E la figura di Menici ne è uscita finalmente nella propria integrità di uomo e di partigiano

Edolo (BS)

[…] Colto dall’armistizio a Zara, [Raffaele Menici] evita la cattura da parte tedesca e il 10 settembre scrive per la figlia un biglietto recapitato da un alpino di Temù: «Nonostante tutto ciò che avviene io sto bene e sono tranquillo. Se non vi perverrà più regolarmente la posta, state tranquille e non pensate male di me. Verrà il giorno del ritorno. Siate serene e quiete a Temù. Io ho molto da fare. Ciò che è scritto, è scritto. Salutami tutti. Avere una fede incrollabile: puliremo l’Italia dallo straniero d’oltralpe».
A fine mese riesce a raggiungere Venezia con alcuni commilitoni, in abiti borghesi, e a metà ottobre rimette piede nel paese natale. Nel giro di qualche giorno diviene il riferimento per alcuni giovani alpini dell’Alta Valcamonica, che – disorientati – gli chiedono cosa fare. Li consiglia di non presentarsi ai centri di reclutamento della neocostituita Repubblica di Salò e di attestarsi in luoghi sicuri, a essi ben noti, sopra il villaggio di Pezzo.
Preso contatto con i promotori della Resistenza camuna, Menici partecipa alle riunioni clandestine tenutesi a Bienno e nella casa canonica di Cividate Camuno. Il diario dell’arciprete don Carlo Comensoli ne registra la presenza alla riunione costitutiva del partigianato valligiano, l’11 novembre 1943, insieme al comunista bresciano professor Costantino Coccoli, al notaio darfense Angelo Cemmi (di orientamento democristiano), al tenente bergamasco Ermanno Grassi e al sottotenente Romolo Ragnoli.
Il suo impegno partigiano attinge a valori risorgimentali e all’esperienza di combattente nella grande guerra contro «i tedeschi».
Uscito di scena Coccoli (portatosi in Svizzera per sfuggire all’arresto), spostatosi Grassi in Val di Scalve, a fine 1943 don Comensoli, che si è nel frattempo coordinato alla rete cittadina dell’antifascismo cattolico, punta su Ragnoli per costituire le Fiamme Verdi, in un progetto dal quale Menici si defila, forse per le sue vedute “laiche”, oppure per reciproca incompatibilità con Ragnoli, che lo sostituisce nel ruolo di comandante militare.
Dopo che Nino Parisi ha aggregato in Valsaviore un nucleo di “ribelli” poi trasformatosi in 54a Brigata Garibaldi, si stabiliscono contatti con Menici, il cui gruppo dell’Alta Valle entra per l’appunto nell’orbita garibaldina. Il colonnello riprende i legami con gli antifascisti bergamaschi e in particolare con Giulio Alonzi e il prof. Rodolfo Zelasco, del Partito d’Azione, promotori delle formazioni di “Giustizia e Libertà” e a contatto con Ferruccio Parri (“Maurizio”), conosciuto personalmente da Menici. Conseguentemente, si provvede all’armamento del gruppo dei giovani di Pezzo, sistematisi alla Malga Lago Nero, sotto il Passo del Gavia.
Tra le operazioni di approvvigionamento si segnala il prelievo di viveri, coperte e armi dal deposito predisposto dai funzionari fascisti a Villa Luzzago (Pontedilegno). Viene inoltre sequestrata l’Alfa Romeo del gerarca Aberto Giombini: servirà a un partigiano russo per spostarsi tra l’alta valle e la Valsaviore, con funzioni di collegamento con i garibaldini attestati sopra Cevo (finché verrà ucciso dai fascisti a Malonno). Il 17 agosto elementi della 54a Brigata, rincalzati da uomini di Menici, organizzano una spedizione a Pontedilegno, scontrandosi col contingente repubblichino (nei combattimenti perde la vita il ribelle Arcangelo Romelli). Cinque giorni più tardi elementi della Guardia nazionale repubblicana feriscono gravemente un giovane del gruppo Menici, il diciottenne Aldo Franceschetti, poi deceduto all’ospedale di Breno.
