenza l’occupazione di Fiume da parte tedesca e la creazione del “Litorale Adriatico”, l’impegno di Palatucci non accennò a diminuire.
Nominato reggente della Questura criticò aspramente, attraverso relazioni ufficiali, le autorità della Repubblica di Salò impassibili e silenti davanti agli abusi compiuti sia dai tedeschi sia dagli Ustascia e prontamente avallati dalla Milizia e dal Partito fascista repubblicano. Strinse inoltre rapporti con i Cln, dove era conosciuto come “Danieli”, ed elaborò un progetto politico che avrebbe dovuto portare, al termine del conflitto, alla nascita dello Stato indipendente di Fiume. Ma soprattutto ordinò che fossero distrutti tutti i registri degli ebrei presso l’ufficio stranieri e impartì disposizioni precise affinché l’ufficio anagrafico del Municipio non rilasciasse alcun documento relativo a cittadini di razza ebraica senza aver preventivamente informato la Questura stessa che, in tal modo, poté conoscere in anticipo i preparativi delle SS avvisando così i perseguitati. Nonostante l’intensificarsi dei pericoli, Palatucci lasciò cadere tutti gli inviti e i consigli a lui rivolti perché abbandonasse Fiume. Arrestato il 13 settembre 1944 fu deportato a Dachau dove morì il 10 febbraio dell’anno successivo. In base a quando testimoniato nel secondo Congresso ebraico mondiale, tenutosi a Londra nel 1945, la sua intensa attività aveva permesso la salvezza di ben 5.000 ebrei.
Grazie all’apporto della Resistenza, al contributo della Chiesa, alla solidarietà del mondo contadino e al coraggio silenzioso di singoli uomini, l’85 per cento degli ebrei d’Italia sopravvisse all’Olocausto. Molti pagarono i loro slanci d’altruismo con infinite sofferenze, con la deportazione e con la vita stessa. Ma posti di fronte a un ideologia che pretendeva si schiacciare e sterminare altri esseri umani colpevoli semplicemente di essere nati ebrei, seppero rispondere con fermezza riaffermando il valore supremo della persona. Ancora oggi la loro vita e i loro semplici gesti, compiuti nel momento più tragico per l’intera storia dell’umanità, non possono che costituire un esempio e un modello per tutti coloro che, in ogni settore della società, sono impegnati nella difesa della dignità dell’uomo e lavorano al fine di favorirne la sua crescita civile e morale.
[47] Sulla figura di Palatucci e sul suo operato in favore degli ebrei si vedano G.Raimo, A Dachau per amore: Giovanni Palatucci, Avellino, Dragonetti, 1992; P.Vanzan, Giovanni Palatucci, Questore e martire, in ‘La Civiltà Cattolica’, 15 luglio 2000, pp. 121-131; M.Coslovich, Note sulla figura e l’opera di Giovanni Palatucci, in ‘La rassegna mensile di Israel’, gennaio aprile 1995, pp. 90-103; A.L.Jamini, Il salvataggio degli ebrei a Fiume durante la persecuzione nazifascista, in Il movimento di liberazione in Italia, luglio 1955, n.37, pp. 44-47
Massimiliano Tenconi, La guerra silenziosa per salvare gli ebrei, Storia in network, 1 maggio 2014

[Giovanni Palatucci] Nasce a Montella, in provincia di Avellino, il 31 maggio 1909. Nel 1932, a ventitré anni, si laurea in giurisprudenza presso l’Università di Torino e nel 1936 si arruola come volontario nel ruolo di Vice Commissario di Pubblica Sicurezza a Genova. Alla fine del 1937 viene trasferito alla Questura di Fiume come responsabile anni successivi avrà incarichi di Commissario e di Questore-reggente dell’ufficio stranieri, ruolo che lo mette a contatto diretto con la dura realtà della condizione degli ebrei. In seguito assume l’incarico di Commissario e di Questore reggente e non si allontana da Fiume neanche quando il Ministero ne dispone, nell’aprile del 1939, il trasferimento a Caserta.
Rodolfo Grani, ebreo fiumano che conobbe personalmente Palatucci, lo ricorda come “nobilissimo giovane cattolico” e cita un suo primo grande intervento di salvataggio del marzo 1939. Si trattava di 800 fuggiaschi che dovevano entro poche ore essere consegnati alla Gestapo. Palatucci avvisa tempestivamente Grani, il quale ottiene l’intervento del Vescovo Isidoro Sain che, a sua volta, nasconde temporaneamente i profughi nella vicina località di Abbazia sotto la protezione del Vescovado.
Il 13 settembre 1944 il funzionario di polizia viene arrestato dal tenente colonnello Kappler delle SS e tradotto nel carcere di Trieste, da cui, il 22 ottobre, è trasferito nel campo di sterminio di Dachau, dove muore il 10 febbraio 1945, pochi giorni prima della Liberazione, a soli 36 anni.
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“Palatucci salvò i miei genitori” [articolo] la testimonianza di Renata Conforty
[…] La ricerca su Giovanni Palatucci [articolo] del Centro Primo Levi di New York
Giovanni Palatucci: il Giusto, i fatti, i documenti [articolo] di Matteo Luigi Napolitano
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Redazione, Giovanni Palatucci 1909 – 1945 il questore di Fiume che aiutò gli ebrei, Gariwo la foresta dei giusti

Giovanni Palatucci – Fonte: La Stampa

[…] A quel punto l’unica alternativa per sfuggire all’arresto e all’internamento nei campi di concentramento, era quella di cercare di oltrepassare la frontiera e raggiungere i territori presidiati dalle forze d’occupazione italiane per spingersi fino a Fiume dove, dal novembre del 1937, era stato chiamato a dirigere l’Ufficio Stranieri della Questura Giovanni Palatucci.
