Due italiani avevano portato quella radio a Trieste alla fine del gennaio ‘44

Fonte: C. Cernigoi, art. infra

La vera storia da cui è tratto il libro “La trisnonna Clementina e la Risiera di San Sabba”.
Soldati tedeschi giravano per le strade di Trieste nel fosco inverno ‘44 manovrando un misterioso strumento, una specie di bussola munita di una lunga bacchetta.
Pareva saggiassero l’aria.
Invece cercavano di impigliarsi nell’onda di una radio che gracidava chissà dove, invisibile, ma in continuo sussulto fra la scontrosa bora. Una “Schwarzsender”, secondo quanto era dattilografato nella circolare diramata dal Controspionaggio tedesco; cioè onda nera, radio clandestina.
Doveva trovarsi, secondo i calcoli, “nel raggio di un chilometro dalla fabbrica Dreher”. L’angolo era stato goniometrato con teutonica esattezza. La radio, infatti, ciarlava da un’antenna murale tesa nel cortile di una casa di via Ireneo della Croce, a qualche centinaio di metri da quella fabbrica Dreher: e lo stridente ticchettio discorreva petulante con il Comando Alleato di Brindisi.
Dava notizie varie, così come pervenivano al radiotelegrafista: in particolare segnalava i movimenti della squadriglia di motozattere tra il porto di Trieste e l’Adriatico.
E quel sillabare con gli impulsi elettrici generati da un accumulatore (nascosto in un lavandino) era quanto mai funesto per il Comando Marina del Supremo Commissariato tedesco installato a Trieste: chiamava stormi di uccellacci sull’Alto Adriatico, sospendendo in permanenza un soffitto di bombe sulle unità che facevano spola fra la Dalmazia, l’Istria e la base.
Ma non furono i captatori muniti della ingegnosa bacchetta tedesca a individuare il nido della ronzante cassettina che parlava con Brindisi.
Fu uno strumento più delicato e subdolo, anche se nato molto prima che la fucilata di Pontecchio annunciasse al mondo la nascita della radio; fu un uomo, uno sporco uomo, una spia.
Confiderà più tardi alle autorità alleate un sotto ufficiale della Wehrmacht già addetto al Controspionaggio, che la scoperta fu dovuta a una “segnalazione fiduciaria”.
Altri tenteranno di precisare che si trattava di certo “Angelo” non meglio identificato.
Chissà quanto prese costui per quel servizio; certo che egli ha aperto un grosso conto davanti a Dio: quattro persone mandate a morte, due altre internate ad Auschwitz, per dire solo delle conseguenze più gravi seguite a quella “segnalazione fiduciaria”.
Due italiani avevano portato quella radio a Trieste alla fine del gennaio ‘44, il capitano dei Bersaglieri Valentino Molina, di 42 anni, veneziano, e il radiotelegrafista della Marina Enzo Barzellato, di 26 anni, da Pola, elettricista di professione.
Si erano tutti e due offerti volontari al comando alleato di Brindisi per missioni segrete oltre le linee; e avevano accettato con entusiasmo di essere portati a operare nella Venezia Giulia, che allora soffriva in pieno il tallone tedesco, tanto da essere divenuta un “Gau” del Reich.
Le persone parevano scelte bene: il capitano Molina era stato per lungo tempo, sino all’8 settembre, al servizio del cosiddetto Ufficio Statistica presso il Comando di Armata di Trieste che era in realtà una dipendenza del S.I.M., sì che, presumibilmente, egli poteva riprendere contatto con i suoi vecchi collaboratori; il Barzellato, a sua volta, conosceva i luoghi in quanto istriano di nascita. (Un’inchiesta militare condotta di recente ha stabilito che fu un errore mandare a Trieste il Molina: se conosceva molte persone, era a sua volta largamente conosciuto, con tutto il margine di imponderabile rischi).
Li portò sulla costa istriana, alla destra di Umago, un sommergibile italiano al comando del capitano Cavallina, che aveva a bordo pure un’altra coppia di informatori da abbandonare in diverso sito.
