L’ideatore delle Fiamme Verdi è Gastone Franchetti

Fonte: Fiamme Verdi Brescia cit. infra

Il 30 novembre, nella casa dell’ing. Mario Piotti, in via Aleardi a Brescia, numerosi esponenti del nascente movimento partigiano, provenienti dalle province di Trento, Milano, Sondrio, Padova, Belluno, Lecco e Como, oltre che dal bresciano, danno ufficialmente vita al movimento delle Fiamme Verdi, stendendone anche il regolamento.
L’ideatore delle Fiamme Verdi è Gastone Franchetti, un tenente degli alpini di Riva del Garda, che fin dalla fine di ottobre aveva preso contatto con gli esponenti dell’antifascismo bresciano per esporre il suo progetto di movimento partigiano apolitico, fondato su valori di fratellanza, al quale aderiranno soprattutto i partigiani cattolici.
Le Fiamme Verdi saranno riconosciute dal CLNAI di Milano, dopo un colloquio tra Ferruccio Parri e Enzo Petrini, e autorizzate ad operare in tutta la Lombardia orientale.
Maurilio Lovatti, Testimoni di libertà. Chiesa bresciana e Repubblica Sociale Italiana (1943-1945), Edizioni Opera Diocesana, Brescia, 2015

La preghiera de «il Ribelle», composta per la Pasqua del 1944 da Teresio Olivelli. Stampa
originale di allora.