È proprio ciò che fecero anche Carl, Edmund e Rudolph Selan, giovani rampolli di una famiglia ebrea di origini austro-ungariche. «Appena i tedeschi invasero la Jugoslavia – racconta la figlia di Carl, Edna Selan Epstein – nel mese di aprile del 1941 ebbe inizio la fuga della mia famiglia per nasconderci e per mettere in salvo la nostra vita. Siamo andati in Italia. Mio padre è fuggito subito dopo che gli ustaša sono venuti a prenderlo una mattina presto di aprile del 1941 presso la nostra abitazione che sorgeva in via Zrinjevach, un’elegante strada residenziale di Zagabria. Mia madre riuscì a convincerli che non era in casa, ma fuori per un viaggio d’affari. Forse – continua Edna – al vedere quella giovane donna con due bambine piccole l’ufficiale ustaša s’impietosì e rinunciò a perquisire l’appartamento. Se lo avesse fatto, avrebbe subito trovato mio padre in camera da letto. Appena andarono via, nel giro di poche ore, mio padre partì per l’Italia».
Come si evince dalla documentazione rinvenuta negli archivi di Bad Arolsen (Quellenangaben: digitales Archiv: ITS Bad Arolsen: Teilbestand: 6.3.3.2, Dokument ID: 108729836 – Korrespondenzakte T/D 940 127), Carl Selan – al pari di tanti altri suoi correligionari – poco dopo raggiunse Sušak, nel territorio occupato dagli italiani. Qui operava il rabbino Otto Deutsch che, essendo anche il referente locale della Delasem, a quel tempo si prendeva cura dei profughi ebrei che affluivano dalla Croazia soprattutto dopo le leggi antisemite varate da Pavelić, come confermato dallo stesso braccio destro di Palatucci, la guardia di P. S. Americo Cucciniello. «[Prima dell’armistizio] per facilitare i contatti e/o presentare persone veniva, in ufficio, il rabbino “Deutesch”, il quale faceva da intermediario per ebrei che venivano dalla Germania e da tutto l’Est europeo […per i quali] si aveva particolare attenzione nel favorire il lasciapassare verso la libertà o verso i paesi liberi».
Questo particolare, del resto, è confermato anche da Franco Avallone, figlio della Guardia Scelta di P.S. Raffaele Avallone e stretto collaboratore di Palatucci, il quale riferisce un interessante episodio che vide per protagonista il giovane dirigente dell’ufficio stranieri della Questura di Fiume, la madre Anna Casaburi e l’allora rabbino di Sušak. «Ricordo – dichiara Avallone – che in seguito anche mia madre fu coinvolta nel salvare numerosi ebrei. Infatti, secondo la versione ufficiale, spesso si recava a Sušak per acquistare delle primizie agricole provenienti dalle campagne circostanti, ma in effetti lo scopo principale era quello di conoscere quanti ebrei aspettavano di varcare i confini con l’Italia. Nella zona di Sušak – continua Avallone – operava il Rabbino Deutsch che era un punto di riferimento importante per gli ebrei dei paesi dell’Europa orientale. Il commissario Palatucci aveva creato con lui, attraverso una rete di amici comuni, una strada per salvare tanti ebrei dai campi di sterminio». Proprio per questo motivo, il 21 giugno 1941, aveva fatto rilasciare dalla questura di Fiume alla moglie del suo collaboratore una Tessera di frontiera per il confine Jugoslavo. Il 9 giugno, appena giunto a Fiume, Carl Selan si recò subito in Questura dove, sulla base del suo passaporto jugoslavo, gli fu rilasciato un visto di soggiorno e, il 14 luglio successivo, decise di stabilirsi temporaneamente al civico 52 di via Trieste, dopodiché il 16 luglio inoltrò la richiesta al consolato di Spagna a Sušak per ottenere un visto e, in quello stesso giorno, richiese alla Questura di Fiume il ricongiungimento con i propri familiari che, trovandosi ancora a Zagabria, erano in serio pericolo «a causa delle politiche anti-semite degli Ustascia». Difatti, il suocero, Oto Eisner, confidando sull’amicizia nata sui banchi di scuola col poglavnik, incautamente preferì restare a Zagabria pensando di essere risparmiato dai rastrellamenti, ma quando gli ustaša si presentarono all’uscio della sua casa, per non essere acciuffato si praticò un taglio ai polsi che, tuttavia, non gli servì a niente perché poco dopo i gendarmi croati andarono a prelevarlo persino dal suo letto d’ospedale e a quel punto, piuttosto che affrontare l’orrenda sorte che lo attendeva preferì lanciarsi dalla finestra. Fortunatamente la richiesta di trasferimento a Fiume di Lotte e delle sue due bambine Edna e Mira, rispettivamente di appena 3 anni e 9 mesi, fu prontamente accolta tant’è che ai principi di agosto subito fu escogitato il piano per consentire loro di oltrepassare la frontiera croata. «Un militare italiano – racconta sul filo della memoria la signora Edna – ha preso me, mia madre e la mia sorellina e ci ha condotti oltre il confine, affermando che eravamo la moglie e le figlie».