Sbarcarono dal sommergibile nella notte tra il 26 e il 27 gennaio, il Molina e il Barzellato, per salire sopra un canotto di gomma; e con propri mezzi si diressero verso una delle tante insenature che aprono parentesi di un verde trasparente fra la costa sabbiosa.
Era ancora notte allorché misero piede a terra; e secondo le istruzioni affondarono il canotto (Sì dirà più tardi che il canotto riemerse e andò vagando sino ad essere ripescato dai tedeschi: da ciò il primo allarme dell’invasore. Circostanza dubbia e non confermata).
Il capitano Molina sapeva dove andare. Era diretto al convento di Daila, in un’ansa colma di pace tra Umago e Cittanova, un candido dado vegliato da solenni cipressi.
Frati benedettini, nel convento, coltivatori di ubertose vigne, alle dipendenze di un Priore romano, di ardente intelligenza. E’ a lui che si rivolse il Molina, mentre il Barzellato attendeva fuori dal convento.
Aveva a presentazione una commendatizia dal Principe Umberto.
Ospitalità sì, a tutti i pellegrini; ma non con quella pericolosa cassettina, la radio.
Il priore parlò schietto e fu irremovibile. I due uomini venuti dal mare dovettero andarsene, separatamente, per destare meno sospetti.
I tedeschi avevano occhi e orecchie dappertutto. Smontarono in un campo la radio, se ne divisero i pezzi, nascondendoli parte addosso parte in un sacchetto di farina. E “arrivederci a Trieste”.
Uno da una strada, uno da un’altra, giocando d’astuzia e – bisogna convenirne – mettendo continuamente all’asta la propria pelle. Molina e Barzellato raggiunsero la città con 2 giorni di distanza l’uno dall’altro.
Il Molina poteva contare su un rifugio accogliente e discreto: la famiglia di certi suoi vecchi conoscenti, i signori Hahn di Campogallo, di nobile origine ungherese, dimorante in via Machiavelli 3.
Il Barzellato andò in casa di un suo zio, Pietro Gentile, la cui figlia, Liliana doveva poi diventare sua moglie. Ma già all’indomani l’ufficiale sistemava a dovere il suo radiotelegrafista nell’abitazione di una vecchia signora, Clementina Tosi, vedova Pagani, in via Ireneo della Croce, 5.
Qui, finalmente, il Barzellato poteva montare la sua preziosa e pericolosa macchina, installandola in un tavolino circolare apribile, a pareti cave.
Cifrari e i documenti sulle lunghezze d’onda, vennero nascosti in casa Hahn, nel pedale di un tavolinetto per radio.
L’antenna murale venne tesa nel cortile della casa di via Ireneo della Croce. Fu questa la maggiore delle imprudenze?
Il Barzellato, allorché sarà chiamato a scolparsi, a guerra finita, dirà ai giudici che “un uomo sconosciuto osservava spesso l’antenna”.
Fatto, insomma; e, la prima parte della rischiosa avventura riuscita in pieno.
E ora al lavoro, a pescare notizie. Non era difficile averle: bastava drizzare convenientemente le orecchie per via, sui tram, al cine, dovunque.
I Triestini non ne potevano più, soprattutto dei tedeschi che se la facevano da padroni con quel loro Gauleiter Rainer.
Molina, del resto, rintracciava uno per uno i suoi vecchi informatori, intesseva nuovi più sensibili legami.
A sua collaboratrice diretta egli ebbe sin dall’inizio un’intrepida donna, la figlia di quei suoi conoscenti, la dottoressa Hahn di Campogallo, di sottile intelligenza e di nutrita cultura.
Il grave rischio quotidiano legò i due di una calda amicizia, nella quale la Hahn portava anche il dolore e l’orgoglio per la perdita di un fratello, ufficiale della Marina italiana scomparso in azione di guerra nel mediterraneo.