A inizio agosto 1944 gli ingegneri Cattaneo e Ciriello, della Edison, concordano la difesa degli impianti idroelettrici camuni con le Fiamme Verdi di Cividate per la bassa valle, con il colonnello e i suoi uomini per gli invasi dell’Avio e la centrale di Temù. Ci si muove oramai nella prospettiva della ritirata tedesca, ma si tratta – purtroppo – di previsioni erronee: il fronte si stabilizza e un proclama del generale Alexander invita i partigiani a sospendere le operazioni, e a prepararsi per quando – presumibilmente, la primavera 1945 – riprenderà l’offensiva anglo-americana.
A metà settembre il caposquadra del Distaccamento C12, Giuseppe Bonincontro propone al colonnello di inserire il suo gruppo sotto l’egida delle Fiamme Verdi, ma le trattative non vanno a buon fine, anche perché i giovani di Pezzo sono risoluti nel rifiutare una simile soluzione. Si delinea insomma un dualismo nel movimento partigiano dell’Alta Valle, nella zona tra Edolo e il Passo del Tonale.
– I contraccolpi della Zona franca
La sfortunata imboscata delle Fiamme Verdi cortenesi contro una vettura con ufficiali germanici da prelevare quali ostaggi per uno scambio di prigionieri, attuata a Santicolo il 14 agosto 1944 e costata la vita ad Antonio Schivardi, innesca dinamiche particolari: il Comando tedesco sequestra decine di civili e impone col ricatto il rilascio dell’ufficiale catturato. Contestualmente, si propone al Comando cortenese delle Fiamme Verdi una tregua d’armi, dalla quale resteranno esclusi i fascisti. In sostanza, i partigiani potranno continuare la loro attività, a condizione di non attaccare gli occupanti, che dal canto loro rispetteranno gli uomini della formazione operante nella “zona franca”. Il patto, proposto dall’ufficiale delle SS Ilmar Kaasik, è accettato dal successore di Schivardi alla guida del gruppo cortenese, Clemente (“Tino”) Tognoli. Ne deriva, per i fascisti, la perdita della protezione tedesca e la smobilitazione dalla zona compresa tra Edolo, l’Aprica e il Passo del Tonale. Quando, attraverso il Tonale, scende verso Edolo la Legione “Tagliamento” del colonnello Merico Zuccari, i tedeschi costringono la formazione fascista a sgomberare la zona (la “Tagliamento” si sposta nella zona del Lago d’Iseo).
Kaasik, giunto in Alta Valcamonica in qualità di «specialista della Polizia di sicurezza per azioni partigiane» è il responsabile del Centro di raccolta informazioni per la lotta contro le bande (Meldekopf für Bandenbekampfung Edolo). Può impostare l’azione antiribellistica su due strategie alternative: 1) pacificazione della zona, mediante tregua con i partigiani; 2) uso del terrore contro civili e ribelli. Dopo l’uccisione di Schivardi, imbocca con successo la prima strada. Suo interlocutore diretto è il cortenese Pietro Chiodi (“Peter”), collaboratore e cognato di Tino Tognoli. In più occasioni Kaasik aiuta le Fiamme Verdi con informazioni preziose e con la liberazione di loro esponenti dalle carceri di Edolo; fa persino arrivare, per loro, un treno merci carico di derrate alimentari e di vestiario.
I fascisti, cui giunge l’eco dell’accordo, ne informano Mussolini che protesta con l’ambasciatore germanico Rahn senza però ottenere alcuna soddisfazione.
La fragile tregua è il riconoscimento dello stallo verificatosi tra due formazioni nemiche, nessuna delle quali è in grado di prevalere. Potrebbe saltare da un momento all’altro, alla prima infrazione di uno dei contraenti. E si rovescerebbe, in questo caso, in un sistema di terrore istituzionalizzato.