La stessa procedura fu eseguita l’anno successivo quando, dopo la morte del nonno paterno Wilhelmm, il padre riuscì a far arrivare a Fiume anche la madre Serafina Ungar. Poco dopo, evidentemente su suggerimento di Palatucci, si trasferirono nella più tranquilla e pittoresca città di Laurana, dove trovarono un appartamento al civico 144 di via Oprino, neanche a farlo apposta proprio accanto a quello che, il 30 aprile dell’anno successivo, al n. 135 presso la Villa Maria ospiterà le due profughe croate inviate da Palatucci, Maria Eisler con la madre Dragica Braun giunta a Fiume il 21 gennaio 1942, dopo un rocambolesco viaggio a bordo di una corriera anch’essa partita da Sušak.
Effettivamente, sembra proprio che questo percorso, o “canale” come dir si voglia, attraverso “quel ponte sul fiume Eneo” che divideva il territorio fiumano dalle terre jugoslave controllate dall’esercito italiano, fosse piuttosto frequentato in quel periodo per poter approdare a Fiume, tant’è che Palatucci in una lettera “riservatissima” al Capo della Polizia Tamburini del 10 maggio 1944, si affrettava a sottolineare che «il ponte sull’Eneo (era) sempre aperto sicché i croati di qualunque provenienza po(tevano) tranquillamente venire a Fiume e inoltrarsi nel territorio della Repubblica». Fu così che, dall’agosto del 1941 fino al settembre del 1943, vissero indisturbati in quell’incantevole località che si affaccia sulle sponde dell’Adriatico. «Palatucci era molto più di un gentiluomo – sottolinea Edna Selan –. Era anche una persona coraggiosa con uno spiccato senso etico. I miei genitori lo conoscevano molto bene. Mi hanno fatto capire che eravamo sotto la sua “protezione” quando vivevamo a Laurana».
Difatti, come precisa Carl Selan nella lettera inviata nel marzo del ’54 allo zio dell’ex Questore Reggente di Fiume, il vescovo di Campagna mons. Giuseppe Maria Palatucci, in più di una circostanza ebbe l’opportunità «di parlare personalmente» col nipote quando si recava a Laurana per far visita ad «amici comuni» e sincerarsi che tutto procedeva per il verso giusto. […]
Giovanni Preziosi, I «protetti» di Palatucci: un giusto ricordo. La storia del salvataggio della famiglia ebrea dei Selan: dalla Croazia ustaša di Ante Pavelić all’Italia passando per quel ponte sul fiume Eneo, La Stampa, 25 maggio 2015

[…] “Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare”. è quanto scriveva l’8 dicembre 1941 Giovanni Palatucci in una lettera inviata ai genitori. Niente di speciale davvero, se non fosse che quel “po’ di bene”, compiuto nel più totale sprezzo del pericolo e in tempi difficili, significò la salvezza di centinaia di ebrei; oltre cinquemila, secondo quanto riferito dal delegato italiano Rafael Danton alla prima Conferenza ebraica mondiale tenutasi a Londra nel 1945.
Giovanni Palatucci era un cattolico di profonda fede; non sappiamo quali furono le sue prime reazioni alle leggi razziali, ma da parecchie testimonianze risulta chiaro come, via via che crebbe il pericolo per gli ebrei, egli rifiutasse di farsi complice delle persecuzioni. Egli non volle allontanarsi da Fiume neanche quando il Ministero dispose nell’aprile del 1939 il trasferimento a Caserta.
Rodolfo Grani, ebreo fiumano molto impegnato nella pubblicistica del settore, promotore di pubblici riconoscimenti in Italia ed in Israele alla memoria di Giovanni Palatucci – che egli conobbe personalmente e della cui benemerita quanto rischiosa opera di solidarietà in favore degli ebrei è stato diretto testimone – ricorda un primo grande salvataggio nel marzo del 1939, attuato dall’eroico funzionario, da lui definito “nobilissimo giovane cattolico”.
Si trattava di 800 fuggiaschi che dovevano entro poche ore essere consegnati alla gestapo. Il dott. Palatucci avvisò tempestivamente Grani, il quale si mobilitò ed ottenne l’intervento del Vescovo Isidoro Sain che, a sua volta, nascose temporaneamente i profughi nella vicina località di Abbazia sotto la protezione del Vescovado.
A proposito di Grani, nel suo appello agli ex internati del campo di concentramento di Campagna, di cui si è detto, ci è dato leggere: “Stava nella facoltà del Dott. Palatucci di concedere agli ebrei rifugiati dai paesi di Hitler a Fiume i relativi Permessi di soggiorno e non una volta, quando si trattava di qualche affare scabroso, ha dovuto combattere l’animosità dei suoi superiori: il noto antisemita ha chiesto il mio modesto aiuto pregandomi di salvare i miei disgraziati correligionari, rivolgendomi al competente Ministero a Roma. Ciò mi è riuscito quasi sempre. Il dott. Palatucci dimostrava non solo nel suo ufficio, ma anche fuori di questo, la sua costante simpatia verso gli israeliti. Si potrebbe dire, che preferiva apertamente la compagnia degli ebrei nei luoghi pubblici e ritrovi. Quando nel giugno del 1940 scoppiò la guerra e gli israeliti di Fiume e dintorni furono arrestati ed accompagnati maggior parte al campo di concentramento di Campagna, non una volta si affrettò il dott. Palatucci di raccomandare questi disgraziati alla benevolenza del suo zio, a S. E. Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna, il quale ci ha ricevuto con una squisita gentilezza e nobilissima generosità, dimostrandoci la sua altissima umanità e filosemitismo”.
La figura di quest’ultimo si saldò inscindibilmente, a partire dal giugno del 1940, con quella del nipote Giovanni; il giovane responsabile dell’Ufficio stranieri infatti, quando la via dell’emigrazione non era possibile, inviava gli ebrei presso il campo di concentramento di Campagna affidandoli alla protezione dello zio Vescovo.