Fu lei a far scudo al Molina, riparandolo fin dove possibile contro pericolose indiscrezioni ed esponendosi senza risparmio in quella guerra che era ormai una lotta mortale.
I due furono assecondati da altri coraggiosi, tra i quali anzitutto il tenente colonnello Sante de Fortis e il sergente Gino Pelagalli.
La rete degli informatori fu tesa alla perfezione, forse giocando troppo d’audacia e fidando eccessivamente nella buona stella. Il Molina e la Hahn erano sempre in giro senza guardare troppo per il sottile; e, passato il primo mese, si credevano invulnerabili.
In casa Hahn fioccavano le telefonate degli informatori – seppure trasmesse con un vago e trasparente linguaggio convenzionale – Il Pelagalli andava e veniva da una località all’altra, tra trieste, Udine e Venezia, sondava tutti i settori, guardava, fotografava, riferiva.
Pareva cosa da niente, un gioco un poco emozionante sotto il naso del nemico, dei tanti nemici.
Il Barzellato riceveva regolarmente i messaggi dal Molina e li trasmetteva, quasi sempre di mattina o nel primo pomeriggio; e il Comando Alleato di Brindisi li captava, traduceva, agiva.
Durò esattamente tre mesi. Il 29 aprile, intorno a mezzogiorno, il capitano Molina e la dottoressa Hahn, mentre si recavano alla Mensa di guerra nella Stazione Marittima, dove usavano prendere i pasti (lui diceva sempre: “E’ peggio nascondersi: anzi dobbiamo stare in mezzo alla gente, che ci vedano tutti, anche i tedeschi”) a pochi passi dall’ingresso venivano circondati da 10 gendarmi tedeschi.
In una frazione di secondo, la Hahn vide un tale che faceva un segno con il capo, come a dire: sono quei due. Era il famoso “Angelo”? Mani in alto, mitra puntati, manette.Uno portato da una parte, uno dall’altra.
E alla stessa ora, altri gendarmi piombavano in casa dei genitori della Hahn: arrestavano padre e madre, rovistavano tutti, trovavano a colpo sicuro quello che cercavano: i cifrari nascosti nel pedale del tavolino.
Un’altra squadra infine, irrompeva nella casa della vedova Pagani, trovavano subito la radio, arrestavano poco dopo il marconista Barzellato.
Scoperti insomma; e con tutte le prove schiaccianti, inconfutabili dell’attività clandestina.
Chi aveva cantato? Ecco il grande dubbio. Fu il Barzellato? C’era una grossa taglia (centomila lire) sul capo del servizio spionaggio a favore degli Alleati; e centomila lire possono incantare le coscienze deboli.
Ci sono due gravi elementi di fatto a carico del Barzellato (emersi nel processo celebrato nei giorni scorsi davanti alla corte straordinaria di Assise di Trieste): l’avere egli guidato la gendarmeria tedesca a rintracciare in un paese dell’Udinese il sergente Gino Pelagalli, e l’essere passato egli, apparentemente in qualità di autista, al servizio dell’autorità germanica, e proprio del capitano Pettersson che comandava il Controspionaggio.
Dirà il Barzellato che il Pettersson si era affezionato a lui in quanto somigliava a un suo giovane figlio caduto sul fronte orientale, e che un giorno si sentì fare questo discorso:
“Se vieni con noi starai bene; altrimenti agiremo col sistema russo: colpo alla nuca.”
Non tutti gli uomini sanno essere eroi fino in fondo: e il Barzellato lo fu in ogni caso solo a metà. E seguendo questo criterio i giudici triestini hanno mandato Barzellato in carcere per 6 anni e 8 mesi.
La notte sul 21 settembre ‘44, nelle carceri triestine del Coroneo, si stava allestendo uno dei soliti convogli della morte.
Un gruppo di detenuti si apprestava a lasciare il carcere per raggiungere la stazione, dove attendeva un treno che li avrebbe portati al campo di annientamento di Auschwitz.Di questo gruppo faceva parte anche la dottoressa Hahn.