Normalizzata la situazione sul fronte delle Fiamme Verdi, l’impegno di Kaasik e dei suoi uomini si concentra contro il gruppo Menici, per completare la pacificazione dell’Alta Valle. La situazione precipita e si risolve in un’impressionante sequenza di episodi, nel volgere di quattro giorni, a partire dalla spedizione armata per far piazza pulita del gruppo filo-garibaldino.
– Venerdì 13 ottobre 1944, alle prime luci dell’alba, parte da Edolo un rastrellamento tedesco verso Temù: viene circondata la casa del colonnello; constatata la sua assenza, sono arrestati la moglie Giuseppina e la sorella Anna, la figlia Luciana, i nipoti Idilia e Zeffirino Ballardini (a quest’ultimo, viene sequestrato materiale sulla formazione ribellistica).
– Sabato 14, a metà mattina, sei uomini della squadra Fiamme Verdi dei fratelli Elio e Duilio Ferrari (con base a Vezza d’Oglio), assaltano una vettura con a bordo ufficiali tedeschi in transito da Pontedilegno verso il Tonale. Siccome sanno di violare la tregua e di contravvenire alla disciplina delle Fiamme Verdi, sono privi di contrassegni. Impadronitisi dell’automobile, si dirigono verso Pezzo; a metà viaggio uno dei prigionieri riesce a fuggire, mentre l’altro perde abbondantemente sangue. Giunti in località Sant’Apollonia, all’albergo Pietra Rossa (gestito da Martino Faustinelli, con servizio telefonico pubblico), i Ferrari contattano i partigiani del colonnello e lasciano loro l’auto e il ferito, come contributo alla trattativa da intavolare per il rilascio dei parenti di Menici. Gli uomini del colonnello gli telefonano per esporre il quadro della situazione: viene loro ordinato di affidare l’ufficiale al medico del paese e di abbandonare subito l’abitato, per evitare la prevedibile rappresaglia. Così viene fatto.
Nel pomeriggio il gruppo Ferrari si abbocca col commissario politico Nolfo di Carpegna che, intuita la gravità del loro comportamento, li rimbrotta e prende immediato contatto col Comando tedesco per attribuire l’agguato alla formazione di Menici. In tal modo, viene salvaguardata la tregua d’armi. Di conseguenza, la repressione si orienta sulla formazione non aderente alla zona franca.
– Domenica 15 Raffaele Menici si presenta inaspettatamente al Comando germanico di Edolo, per conoscere i motivi dell’arresto dei congiunti e offrirsi in cambio della loro liberazione. Siccome gli si contesta l’agguato agli ufficiali tedeschi del giorno precedente, egli ribadisce l’estraneità dei suoi uomini. Non viene creduto e si trattengono i suoi familiari, con l’intesa di concordare telefonicamente un secondo abboccamento, nel quale Menici proverà la veridicità delle sue affermazioni.
In serata, Kaasik si reca all’accampamento delle Fiamme Verdi cortenesi: le aggiorna sull’imprevisto incontro edolese e spiega che l’indomani vi sarà un nuovo rastrellamento in Alta Valcamonica. La delicatezza del momento impone urgenti e decisive contromisure. Si concorda con Pietro Chiodi, responsabile delle negoziazioni di zona franca, che al successivo appuntamento concordato tra i tedeschi e Menici, si presenterà invece una pattuglia di Fiamme Verdi, per prelevarlo e impedirgli di contraddire la versione ufficiale sulle responsabilità dell’imboscata contro l’auto germanica.
– Lunedì 16 l’abitato di Pezzo è investito da un violento attacco tedesco, culminato dall’eccidio di sei persone in località Case di Viso: Cipriano Faustinelli, Dario Faustinelli, Martino Faustinelli, Giovanni Maculotti, Matteo Maculotti e Celestino Zuelli. Tre vittime sono legate al gruppo Menici, che a questo punto è scompaginato.