Giovanni dunque si rendeva conto che quel campo, pur con tutti i disagi dell’internamento, offriva un rifugio agli ebrei assai più sicuro delle terre jugoslave e, d’intesa con lo zio Vescovo, mise in opera ogni stratagemma per avviare là i profughi minacciati da immediati pericoli. Per non avere ostacoli dal Prefetto e dal Questore, presentava loro la soluzione dell’internamento nell’Italia meridionale come rimedio per liberarsi della presenza dei profughi che costituiva una minaccia per la sicurezza pubblica.
Ritornando a Rodolfo Grani, anche nel suo servizio “L’opera di salvataggio del Vaticano per gli Ebrei”, pubblicato su Haboker, 10 agosto 1952, si sofferma sul suo personale istradamento, avvenuto per interessamento del dott. Palatucci, a Campagna “dove eravamo internati in gran massa noi fiumani”. Il Vescovo Palatucci “si è reso indimenticabile fra migliaia e migliaia di nostra gente, aiutandoci, consolandoci con la massima generosità, facendosi fotografare con noi, disgraziati espulsi dalla vita sociale”.
Anche l’avv. Barone Niel Sachs di Gric, che conobbe il Commissario Palatucci nell’espletare funzioni di legale di fiducia presso la Curia Vescovile di Fiume, in una sua lettera del 25-09-1952 indirizzata al Vescovo Palatucci, sottolineava quanto il giovane amico sfidasse “l’ira dei suoi diretti superiori, il Prefetto ed il Questore di quel tempo”. Nel contempo il legale annotava la “riconoscenza imperitura dei beneficati dell’ottimo mio caro amico, suo esemplare nipote, mai abbastanza rimpianto”, e che egli aveva avuto “la fortuna” di conoscere. Parlando, un giorno, con il suo “indimenticabile” amico, il quale avrebbe “a guerra finita dovuto entrare a far parte” del suo “studio di avvocato a Fiume”, ricorda che egli gli disse pieno di amarezza: “ci vogliono dare a intendere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano. Queste nobili parole del nostro indimenticabile martire risuonano dopo tanti anni ancora nelle mie orecchie e L’assicuro, Eccellenza Reverendissima, che nella lunga mia carriera non ho mai incontrato un più grande gentiluomo e galantuomo di Suo nipote”.
Giovanni Palatucci, responsabile dell’ufficio stranieri in una delle più calde zone di confine, era probabilmente un ingranaggio della burocrazia che, ogni qual volta doveva funzionare a danno dei profughi ebrei, si inceppava.
Un’altra testimonianza del suo modo di agire, delle sue scelte e della sua sensibilità, è senza dubbio il racconto dell’ebrea austriaca Rozsi Neumann, pubblicato nella rivista “Israel” (n. 39 18 giugno 1953), salvata con suo marito. Essi – il marito era già scampato a Dachau – erano di provenienza austriaca e avevano tentato di entrare clandestinamente in Jugoslavia; qui furono però catturati dalla gendarmeria e consegnati alla Questura di Fiume, che li rinchiuse nel carcere di via Roma. I coniugi temettero per un loro “rimpatrio in Austria da parte della Questura, il che avrebbe voluto dire andare a morte sicura”. Avevano prima sentito molto parlare del dott. Palatucci e della sua opera di soccorso. Un giorno ebbero la sorpresa di vederlo arrivare nella loro cella, in visita. “Egli era di natura gaia”. Un altro giorno, quello di Natale, ebbero una sorpresa ancor più forte: furono portati in Questura, dove il dott. Palatucci offrì loro un pranzo. Il funzionario aveva appreso, attraverso la censura della corrispondenza, che la signora Neumann aveva espresso ad alcuni conoscenti il desiderio di mangiare qualcosa di diverso in occasione del Natale. “L’emozione fu tale che io riuscivo con difficoltà ad inghiottire”, ricorda la signora, aggiungendo che “con il suo aiuto fummo poi liberati e potemmo salvarci la vita”.
Un pensiero di gratitudine fu poi espresso, dalla signora Neumann, allo zio, Mons. G. M. Palatucci, con lettera del 26 giugno 1953, nella quale si parla dei riconoscimenti che venivano tributati alla memoria del dott. Palatucci, “nobilissimo uomo”, da tutti gli ebrei da lui “tanto aiutati”; annunziando che la sua testimonianza sarebbe stata inviata anche ad un giornale di New York, ricordava infine che “Vostro nipote (il quale mi parlava spesso di voi) credeva che sarò internata in Campagna e mi voleva dare per Voi una lettera di raccomandazione. Fui però mandata a Montefiascone e così purtroppo non ho avuto l’onore di fare la Vostra conoscenza”. […]
LO SCHINDLER IRPINO, Ricerca eseguita dagli alunni delle classi terze della scuola media dell’istituto [Giovanni Palatucci di Campagna in provincia di Salerno] nell’ambito della realizzazione del CD-Rom a.s. 2000-2001: “La Memoria è …..non ripetere gli stessi errori”

[…] Quando nel 1938 il governo di Mussolini promulgò le infami leggi razziali con l’approvazione di Casa Savoia, Palatucci, responsabile dell’Ufficio stranieri nella città di Fiume, avvertì la persecuzione razziale come un’offesa fatta contro la sua stessa Patria. Spinto da questa ragione, egli iniziò con riservatezza, le prime operazioni di assistenza e di soccorso agli ebrei di Fiume e dei profughi provenienti dai paesi occupati dai nazisti.