Intorno alla mezzanotte (la partenza era fissata per le 4) ella chiese di poter dare un saluto di congedo al capitano Molina, rinchiuso in un altro settore. Una suora rese possibile l’incontro.
Si videro, si abbracciarono, per pochi istanti. Il Molina appariva stranamente in animo: diceva che non sarebbero andati a morte ma in un campo di concentramento; il generale Globocnik, capo delle S.S., gli aveva dato la sua parola di soldato!
Mentre il gruppo dei detenuti, destinati ad Auschwitz, qualche ora dopo, raggiungevano la stazione, su un’altra macchina isolata prendevano posto quattro persone: il tenente colonnello Sante de Forti, il capitano Valentino Molina, il sergente Gino Pelagalli, la signora Clementina Pagani (colei che aveva ospitato in casa la radio).
Nessuno ha più saputo nulla dei quattro: fucilati o bruciati nella Risiera di San Sabba, presumibilmente.
Da Auschwitz, nel giugno 1945, torna la dottoressa Hahn: con il numero 88.746 tatuato sul braccio sinistro e una la lesione alla radice del naso. Il segno di una frustata di Irma Greese.
E la radio di Molina continuò a trasmettere, per parecchi mesi, manovrata dai tedeschi.
I messaggi diretti con il cifrario di Barzellato venivano scritti a Berlino, alla Centrale del Controspionaggio germanico e inoltrati a Trieste per tramite della sezione di Salisburgo.
Gli alleati, a Brindisi,se ne accorsero solo dopo qualche tempo.
I tedeschi smisero di trasmettere (secondo un sottufficiale tedesco già appartenente al servizio) solo quando furono persuasi di non avere più notizie credibili.
Disse un giorno, a Brindisi, un nostro ufficiale, esaminando i messaggi: continuano a trasmettere da Trieste, ma lassù debbono essere morti tutti. Era vero.
FONTE:
di Ugosar
Cronache di Trieste
25 gennaio 1947
Redazione, Una radio trasmetteva sotto gli occhi dei tedeschi, Bora.La, 25 novembre 2019

Nella Risiera di San Sabba a Trieste c’è una targa che ricorda i quattro caduti della missione alleata del capitano Valentino Molina: il capitano stesso, il tenente colonnello Francesco Sante De Forti, Guido Gino Pelagalli e la signora Clementina Tosi vedova Pagani, uccisi dai nazisti il 21/9/44. I dati storici finora noti si basano su quanto emerse nel corso del processo che vide un collaboratore di Molina, il radiotelegrafista Enzo Barzellato, accusato di avere tradito il suo capo: egli avrebbe iniziato a collaborare coi tedeschi non appena giunto a Trieste, ma dal processo appare anche che le leggerezze di Molina in materia di sicurezza sarebbero state molte <1.
Presso l’archivio storico dello Stato maggiore dell’esercito (AUSSME) si trovano alcuni documenti dai quali si può però ricostruire in modo più dettagliato la tragica vicenda.
Secondo gli storici, Molina era sbarcato in Istria nel gennaio 1944 assieme al radiotelegrafista Barzellato; la sua missione (nome in codice Fair II) è una delle 37 organizzate dalla Rete Nemo (una struttura organizzata dal Servizio informazioni militari, SIM, del Regno del Sud in collaborazione con i servizi britannici) per creare contatti tra la resistenza dell’Italia occupata ed il governo legittimo <2.
Il 2/5/45 si presentò agli uffici del FSS <3 di Trieste il maresciallo Nicola Mallardi, che dichiarò di avere fatto parte di una struttura di spionaggio nazista, il Gruppo Baldo; Mallardi ritornò il 16 successivo dicendo che gli Jugoslavi avevano arrestato alcuni membri di questa struttura, ed egli evidentemente voleva mettersi al sicuro presentandosi ai britannici <4.