– Martedì 17 il colonnello, scortato da due suoi uomini, si reca al vivaio forestale della Costa di Vione; in ossequio a quanto stabilito, consegna la pistola al suo vice Firmo Ballardini, che con il suo compagno Innocente Pasina si allontana di circa duecento metri e col binocolo controlla quanto avviene sulla strada. In luogo di Kaasik, sopraggiunge un furgoncino guidato da Chiodi: Menici, costretto a salire a bordo, viene condotto in Val Brandet, all’accampamento delle Fiamme Verdi. Rinchiuso in una baita di proprietà della famiglia Plona, il prigioniero viene informato in modo distorto: con raffinata crudeltà, gli si fa credere che anche Firmo Ballardini sia nelle mani delle Fiamme Verdi e che il suo gruppo sia oramai disperso…
Il 10 novembre Zeffirino Ballardini viene ucciso a Edolo dai tedeschi insieme alla fiamma verde Domenico Lazzarini ritenuto (erroneamente) appartenente al gruppo del colonnello, in quanto implicato nell’agguato sulla strada del Tonale attribuito ai gregari di Menici. Luciana Menici e Idilia Ballardini sono internate dai tedeschi nel Lager di Bolzano, dove rimarranno sino alla fine della guerra in dure condizioni di prigionia.
– La prigionia e la morte
Interrogato alla presenza dell’ufficiale delle SS Kaasik, che svolge il ruolo di testimone compiacente e di accusatore, al colonnello viene imputato di aver tradito le Fiamme Verdi: accusa da cui si proclama assolutamente innocente, come spiega in tre lunghe lettere affidate alla famiglia Plona (saranno consegnate nel dopoguerra alla figlia Luciana e al capogruppo Firmo Ballardini), per chiarire l’incresciosa situazione in cui si trova e preannunciare un chiarimento dal quale appariranno chiare le reciproche responsabilità.
La condanna a morte è trasformata da Romolo Ragnoli nell’esilio in Svizzera. Al momento della partenza, Menici lascia alla famiglia Plona un’ultima lettera per la figlia; questa la parte centrale del messaggio: «Non ti farò la storia delle mie vicende – te la racconterò poi. Ti basti sapere che ho affrontato tutto con animo sicuro e con senso di sopportazione serena quale l’essere sulla via retta non poteva mancarmi. A giorni passerò la frontiera Svizzera e di là l’annuncio ufficiale della mia “evasione” credo servirà a convincere i tedeschi che la partita si chiude a loro scorno e così cesserà l’arbitraria vostra detenzione. […] Rassicura tutti sulla integrità delle mie idee e delle mie azioni. So che intorno a me ed alla mia opera sono state diffuse voci ed alterazioni atte a snaturare e falsare il mio operato: ciò è la prova ch’io agivo nella via retta e davo ai nervi ai senza coscienza, ai farabutti, ai profittatori. Ne ho di belle da raccontare e così sarà fatta luce su persone e azioni. Ma questo sarà a suo tempo».
Qualcuno ha però architettato un piano per evitare che, nel dopoguerra, Menici si erga ad accusatore di chi lo ha ingiustamente catturato, grazie all’intesa occulta con i tedeschi.
La “grazia” è un escamotage per eliminare il colonnello in modo “indolore” per toglierlo di mezzo senza conseguenze per chi ne ha architettato la morte.
Pietro Chiodi orchestra un’astuta messa in scena con Kaasik, che a metà pomeriggio del 17 novembre si presenta all’appuntamento concordato con “Peter”, poco sopra lo sbocco della Valle di Sant’Antonio, dopo il bivio per Galleno. A nord, in direzione del passo dell’Aprica, la strada è bloccata dal furgoncino guidato da Chiodi; da sud, cioè da Edolo, arriva l’auto con a bordo Kaasik; le due fiamme verdi che accompagnano Menici – Omobono Lissidini (Bono) e Vincenzo Negri (Caramba) si allontanano dall’ostaggio; il colonnello – intuito l’agguato – si mette a correre, ma è stroncato da due raffiche di mitra.