Dopo solo due mesi dall’ordinazione di padre Luigi Rinaldini, nell’aprile 1944, il comandante della Brigata Tito Speri delle Fiamme Verdi, Romolo Ragnoli, gli chiede di diventare cappellano della Brigata per assicurare l’assistenza religiosa ai partigiani. In accordo con don Comensoli, gli chiede anche di celebrare la messa di Pasqua per le formazioni partigiane, nella convinzione che un sacerdote non della valle non avrebbe corso il rischio di compromettere le popolazioni locali, in caso di eventuali ritorsioni nazifasciste.
Il problema dell’assistenza religiosa ai partigiani è di ordine generale: si era già provveduto in forma privata e spontanea da parte di sacerdoti amici dei partigiani residenti nelle valli d’influenza, ora però si vuole dare una soluzione più sicura e organica, e soprattutto si punta ad ottenere il consenso e il riconoscimento dell’autorità religiosa.
Sempre per la Pasqua del 1944, p. Rinaldini dà l’autorizzazione a Teresio Olivelli, in mancanza di un imprimatur ufficiale, alla stampa della Preghiera del ribelle. Lo stesso padre Rinaldini, tra gli episodi vissuti più ricordati, cita l’imprimatur «in casa Brunelli alla Preghiera del ribelle, che Olivelli sottoponeva a me, dopo averla discussa in CLN a Milano e aver ottenuto dai comunisti l’abolizione di ogni accenno a vendetta e odio e ancora spostare qualche parola per evitare che qualcosa non fosse degno del Cristo e del suo Vangelo» <145.
L’impegno dell’Oratorio della Pace nella Resistenza, mettendo a disposizione un giovane sacerdote, si fa dunque ancora più esplicito.
Il problema però concerne la nomina a cappellano delle formazioni partigiane, che non può essere decisa in autonomia alla Pace, ma è di stretta pertinenza del vescovo di Brescia. Bisogna dunque sottoporre a mons. Tredici la necessità urgente di consentire a p. Rinaldini di assumere l’incarico propostogli da Ragnoli. A questo proposito p. Rinaldini, insieme a don Vender, don Tedeschi e don Almici, stende un documento noto come Il manifesto della Resistenza cattolica, un testo fondamentale per comprendere le motivazioni resistenziali del clero bresciano.
Lo scritto si apre con un richiamo alla responsabilità della Chiesa, che per occuparsi della vita spirituale delle persone deve comunque interessarsi della loro esistenza concreta e prendere posizione di fronte agli eventi: «La Chiesa è società che si preoccupa del bene delle anime, non è quindi oggetto diretto del suo interessamento il benessere temporale (materiale e spirituale) delle popolazioni. Però per il bene spirituale delle anime, la Chiesa deve pubblicamente o almeno privatamente giudicare i fatti personali e sociali, sempre con atteggiamento imparziale, dato che essi hanno sempre influenzato sulla formazione spirituale degli uomini; quando questi fatti siano gravemente deformanti la personalità umana e cristiana (in altre parole contrari alla legge divina) la Chiesa è tenuta a condannare apertamente (ratione peccati); quando non sia possibile una condanna aperta per condizioni contingenti, la disapprovazione ne è però sempre doverosa (anche se non assume carattere pubblico).
Il giudizio della Chiesa è quindi politicamente imparziale, perché compiuto “ratione peccati”, ma questo non vuol dire che non abbia rilievo politico, dato che è espresso, nei confronti dei cittadini cattolici che devono comportarsi, ove la Chiesa giudichi, secondo come ha giudicato, e, ove essa non giudichi, secondo retta coscienza.
Giova notare, nei confronti di coloro che dicono che la Chiesa fa della politica, che l’azione morale della Chiesa (politica indiretta) è necessaria, è definita prima ancora che succedano i fatti; non può esser parte del gioco politico di dire la verità quando più comoda […]. La Chiesa tradirebbe la sua missione ogni volta che, per opportunismo, avesse a tacere, a dilazionare o mutare il suo giudizio nei riguardi dei fatti.
Non ci si può quindi nemmeno mantenere nell’ignoranza dei fatti, perché di essi si deve dare un giudizio alla coscienza dei fedeli. […] Se il sacerdote avverte una disonestà […] deve, se può, farlo presente; non può per opportunismo, tacere. La morale non può rimanere impenetrabile, deve diventare direttiva delle azioni. Non si può, d’altra parte, sospendere un’azione per lunghi mesi (soprattutto se essa ha un grave valore storico); sarebbe irrazionale e da pusillanimi.
Dal cattolico il sacerdote deve esigere in coscienza: conoscenza dei princìpi morali, sincerità nell’esame dei fatti, conseguente onesta applicazione dei princìpi» <146.
Non può non colpire la grande affinità del testo con il giudizio sulla Chiesa espresso da Bonhoeffer: anche per questi preti cattolici la Chiesa non può rimanere in silenzio davanti a fatti gravi che danneggiano la persona umana e, in caso sia impossibile prendere pubblicamente una posizione di denuncia, deve almeno disapprovarli. Essa deve giudicare gli avvenimenti personali e sociali perché influiscono sulla formazione spirituale degli uomini, di cui la Chiesa si preoccupa. La Chiesa non fa politica, ma indirettamente e naturalmente la sua voce ha un peso politico perché guida il comportamento dei cittadini cattolici. Non c’è spazio per l’opportunismo, bensì solo per il coraggio alimentato dall’onestà dei princìpi e dalla forza di una morale che, come l’etica bonhoefferiana, non resta astratta ma deve diventare direttiva delle azioni.
Nel documento si esorta il cristiano a compiere il bene maggiore e la Chiesa a prendere le parti dei deboli e degli oppressi. Se l’istituzione ecclesiastica non deve agire politicamente in maniera diretta, diverso è il discorso per i cattolici, «che come cittadini devono assumere le loro responsabilità civiche, impegnandosi in quel senso che la loro coscienza, ordinata secondo i princìpi della morale umana ed evangelica, esige. I cattolici non possono rimanere indifferenti di fronte ai problemi politici e patriottici, ma devono impegnarsi a fondo nei medesimi per poter dire la loro parola di verità, e per poter influire positivamente sul corso degli avvenimenti» <147.
[…] Quindi p. Rinaldini e gli altri preti asseriscono che «dinanzi a questi fatti sorge per la Chiesa un preciso dovere di pronunciarsi contro questa aperta ingiustizia» <157.
Per quanto riguarda invece l’esecutivo di Roma, viene ritenuto sicuramente più legittimo della RSI in quanto non ha perso legittimità giuridica e popolare, è aperto alla formazione di un governo perfettamente legittimo ed è garantito dagli Alleati, i cui interessi non contrastano con quelli dell’Italia. Invece non possono esistere fonti di legittimità per il governo fascista che, per quanto si definisca “repubblicano”, è al presente e vuole essere in futuro una dittatura di pochi che agisce contro la libertà e la giustizia. Inoltre non fa gli interessi della nazione, ma di un governo straniero nemico dell’Italia.
Quindi, concludono i redattori, «la quasi totalità dei cittadini riconosce il governo di Roma come legittimo (in questi giorni persino anche molti fascisti), mentre quello fascista è considerato come un sopruso (illegittimo), come di fatto è, a norma di diritto.
Questo l’esame dei fatti così come è compiuto oggi dai cittadini più onesti; esame che la Chiesa deve accettare da loro, data la sua imparzialità politica» <158.
Non c’è bisogno di addurre giustificazioni religiose per il netto giudizio dei sacerdoti, perché in questo caso bastano le motivazioni politico-giuridico-morali, che possono essere condivise da tutti, compresa la Chiesa. Questa situazione «mostra la perfetta onestà di quei cittadini – gran parte cattolici – che, di fronte all’occupante il quale non rispetta il diritto delle genti, […] si pongono sul piano della reazione morale aperta, proprio per dare alla Patria quella libertà che può ricevere solo dai suoi cittadini» <159. La rivolta morale è una componente precipua della Resistenza cattolica, come è testimoniato dai molti articoli sul tema presenti nel giornale clandestino il ribelle. Essa è fondamentale, ma deve essere supportata da azioni concrete che possano garantire un effettivo cambiamento.
Così, per Rinaldini e gli altri, «anche la reazione armata è perfettamente lecita, perché l’azione dell’occupante ha cacciato dalla società una massa notevole di giovani e di uomini che non volevano obbedire alle imposizioni del nemico per l’onore della Patria (talvolta anche perché collimava con ciò il loro personale interesse). Giova però notare che motivo primo fu sempre il senso della libertà e la coscienza di doverla difendere per sé e per gli altri: prima di tutto col proprio rifiuto a cedere, poi anche con la resistenza armata.
[NOTE]
145 Ivi, p. 189.
146 Il manifesto della Resistenza cattolica, a cura di Dario Morelli, in La Resistenza bresciana, I (1970), cit., pp. 24-25.
147 Ivi, p. 26.
157 Ivi, p. 29.
158 Ivi, pp. 30-31.
159 Ibidem.
Filippo Danieli, Fedeli e ribelli. Paradigmi di Resistenza cristiana al nazifascismo, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2018/2019