Del Gruppo Baldo si legge <5 che era stato organizzato dal Kommando 150 (nome in codice Erika) dell’Abwehr <6; che il primo comandante fu il capitano Paimann (nome in codice Pitter) sostituito successivamente dal sottotenente Buddenbrock (Busoni), anche se, a leggere un rapporto dei servizi britannici (datato 10/5/45 e tradotto per il SIM <7), i due erano gli ufficiali di collegamento tra Baldo ed il comando tedesco: il sottotenente Willy Buddenbrook sostituì Paimann che si era recato a Rovereto in febbraio. La sede di Erika si trovava in via Nizza 6, ma altre sedi dei servizi informativi germanici si trovavano in via Nizza 21 e via Nizza 14. Tali sedi furono “visitate” dal FSS prima che arrivassero gli Jugoslavi, ed in tal modo furono recuperati “importanti documenti”; Busoni ed altri lasciarono Trieste il 28/4/45.
Dallo stesso rapporto ricaviamo le sedi del comando del Gruppo Baldo: dapprima in via degli Squadristi 2, poi in via San Nicolò 10 ed in via Cassa di Risparmio 6, per finire in viale XX Settembre 16; il nome di copertura era “Ufficio Studio Razziale” e l’ufficio era intestato al cognome Vaccari (va qui annotato che nella Guida generale del 1942 in via San Nicolò 10 risultava una “Bianca Vaccari, camiceria”).
Gurrey spiega che lo scopo di questa struttura era di installare una rete di cellule in Istria e di infiltrare elementi nelle formazioni partigiane del retroterra triestino; ma anche il reclutamento di agenti stay behind, cioè di resistenza oltre le linee. Gli agenti di Erika convinsero un ufficiale del Regio esercito a mettere a disposizione una rete di agenti (da lui già gestiti nella regione prima della resa dell’Italia), che furono appunto strutturati nel Gruppo Baldo. Essi furono inviati a Firenze tra aprile e maggio 1944, al comando FAK 8, per l’addestramento e nel settembre successivo, 44 di questi agenti furono piazzati non solo in Istria e nella Slovenia del nord, ma anche ad Ancona, Venezia, Treviso e Ravenna. Gurrey segnala i nominativi di alcuni di questi agenti: Miceli Ireneo ad Ancona, Italico a Venezia, Furlani Ignazio a Treviso e Mangia Marte a Ravenna.
Tornando al rapporto britannico leggiamo che il Gruppo Baldo era “un’organizzazione designata a rimare sul posto (in tedesco Hernetz)”, cioè finalizzata allo stay behind; lo scopo era la “lotta contro i partigiani”, la zona d’operatività la “provincia di Lubiana e regioni orientali (italiane) confinanti con la Jugoslavia”; e troviamo anche i nomi completi degli agenti ed altri dati su di loro.
Ricordiamo che questo rapporto è datato 10 maggio, quindi le informazioni erano in possesso dei servizi britannici già da prima della deposizione di Mallardi, che fu resa il 16. Dai due documenti abbiamo tratto i dati che ora riportiamo sul Gruppo Baldo.
La centrale di Trieste era diretta dal capitano Bruno Carmeli (dottor Stefano), alle dipendenze del comando Erika ed aveva sede nella sua abitazione privata in via Nizza 6; il vice capo era il dottor Cesare, cioè Carlo Colognetti (questo cognome non esiste a Trieste, quindi supponiamo trattarsi di Carlo Colognatti, giornalista e successivamente parlamentare del MSI), descritto nel rapporto come “non filo-fascista ma filo-tedesco”; capo-maglia della rete era Francesco Ciollaro (ingegner Fiocco), radiotelegrafista, al momento riparato presso Verona; Remo Lombroni (Ludovico Renoldi), informatore di Mallardi; ed ancora Renato Cortese (Fazio), Giulio Ciollaro (Secondo), Andrea Francescutti (Franco Andretti).