Prese subito contatti con alcune persone fidate come la signora Motta, proprietaria di un panificio e la signora Piceni, disponibile a nascondere i profughi ebrei. Nel tragico Settembre del 1943, in seguito all’occupzione tedesca dell’Italia, per impedire alle SS naziste la ”soluzione finale”, nella funzione di reggente della Questura, ordinò la distruzione dei documenti di identità riguardanti gli ebrei della Comunità di Fiume.
Elena Dafner, che ora vive in Israele, racconta.
«Abitavo a Fiume con la mia famiglia quando fummo colpiti dalle leggi razziali emanate dal Governo fascista di Mussolini. Eravamo già scappati dall’Austria per sfuggire alla cattura nazista ed ora sembravamo essere caduti dalla padella nella brace.
Mi recai insieme a mio marito in Questura, confidando nell’aiuto del dottor Palatucci, che era conosciuto in Comunità come un amico degli ebrei. Ascoltò le nostre sofferenze, mettendo subito un timbro di regolarità sui nostri passaporti austriaci.
La Gestapo iniziò subito la caccia agli ebrei, per cui venni nascosta, su indicazione di Palatucci, insieme alla mia bambina, in casa della signora Piceni-Castagnaro. Appena fu possibile mi permise di lasciare Fiume con in collo la mia bambina, diretta a Caprarola in provincia di Viterbo. Da questo campo di raccolta fummo inviati nel paese di Campagna nel salernitano, sotto la protezione del vescovo Giuseppe Maria, zio di Palatucci, fino alla nostra liberazione.»
Un’altra testimonianza depositata come la prima nel memoriale di Yad va Shem della Shoà in Gerusalemme, è quella della pianista croata Elisabeth Ferber.
«Quando nel 1941 i nazisti occuparono Zagabria, fuggimmo insieme a mio marito a Fiume, dove abitava la mia amica Mika Eisler che ci condusse in Questura dal Palatucci. Costui mise subito in ordine i nostri passaporti, nel proposito di portare a compimento il salvataggio degli ebrei e dei perseguitati politici.
Il Mitteilungsblat, giornale in uscita a Tel Aviv, su testimonianze di alcuni sopravvisti alla Shoà, scrisse:” Il cuore di Palatucci, la sua borsa erano sempre aperte agli ebrei, invece di dar loro la caccia in accordo con le funzioni che egli ricopriva’.»
Anche la signora Rivka Neumann, che fuggì dall’Austria dopo l’annessione di questa nazione (Anschluss) alla Germania nazista ha ricordato che: «Mentre cercavo di attraversare il confine austriaco insieme a mio marito, fummo fermati dalla gendarmeria fascista e condotti alla Questura di Fiume. I nostri documenti purtroppo erano irregolari per cui si rischiava il rimpatrio in Austria e con essa la deportazione nei Lager di sterminio tedeschi. Il dottor Palatucci venne a visitarci in prigione, senza curarsi dei pericoli a cui si esponeva. Fornì a noi due i documenti necessari per affrontare il viaggio salvifico verso il Sud italia a Campagna, dove trovammo lo zio vescovo Giuseppe Maria ad occoglierci.»
Con l’occupazione nazista dell’Italia nel settembre 1943 Hitler pretese da Mussolini, fantoccio della Repubblica di Salò, un contributo per le spese di guerra e una dichiarazione nota come ”carta di Verona” in cui gli ebrei italiani venivano considerati una ”nazionalità nemica”.
Era questa un’ossessione dei gerarchi nazisti, che vennero giustiziati a Norinberga dalle forze Alleate di liberazione mediante impiccagione. Per costoro l’epicentro della guerra era la vittoria sui nemici accompagnato dallo sterminio del popolo ebraico dalla faccia della terra.(soluzione finale).
L’antisemitismo era diventato la loro droga necessaria per continuare sulla strada del crimine, che avevano coscientemente intrapreso. Dovunque questi assassini della storia sono stati, cercavano gli ebrei, come accaduto in Italia, dove le liste delle varie Comunità finirono presso il comando tedesco di Verona, sul tavolo del maggiore delle SS Bosshamer, che riempiva di ebrei i vagoni dei treni della morte indirizzati nei Lager di sterminio tedeschi.
Giovanni Palatucci, in contrasto con l’ideologia razzista dominante, fu un faro di luce nella notte oscura d’Europa. Egli entrò in collusione con le autorità tedesche di occupazione, sfidò la Gestapo di Himmler, impedendo che la città di Fiume diventasse una trappola mortale per gli ebrei in fuga dalla Croazia e dall’Europa orientale.
Le retate organizzate dalla Gestapo non davano i frutti da questa sperati, perché Palatucci riusciva a conoscere i suoi piani, avvisando in tempo le vittime.
I nazisti compresero allora che il regista di queste operazioni di salvataggio era proprio il vice Questore di Fiume, che intesseva rapporti anche con i partigiani della Resistenza fiumana. Antonio Jamini difatti avvisò il Palatucci sui pericoli che stava correndo a causa della sue azioni di spericolato aiuto ai perseguitati.
A questo avvertimento si aggiunse anche quello di Americo Cucciniello, suo collaboratore insieme a quello di Alberto Remolino, suo fidato corriere nelle corrispondenze con lo zio vescovo Giuseppe Maria Palatucci, nonostante gli avvertimenti ricevuti, rimase al suo posto, sorretto dalla volontà e dalla speranza di poter salvare sempre ”una vita in più”.