Alcuni contadini, intenti ai lavori agricoli, assistono alla scena e ne daranno testimonianza, inchiodando “Peter” alle sue pesantissime responsabilità.
Uomini in divisa tedesca si avvicinano ai partigiani e conversano per qualche istante, poi – gettato un ultimo sguardo al cadavere – risalgono sui loro mezzi. La vettura con i nazisti e il camioncino con le fiamme verdi ripartono in direzione di Corteno.
Raffaele Menici è dunque stato consegnato inerme al suo boia, l’ufficiale delle SS Ilmar Kaasik, in attuazione del piano segretamente concordato con Pietro Chiodi. Non vi sono ad oggi elementi per chiarire il ruolo effettivamente rivestito in questa orribile vicenda da Romolo Ragnoli (che peraltro, nel dopoguerra, fornirà dell’episodio informazioni deformanti e mistificatrici) […]
(a cura di) Mimmo Franzinelli, Il colonnello Raffaele Menici, Circolo Culturale Ghislandi, 2014

La pubblicazione del n. 8 dei Quaderni di “Studi bresciani” promossi dalla Fondazione Micheletti, interamente dedicato alla ricerca di Mimmo Franzinelli sulla sorte toccata a Raffaele Menici, comandante la 54- Brigata Garibaldi in Alta Valcamonica, ucciso in circostanze a lungo rimaste oscure il 17 novembre 1944 presso Corteno Golgi, sulla via del confine con la Svizzera, e la cui memoria è stata da allora perseguitata dall’infamante sospetto di tradimento, ha suscitato un vespaio di polemiche locali e riversato sullo storico camuno accuse di preconcetta parzialità, leso onore della Resistenza, intenzioni oblique dettate da spirito di parte (Mimmo Franzinelli, Un dramma partigiano. Il “caso Menici”, Prefazione di Mario Isnenghi, in “Studi bresciani”, 1995, n. 8, pp. 254, sip). Franzinelli ha avuto il torto, in sostanza, di essere pervenuto, attraverso un lavoro minuto e scrupoloso di raccolta di testimonianze, analisi dei documenti reperibili (tranne quelli conservati presso l’Istituto storico della Resistenza di Brescia, la cui consultazione gli è stata inibita con l’inusitato pretesto della mancanza di personale addetto alla bisogna), avvalendosi di ogni fonte accessibile – ivi comprese quelle tedesche del periodo – alla conclusione che il comandante garibaldino fu vittima di una ignobile collusione fra elementi delle Fiamme verdi bresciane della zona in cui operava ed emissari dei comandi nazisti.