Mallardi era stato capo della sezione di Udine, poi sostituito da Alfredo Germani (Gennaro Alfonso, che, interrogato dal FSS avrebbe ammesso di avere fatto parte del gruppo destinato a rimanere a Trieste dopo l’arrivo degli Alleati, ma di non avere svolto alcuna attività; di lui parleremo più avanti), sezione che comprendeva anche Federico Ceschia (Celso Feresin), arrestato (ma viene detto da chi, né in che data). A Fiume il capo era Silvio Saccucci (Fiore), che precedentemente abitava a Trieste in via Revoltella e qui si può collegare quanto riferito da Mallardi nel suo interrogatorio a proposito di un agente noto come Trani, ma del quale non conosceva il nome, abitante in via Revoltella, zoppo, che aveva fatto catturare un inviato inglese in una località fuori Trieste. Saccucci a Fiume era coadiuvato da Salvatore Latriglia (Lauro); a Lubiana c’erano l’ex segretario comunale di Umago Facchini, il soldato Fragiacomo ed un Ferencich (Francone); infine a Pisino un Ghersetti amico di Ferencich.
Ed ancora: a Treviso Redento Furlani (Ignazio); ad Ancona il “sedicente dottore in medicina Miceli” Ireneo, napoletano; Italo Famea Italico, al Lido di Venezia; Rodolfo Mangia Martedì, a Rimini.
Vengono segnalati anche degli informatori locali: Ermanno Callegaris (Terenzio), i fratelli Mamolo (uno era un avvocato) e Pierino Madaro <9 a Trieste; Luciano Clementi a Fiume.
I marescialli Mallardi e Saccucci della Sezione statistica dell’esercito ed il carabiniere Andrea Franceschini, ad essa collegato, erano stati interrogati dopo l’armistizio dal capitano Peterson del controspionaggio germanico e minacciati di internamento. Secondo il rapporto, “accettarono di collaborare” con il servizio, con l’intenzione “di penetrarne l’organizzazione a vantaggio degli Alleati”. Il vantaggio che ebbero gli Alleati da questa collaborazione lo valuteremo tra un po’.
Torniamo alla storia della missione Molina. Il capitano Molina, che aveva prestato servizio presso la Sezione statistica e pertanto conosceva bene Mallardi e Saccucci, secondo Mallardi sarebbe giunto a Trieste nel novembre 1943 (altrove si parla di uno sbarco effettuato in Istria nel gennaio 1944, e qui abbiamo una discrepanza non chiarita), prendendo casa con il proprio nome e riprendendo i contatti con gli ex subordinati, di cui si fidava. Mallardi dichiarò di avere avvertito Molina di diffidare di Renato Cortese e di Francesco Ciollaro, e di essersi fatto trasferire come dattilografo a Trieste lasciando il comando del centro di Udine, su indicazione del suo ex superiore.
Nel marzo 1944 Ciollaro avrebbe detto a Mallardi di nutrire dei sospetti su Molina, per il fatto che questi dichiarava di vivere con uno stipendio di “sole” 2.000 lire mensili, fatto che non lo convinceva. Successivamente il fratello di Ciollaro, che era stato internato in Germania, fu rimpatriato per intercessione del capitano Paimann ed inserito nel Gruppo Baldo.
Molina aveva insediato nella zona di Palmanova un proprio agente, Gino Pelagalli; in seguito Mallardi lo avrebbe informato di una conferenza tenutasi a Treviso all’inizio di aprile 1944, con la partecipazione del maresciallo Graziani, e di una segnalazione giunta al Gruppo Baldo relativa all’attività di Pelagalli, invitandoli a stare attenti.
Mallardi ebbe spesso abboccamenti con Molina, presi mediante “telefonate convenzionali” per incontri in locali pubblici; a luglio, non avendo più notizie del capitano cercò di informarsi, ma fu Francesco Ciollaro a riferirgli che Molina era stato arrestato dai tedeschi, che gli avevano trovato molta documentazione compromettente in casa (tra cui una trasmissione relativamente ad un bombardamento alleato su Treviso), e dati i particolari a conoscenza di Ciollaro, Mallardi affermò di ritenere che il suo interlocutore non fosse estraneo all’arresto del capitano Molina.