Arrestato dalla Gestapo nella notte del 13 settembre 1944 nella sua abitazione di Fiume con l’accusa di essere un ”confidente” degli ebrei, fu gettato su di un camion dalla gendarmeria nazista e trasportato nel carcere Cotroneo di Trieste. Dopo un rapido e sommario interrogatorio, venne deportato nel Lager di Dachau per il trattamento riservato ai prigionieri politici, dove incontrò la morte il 10 di febbraio del 1945 tra stenti e patimenti. […]
Fulvio Canetti, Giovanni Palatucci “un giusto” tra le Nazioni del mondo, Nuovo Monitore Napoletano, febbraio 2021

[…] Per riuscire, in qualche modo, ad avere dei dati diversi, è indispensabile rivedere le testimonianze del tempo, gli archivi privati, i progetti ideati anche in sedi esterne all’Italia, e studiare gli atti di intelligence depositati presso l’archivio SS di Berlino, o nelle raccolte inglesi e statunitensi. Tali sottolineature sono importanti anche con riferimento alla figura di un vice commissario originario della Campania: Giovanni Palatucci.
[…] Palatucci non era considerato un sostenitore del regime. Cfr. lettera del Questore di Genova (Rodolfo Buzzi) al Capo della Polizia, datata 1.8.1937. Testo: “Eccellenza, in merito alla segnalazione che V.E. si è compiaciuta rimettermi con gentile autografo, sono in grado di riferirLe che autore della conversazione “un Funzionario di P.S. parla della Pubblica Sicurezza” è fuor d’ogni dubbio il Vice Commissario Agg. Dott. Giovanni Palatucci il quale fa parte dell’Amministrazione e presta servizio presso questa Regia Questura dall’agosto dello scorso anno”. La lettera continua esprimendo dubbi sull’affidabilità dell’interessato: “Pel concetto che ho potuto formarmene, elemento che
l’Amministrazione della P.S. perderà senza risentirne alcun svantaggio”.

[…] Nel dicembre del 1941, in una lettera ai familiari, Palatucci scrive: “I miei superiori sanno che, grazie a Dio, sono diverso da loro. Siccome lo so anche io, i rapporti sono formali, ma non cordiali. Non è a loro che chiedo soddisfazioni, ma al mio lavoro, che me ne dà molte”. E ancora: “Ho la possibilità di fare un po’ di bene e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare”.
Le frasi riportate (a rischio di censura) indicano dei messaggi in codice. Giovanni fa sapere che le cose a Fiume non vanno bene. La “non cordialità” significa una non intesa sul piano etico. Anche il riferimento ai “beneficiati” è volutamente generico. Palatucci non si azzarda ad andare in dettagli. Sarebbe, però, affrettato fermarsi a una lettura di superficie. Un vice commissario di P.S. deve essere, per obbligo di ufficio, corretto. Ma nella lettera è proprio il riferimento a dei “benefici” che induce a riflettere su qualcos’altro.
I problemi con i superiori trovano due riscontri: il 23 luglio del 1943 un ispettore fece delle verifiche nell’ufficio di Palatucci.
Trovò solo elenchi di stranieri non residenti più in Italia da lungo tempo. Riferì che il giovane responsabile era stato negligente. Aveva dimostrato scarsa vigilanza. Ne derivò una nota di biasimo; in più occasioni Palatucci chiese di essere trasferito (a Riccione, o Cattolica, o Cesena). Non gli fu permesso. Al contrario, i superiori cominciarono a tenerlo sotto controllo (non era un loro fiduciario), mentre – per non insospettirlo – gli manifestavano consenso.
Per lo storico, tutto questo significa andare oltre le note positive ufficiali che può trovare in un fascicolo. Deve anche indagare sullo spionaggio interno.
Nel novembre 1943, Fiume, pur inclusa nella Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.), entrò (di fatto) a far parte della cosiddetta Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland). Il territorio era sotto diretto controllo tedesco <5.
Il comando militare di Fiume passò al capitano delle SS Hoepener. La città si trovò nella condizione di “alleato-occupato”. In quel momento, gli ebrei presenti a Fiume erano circa 3.500. In gran parte profughi (Croazia e Galizia). Palatucci venne nominato reggente della Questura <6. Quest’ultima, però, aveva perso di fatto un’effettiva operatività.
In tale contesto, il conte Frossard, che possedeva un’abitazione a Laurana, invitò Palatucci a seguirlo in Svizzera. Sarebbe stato accolto in una sua proprietà <7. Il reggente non lasciò Fiume. Al suo posto mandò una giovane ebrea: Mika (Mikela) Eisler. Il padre di Mika, Ernesto, era stato arrestato dagli ustaše il 6 luglio del 1941 (poi ucciso nel campo di concentramento di Jadovno). Mika raggiunse il territorio elvetico insieme alla madre (Dragica Braun) nel dicembre del 1943.
È in questo periodo, secondo un prevalente orientamento storico, che Palatucci manomise taluni fascicoli di ebrei (altri fecero lo stesso a Roma, Ancona, La Spezia, Trieste…).
Il reggente non distrusse l’archivio, come qualcuno ha erroneamente scritto (sarebbe stata un’eclatante prova di ostilità al nazifascismo). I fascicoli restarono al loro posto (e sono stati ritrovati). Ma avvenne comunque un “rimescolamento” di carte.
L’ho facilmente riscontrato in più incartamenti.
L’operazione ideata per neutralizzarlo
Palatucci era un bersaglio facile. Non aveva commesso errori appariscenti all’interno della Questura, ma aveva interagito con persone sgradite alle autorità del tempo (una giovane ebrea e sua madre, soggetti controllati a Trieste e a Fiume…). Lo spionaggio riferiva ogni giorno sulle sue mosse <8.