Ricapitoliamo succintamente la vicenda. Raffaele Menici, funzionario di banca di Temù, in Valcamonica, tenente colonnello degli alpini dei ruoli di complemento per promozioni guadagnate nelle due guerre mondiali con duri periodi di esperienze ai fronti, dopo l’8 settembre del 1943 si sottrae alle sollecitazioni per assumere il comando delle forze partigiane di ispirazione cattolica che formeranno, per iniziativa diretta di sacerdoti come don Carlo Comensoli, le unità delle Fiamme verdi. Antifascista e laico convinto – quantunque cattolico praticante -, Menici è orientato verso le correnti del Partito d’azione. Spirito libero, con un amore sconfinato per le sue montagne e un trasporto quasi religioso per le solidarietà del mondo degli alpini, Menici raccoglie attorno a sé in Alta valle giovani e uomini che lo hanno conosciuto nei comandi di guerra, finché accetta di essere investito del comando della 54a Brigata Garibaldi in alta Valcamonica. La sua scelta aggrava un punto di tensione capitale esistente nella zona: le Fiamme verdi non tollerano nel settore la presenza di una unità garibaldina, che tentano di ostacolare in tutti i modi; e tanto meno la tollerano in quanto, nell’agosto 1944, hanno stipulato – condizionati da una feroce rappresaglia contro la località di Cevo e da minacce naziste di analoghe azioni contro l’abitato di Corteno – un accordo di “zona franca” con i comandi germanici, ottenendone libertà di azione contro i fascisti (che infatti hanno dovuto sgomberare la zona) e libertà di movimento tra Corteno, Edolo e Pontedilegno a patto di evitare ogni ostilità contro i presidi e il traffico della Wehrmacht. I tedeschi si sono proposti di trarre due vantaggi dall’intesa: attuare in piena tranquillità i lavori di rafforzamento di una via di transito verso la Germania che ha valore strategico e dividere il movimento partigiano, indebolendone la componente di cui conoscono l’irriducibilità a qualsiasi tregua. Il comando delle Fiamme verdi, a sua volta, ne ha ricavato la riconoscenza della popolazione, che si vede salvaguardata dalla repressione nazista e fascista, e la pratica complicità tedesca nell’arginare lo sviluppo e l’attività garibaldina in Alta Valcamonica. Menici, contrario al patto di “zona franca”, è quindi insidiato dai due versanti. Il 13 ottobre 1944, i nazisti irrompono nell’abitazione del comandante garibaldino a Temù e ne fanno prigionieri i familiari (il nipote, Zefferino Bellardini, sarà fucilato il 10 novembre). Il 14 Menici si reca dai tedeschi per ottenere il rilascio dei congiunti consegnando la propria persona. Ma il giorno precedente un nucleo delle Fiamme verdi ha attaccato un convoglio tedesco, rompendo la tregua e dando il via alla rappresaglia nazista alle case di Viso a Pezzo. Il comando delle Fiamme verdi rovescia su quello garibaldino la responsabilità dell’azione al Tonale. Le SS – in straordinari buoni rapporti coi capi partigiani della formazione cattolica che ha stipulato l’intesa di “zona franca” – convincono il comando partigiano di avere in Menici un traditore, sicché il comando lo fa prelevare e portare presso un distaccamento in Valle Brandet dove, dopo una protratta detenzione, è processato e condannato a morte. Il comando generale delle Fiamme verdi tramuta la sentenza in quella di espulsione in Svizzera: ma, appunto il 17 novembre, mentre è scortato verso il confine, Menici viene trucidato in un misterioso agguato.
Per cinquant’anni, denunce inascoltate – fra queste, quella di don Carlo Comensoli – e reticenze delle stesse rappresentanze ufficiali degli ex appartenenti alle Fiamme verdi, hanno lasciato sulla memoria di Raffaele Menici l’onta di un tradimento mai consumato. Franzinelli ha messo mano alla drammatica pagina di storia legata a quel nome di comandante partigiano ed è incontestabilmente riuscito a trarre il “caso Menici” dalle secche dell’oblio, accertando i fatti e risalendo ai responsabili. Da qui, un contorto intreccio di violente reazioni nei suoi confronti, di balbettanti tentativi di impugnare gli esiti della ricerca (in verità, pure con penosi sfoghi di intolleranza verso le verità della storia che hanno coinvolto anche il vicepresidente dell’Anpi nazionale, Giulio Mazzon, antico militante nelle Fiamme verdi), di sfuggenti e ambigui atteggiamenti per attutire la portata di quanto Franzinelli ha portato alla luce ricevendone attestati di stima dagli storici ma anche solidarietà da uomini che hanno appartenuto alla formazione dalla quale è scaturito il tragico evento.
E la figura di Menici ne è uscita finalmente nella propria integrità di uomo e di partigiano, travolto forse anche da ingenuità ed eccessi di fiducia nella lealtà di compagni di lotta e di avversari.