Altre informazioni giunsero a Mallardi dal “carabiniere Burzachechi del centro CS di Trieste” (qui annotiamo che Giovanni Burzachechi risulta essere entrato nei ranghi delle SS ancora prima dello scioglimento dell’Arma dei Carabinieri, avvenuto su ordine del Reich il 25/7/44), che gli riferì anche dell’arresto di Pelagalli. Sarebbe stato sempre Burzachechi a comunicargli della fucilazione di Molina e Pelagalli, ma ne era già stato informato da Franceschini, che l’aveva appreso dal capo gruppo Carmeli. Successivamente anche Ciollaro avrebbe riferito il fatto a Mallardi “e mi apparve contento”, perché attribuiva a Molina i morti del bombardamento alleato su Treviso.
Infine Mallardi affermò che Saccucci gli avrebbe detto che l’arresto di Molina era dovuto al tradimento del suo radiotelegrafista “Bartolozzi (grafia incerta)”: evidentemente Barzellato.
Abbiamo visto prima che Mallardi si era presentato al FSS perché alcuni agenti del Gruppo Baldo erano stati arrestati dalle autorità jugoslave, ed in effetti da controlli incrociati da noi in precedenza fatti <10 risulta che il 15 maggio (cioè il giorno prima della deposizione di Mallardi) erano stati arrestati Alfredo Germani e Remo Lombroni; Ermanno Callegaris era stato arrestato il 14, mentre Burzachechi fu arrestato già il 2 maggio.
Germani, Lombroni, Callegaris e Burzachechi compaiono nell’elenco degli arrestati dall’Ozna e poi incarcerati a Lubiana: morto in prigionia Callegaris (del quale in un processo celebrato a Trieste nel dopoguerra viene ricordata l’attività di collaboratore con le SS); “fatti uscire” dal carcere (e non si sa se condannati a morte o trasferiti altrove) il 23/12/45 Germani, il 6/1/46 Lombroni e Burzachechi, dei quali non si seppe altro. Rientrano dunque questi quattro nel novero di coloro che vengono comunemente considerati “infoibati” dagli Jugoslavi, e che le Autorità italiane nel Giorno del Ricordo del 10 febbraio indiscriminatamente commemorano ed a cui rendono onori civili e militari, solo due settimane dopo avere reso onore, nella Risiera di San Sabba, alla missione alleata del capitano Molina, fucilato dai nazifascisti per essere stato tradito da militari italiani che non avevano mantenuto il giuramento fatto alla propria Patria, ma avevano accettato di collaborare con gli occupatori, mandando a morire i propri ex commilitoni e compatrioti.
1 Roberto Spazzali, “l’Italia chiamò”, LEG 2003, p. 193-195.
2 L’elenco delle missioni e degli agenti si trova in AUSSME b. 50 n. n. 46409 (ufficiali), 46407 (sottufficiali), 46408 (truppa).
3 Field Security Section, sezione dell’Intelligence Service britannico assegnato alle unità campali con compiti di sicurezza e controspionaggio..
4 AUSSME b. 149, n. 124583
5 Donald Gurrey, “La guerra segreta nell’Italia liberata”, LEG 2004, p. 127, 137, 174, 230.
6 L’Abwehr era il reparto informazioni e controspionaggio della Wehrmacht.
7 AUSSME b. 149, n. 124587-124591.
8 Frontaufklärungskommando, “commando” esplorante di prima linea.
9 Un Pietro Madaro risulta essere stato nei ranghi dell’Ispettorato Speciale di PS per la Venezia Giulia.
10 Si vedano C. Cernigoi, “Operazione foibe a Trieste”, Kappavu 1997, e “Operazione foibe tra storia e mito”, Kappavu 2005.
Claudia Cernigoi, I delatori della Missione alleata Molina risultano tra i Martiri delle Foibe, Jugocoord, 3 febbraio 2013