[…] Con i dati ritrovati negli archivi italiani e all’estero, pare difficile sostenere la tesi che Giovanni Palatucci non fu un “Giusto”.
Lo stesso Memoriale dell’Olocausto Yad Vashem ha confermato, nel febbraio del 2015, il titolo di “Giusto” a Palatucci (comunicazione di David Cassuto, membro della presidenza).
Addirittura, dall’Archivio Centrale dello Stato sono state individuate le relazioni ufficiali che Palatucci inviò alle autorità tedesche e a quelle della R.S.I. (da aprile a luglio 1944). Il reggente difende i suoi uomini contro gli abusi e le violenze perpetrate non solo dai tedeschi, ma anche dagli ustaše. E punta il dito sulle delazioni e sulla debolezza di alcune autorità. […]
5 Fonte: G.G. Corbanese-A. Mansutti, Zona di operazioni del litorale adriatico. Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Pola, Lubiana. Settembre 1943-maggio 1945. I protagonisti, Aviani, Udine 2009.
6 Incarico ricevuto con lettera prot. 14569/Gab. del 28 febbraio 1944 della Questura di Fiume, conservata all’Archivio Centrale dello Stato).
7 Fonte: Preziosi, 2014.
8 Fonte: Deutsches Bundesarchiv (BArch). Sezione R: fascicoli “Germania nazista (1933-1945)”, sede di Berlino. Sezione MA: fascicoli “Reichswehr, Wehrmacht e Waffen-SS”, sede di Freiburg im Breisgau (Friburgo, Bresgovia).

Pier Luigi Guiducci, Aspetti di una Resistenza. Giovanni Palatucci (1909-1945), ANPI, febbraio 2015

[…] Professore [Pier Luigi Guiducci], quale fu l’atteggiamento di Palatucci, assegnato all’Ufficio stranieri della Regia Questura di Fiume, dopo le leggi per la “difesa della razza italiana” del 1938?
Palatucci, per la formazione ricevuta, e per un carattere spontaneamente aperto, era “lontano” dalla logica intransigente di quei provvedimenti. Vari testimoni hanno ricordato i suoi positivi rapporti con ebrei, la correttezza con la quale li riceveva, l’affettuosa amicizia con una giovane ebrea (che poi salvò insieme alla madre).
I superiori di Palatucci sapevano di questo sua negligenza rispetto a tali provvedimenti?
La valutazione reale dei dirigenti di Fiume su Palatucci non fu mai favorevole. Da una parte, essi rilasciarono delle formali note positive (così da non generare “allarme”), dall’altra iniziarono a far controllare i suoi movimenti. Come ho ricordato a una corrispondente del New York Times, Palatucci fu trasferito da Genova a Fiume con provvedimento disciplinare (aveva criticato i metodi della PS del tempo). Non gli furono mai affidati compiti operativi nel territorio (l’ufficio stranieri richiedeva un’attività amministrativa). Inoltre, Palatucci subì un’ispezione ministeriale che riscontrò irregolarità. Studiando il rapporto dell’ispettore (conservato in fascicolo), molto critico verso Palatucci, si comprende che quest’ultimo aveva deviato dagli ordini ricevuti.
Risulta che Palatucci abbia chiesto più volte il trasferimento da Fiume, ma invano. Tuttavia a un certo punto, malgrado ne avesse finalmente ottenuta la possibilità, scelse di restare. Come mai?
Palatucci chiese di essere trasferito perché aveva preso consapevolezza di una realtà che non condivideva (emerge anche dalle lettere, pur attente alla censura). I suoi superiori, specie il prefetto Testa, furono responsabili di atti inescusabili verso gli ebrei. Alla fine, però, restò al suo posto a Fiume. Un motivo è legato al fatto che la situazione interna volgeva al peggio. Per i poliziotti della Questura e per gli stessi civili si stavano avvicinando delle ore drammatiche. Palatucci non abbandonò il posto di lavoro, anche se altri si erano dileguati. Tale volontà emerge pure da sue relazioni di servizio (pubblicate).
Come si arrivò alla sua cattura e alla sua morte?
Palatucci aveva già subìto dei controlli. Nell’ultima perquisizione, che riguardò la sua abitazione e lo stesso ufficio, fu arrestato con l’accusa di intesa con il nemico. Tale imputazione servì a coprire il vero motivo: aveva deviato dalle direttive antisemite. I delatori (sono emersi alcuni nomi) avevano informato gli ufficiali nazisti. Il reato attribuitogli (possesso di un documento che faceva riferimento a una futura autonomia di Fiume) era passibile di condanna a morte. Palatucci fu prima interrogato (e non rivelò dati compromettenti terzi), e poi trasferito nel carcere di Trieste, tristemente noto per le sevizie praticate. A questo punto, si mosse a suo favore il conte Marcel Frossard de Saugy, di nazionalità svizzera. Era direttore tecnico di fabbriche di munizioni. La moglie era una von Bülow. Palatucci non fu fucilato ma deportato a Dachau, ove morì.
Possibile individuare un numero orientativo di ebrei salvati da Palatucci?