Una pagina triste, dunque, che si chiude grazie alla tenacia ed alla serietà di un giovane studioso, che non inficia il contributo delle Fiamme verdi in quanto tali alla Resistenza e che restituisce alla Resistenza stessa, nella pienezza della sua ispirazione democratica e di combattente, un protagonista della battaglia antinazista e antifascista segnato, nel proprio cammino umano e ideale, da quei sentimenti di “alpinità” incontaminata e genuinamente utopica che non furono di pochi saliti sui monti a rivendicare libertà e giustizia. Nondimeno, il “caso Menici” lascia aperti due discorsi di carattere più generale che non possono, a nostro avviso, rimanere senza un interessamento specifico degli storici.
Il primo concerne la questione delle “zone franche” o, comunque siano state definite, delle zone nelle quali intervennero accordi tra forze partigiane e tedeschi (e fascisti, talora) per sospensioni di attività belliche non strettamente limitate nel tempo e nelle modalità per circostanze quali, ad esempio, lo scambio di prigionieri o trattative sulla sorte di ostaggi civili. Questa pratica si ripetè su vari scenari della lotta partigiana e non ha finora ricevuto la dovuta attenzione dei ricercatori, tenendo conto che sembra essersi affermata, in contesti differenti, con differenti motivazioni (e che, comunque, contravveniva a precisi dettami del comando generale del Cvl e a direttive non meno precise di comandi regionali, veniva meno al principio del sostegno come “secondo fronte” degli sforzi bellici degli alleati – e quindi ad un postulato fondamentale del concorso partigiano italiano alla guerra da far valere al tavolo delle trattative di pace – e rompeva l’unità del fronte combattente innescando, come nel “caso Menici”, drammatiche contrapposizioni). Si tratta di un capitolo suscettibile di portare in superficie altri aspetti di incertezze, opportunismi o semplicemente calcoli di pur comprensibile preoccupazione per l’incolumità degli inermi civili, sui quali tuttavia occorre fare chiarezza in sede storiografica giusto perché la ricostruzione fedele della multiformità degli aspetti confluiti nel tumulto resistenziale non può né deve sopportare zone d’ombra. “Dire la verità dopo cinquant’anni. È questo il modo migliore per rifiutare la retorica e trovare la vera unità attorno ai valori che contano”. Così Santo Peli dell’Università di Padova sul “caso Menici”: e non si vede come dovrebbe essere diversamente […]
Mario Giovana, Il “caso Menici” ovvero la storia della Resistenza senza mistificazioni, Italia contemporanea (già Il Movimento di liberazione in Italia dal 1949 al 1973) n° 205, 1996 in Rete Parri

Promotore e guida morale della resistenza valligiana – Accentuazione graduale dell’antifascismo; passaggio – con l’armistizio – all’azione diretta, accorgimenti idonei a mascherare l’impegno contro la RSI; rapporti col comunista bresciano Costantino Coccoli e col biennese Luigi Ercoli; legame con Romolo Ragnoli e con i diretti collaboratori; Comando partigiano presso la casa canonica di Cividate; incomprensione del ruolo dei partiti politici e contatti diffidenti col centro resistenziale milanese; divergenze con i garibaldini e disistima verso Nino Parisi; relazioni non sempre facili con i confratelli valligiani e col vescovo: collaborazione, ma pure incomprensione del suo impegno antifascista: taluni ecclesiastici (ad es. monsignor Giacinto Tredici) lo ritengono eccessivamente incline alla politica; difficoltà e affanni del settembre 1944 col timore della cattura e l’ardua ricerca di un rifugio fuori dalla Valcamonica; il tentativo di «moderazione della violenza» (stipulazione di tregue d’armi, sdegno per uccisione del colonnello Menici ecc.); arresto il 25 marzo 1945, per la confessione di un confratello coinvolto nella distribuzione de “il ribelle”, detenzione a Brescia sino al 24 aprile.
(a cura di) Mimmo Franzinelli, Diario di don Carlo Comensoli, Circolo Culturale Ghislandi, 2000