Fonte: www.il-ribelle.it

Da un lato vi era chi aveva maturato un consapevole giudizio molto critico nei confronti del fascismo da diversi anni. Scrive ad esempio don Riccardo Vecchia: “L’esperienza personale dei primi anni di ministero durante i quali constatai di persona come i principi della dottrina fascista, negati ogni valore umano e cristiano, portavano inesorabilmente alla violenza morale e materiale, e perciò alla divisione degli animi, alla sete di vendetta, all’odio, mi spinse dietro un preciso dovere di coscienza a cercare il modo di difendere l’oppresso qualunque esso fosse, il debole da qualsiasi parte militasse, l’indifeso qualunque credo accettasse, il bisognoso a qualunque ceto appartenesse; in una parola qualsiasi persona umana privata dei suoi valori ad opera di un regime che aveva istituzionalizzato tali metodi. La mia è stata una rivolta morale ai principi e ai metodi del fascismo, rivolta che precede il venticinque luglio e l’otto settembre; una rivolta che specie dopo l’8 settembre si accompagnò alla volontà di pagare a qualsiasi prezzo la propria fedeltà nei valori più sacri della libertà e della persona umana. Queste le ragioni che hanno portato il sottoscritto a favorire nel paese in cui si trovava – Bedizzole – e nei dintorni, ad aiutare, istituire, la formazione di un gruppo di «ribelli per amore», aderendo al movimento Fiamme Verdi, brigata Dieci Giornate. Ci siamo categoricamente rifiutati fin dall’inizio di aderire a tante organizzazioni ribellistiche che avevano tentato con noi un contatto ma che risultavano legate a partiti politici; l’unica organizzazione che non aveva condizionamenti esterni, in questo senso apolitica veramente, e di cui fummo sicuri dopo alcuni contatti attraverso la staffetta Carlo Frisoni, fu quella delle Fiamme Verdi. Con le Fiamme Verdi capimmo e vivemmo l’unico movente che ci fece aderire alla Resistenza, una scelta inequivocabile di antifascismo e di vera democrazia, un’opzione di libertà e di rispetto per l’uomo. […] Per noi la Resistenza veniva prima di qualsiasi interesse di parte, quindi la carità pratica resa operante, la carità tradotta in opere di misericordia e di aiuto al Cristo nella persona di chi soffre a causa dell’ingiustizia, questo il motivo fondamentale che ci ha sostenuto e guidato nel prendere posizione con una precisa catechesi di condanna di tutta la
dottrina fascista che non poteva portare che a conseguenze deleterie e di compressione della persona umana.” <40
Ma vi sono anche, e sono i più numerosi, coloro che maturano gradualmente, sotto la spinta degli eventi impetuosi dal carattere dirompente. Scrive ad esempio don Luigi Frola: “Se ripenso a quel tempo – ero allora curato a Marmentino – mi pare di poter dire che fu la carità verso il prossimo e l’amor di Patria a farmi trovare naturalmente accanto ai «ribelli». Si trattò, dapprima, di aiutare i prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento e che passavano numerosi nella nostra zona per cercare rifugio in Svizzera. Erano francesi, inglesi, russi. Avevano bisogno di tutto. Venivano rifocillati, si fermavano una notte a dormire e ripartivano muniti di una carta geografica che li aiutasse a orientarsi o accompagnati da qualcuno che gli potesse insegnare la strada. Nel novembre del ‘43 in Vaghezza si costituì un gruppo di partigiani che facevano capo a Tito (Luigi Guitti). Il gruppo, inizialmente costituito da una
quindicina di persone, fu oggetto di rastrellamento e alcuni giovani furono catturati. Nella circostanza fui arrestato anch’io, perché sospettato di averli aiutati, come effettivamente avevo fatto. Fui tenuto una notte intera, freddissima, su un autocarro fascista al passo del Santellone in attesa di conoscere la mia sorte. Alla mattina fui lasciato in libertà.” <41
[NOTE]
40 AA. VV., Antifascismo, resistenza e clero bresciano, CeDoc, Brescia 1985, cit., pp. 121-122.
41 Ivi, p. 217.
Maurilio Lovatti, Op. cit.