Sul piano dei riscontri ogni calcolo rischia di essere lacunoso. Anche per un motivo-chiave: le operazioni si svolsero in sordina. Dai testimoni del tempo sappiamo che Palatucci seguì più percorsi: nascondimento di ebrei in case “sicure” (ritrovati documenti); attiva partecipazione ai procedimenti amministrativi in grado di far allontanare ebrei da Fiume; attenuazioni di controlli di frontiera (appoggio al cosiddetto “canale” di Fiume); azione diretta a favore di ebrei per risolvere nodi burocratici; accompagno di ebrei fuori Fiume, in zone protette. È solo considerando le azioni dirette e indirette (Palatucci operò sempre con altre persone) che è possibile parlare indicativamente di centinaia di ebrei salvati. […]
Federico Cenci, L’eroismo di Palatucci, più forte delle polemiche. Un dossier dello storico Guiducci conferma che questo Servo di Dio salvò centinaia di ebrei durante i rastrellamenti nazisti. Fugati i dubbi suscitati nel 2013 da un’inchiesta del Primo Levi Center, zenit, 20 ottobre 2015

Nonostante la fervente attività a favore degli ebrei fuggitivi, non bisogna pensare a Palatucci come ad un superuomo, privo delle aspirazioni dei comuni mortali, ad esempio una vita serena con una compagna da amare.
Il 1 aprile 1941 il questore scrive ad un dirigente dello Stato lamentandosi che la sua richiesta di trasferimento, in precedenza accordatagli, è stata negata a causa di un intervento dei suoi superiori.
Palatucci vuole lasciare Fiume, e lo dice con chiarezza: «Mi preme nel modo più vivo far presente, che a parte ogni altra considerazione, la mia presenza a Fiume mi nuoce gravemente ai fini di una sistemazione; ora io ho quasi trentadue anni, essendo nato il 31 maggio 1909. Alla mia età il matrimonio è oltre che una necessità di carriera, un bisogno dell’anima che reclama un centro di affetti tutto proprio. E non è certo a Fiume che io potrò realizzare tale legittima aspirazione» <394.
Egli conosce anche le difficoltà economiche: nell’estate del 1940 chiede all’Amministrazione un prestito, accordato a partire dal 1 settembre tramite cessione del quinto dello stipendio.
A cosa serviva quel denaro?
Probabilmente buona parte di esso veniva utilizzato per assistere i fuggitivi, ebrei e non. Come ricorda Americo Cucciniello, suo collaboratore: «aiutava in tutti modi i cittadini bisognosi – in particolare i perseguitati politici – anche con contributi ed effetti personali» <395.
Considerato il numero enorme di persone assistite, la cifra chiesta in prestito era destinata a non bastare, infatti nel febbraio 1943 fu costretto a domandare ulteriore denaro ai propri genitori.
Palatucci richiede per l’ultima volta il trasferimento nell’aprile 1941 e non rinnova successivamente l’istanza. Una delle possibili ragioni di tale comportamento è la conoscenza con Mika Eisler, una profuga ebrea di Sebenica che ebbe occasione di incontrare intorno alla seconda metà di quell’anno.
Racconta Blanca Ferber (anche lei assistita da Palatucci): «La corteggiò in un modo molto elegante, si incontrarono quasi tutti i giorni all’inizio e poi sempre più spesso. Mi raccontò che era nato un rapporto molto bello fra loro, che si trovava molto bene, poi cominciò a conoscerlo profondamente» <396.
Il rapporto dovette diventare sempre più intenso perché quando Palatucci si recò per l’ultima volta al paese natale di Montella, parlò di Mika con un suo amico e lontano parente, Monsignor Ferdinando Palaucci, Arcivescovo di Amalfi e di Cava de Tirreni: «Aveva conosciuto una giovane ebrea. Aveva intrecciato con lei rapporti di simpatia. Capii che pensava di sposarla. Alla fine della guerra, avrebbe lasciato la P.S.; era già in contatto con un amico per costruire una società commerciale di importazione-esportazione in Romania» <397.
Che il giovane fosse fortemente legato a Mika Eisler è testimoniato dal fatto che l’influente zio Vescovo arrivò a scrivere direttamente ad Aimone d’Aosta, sovrano di Croazia, per conoscere la sorte di un certo Ernesto Eisler. La richiesta proveniva dalla figlia, Maria (forse il nome anagrafico di Mika) tramite «persona che conosce molto bene detta signorina» <398.
Palatucci doveva fidarsi ciecamente di Mika, al punto di arrivare a portarla con sé al confine per assistere ai salvataggi. Il finanziere Veneroso parla di «una bella ragazza bionda, noi sapevamo che era la sua fidanzata. Qualche volta ‘o dottore quando veniva da noi a vedere come andavano le cose, per controllare quanti ebrei erano passati, era con lei. E un paio di volte l’ho visto in sua compagnia anche a Buccari, allo stabilimento balneare».
[NOTE]
394 Da una lettera contenuta nel Fondo Documentale Giovanni Palatucci, pubblicata in Michele Bianco – Antonio De Simone Palatucci, Giovanni Palatucci, un olocausto nella Shoah, Roma, Accademia Viviarium Novum, 2003, p. 106.
395 Angelo Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo, Op. cit., p. 122.
396 Intervista a Speciale «Chi l’ha visto?», Il questore di Fiume, 22 aprile 2000, RAI 3.
397 Goffredo Raimo, A Dachau, per Amore, Op. cit., p. 194.
398 Piersandro Vanzan, Mariella Scatena, Giovanni Palatucci, il questore Giusto, Op. cit., pp. 86 e ss. Grazie all’interessamento di Aimone il Ministero degli Esteri attivò l’ambasciata italiana di Zagabria ma a gennaio 1942 il padre di Mika risulterà purtroppo ‘irreperibile’, ossia probabilmente ‘deceduto’. È un fatto che Mika riuscì infine ad espatriare in Svizzera esclusivamente in compagnia della madre, nell’ultima fase della guerra.
Davide Spada Pianezzola, Le ragioni dei Giusti. Azioni, tecniche e motivazioni dei “Giusti” italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, 1941-1945, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2013-2014