Ebrei in fuga da St. Martin Vésubie

Saint-Martin-Vésubie, Alpi Marittime, inverno 1942-1943. Foto Federico Strobino, coll. Alberto Cavaglion, Archivio Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto) – Fonte: Alberto Cavaglion, art. cit infra
Enzo Cavaglion
Fonte: moked cit.

Tra il 9 e il 13 settembre del 1943 circa mille profughi ebrei provenienti da tutta Europa, che erano stati concentrati dalle autorità di occupazione italiana nella residence forcée di Saint-Martin-Vésubie, attraversarono il Colle delle Finestre e il Colle Ciriegia per sfuggire allo sterminio nazifascista. Profughi da tutta Europa, tra cui bambini di pochi mesi e persone anziane, scesero in Valle Gesso alla ricerca di un rifugio in Italia. La marcia “Attraverso la Memoria”, oggi alla XVII edizione, ricorda la loro epopea.
[…] Dobbiamo sforzarci di immaginare centinaia di migliaia di famiglie che, fin dalle prime ore del febbraio del 1933 – con il nazismo appena insediato al potere – e per più di dieci anni, a turno considerarono e misero in atto la scelta della fuga dalla persecuzione razziale. Spesso finendo, come i Weismann, in una trappola, dal momento che buona parte dell’Europa si rivelò presto una scatola chiusa. Ed è quello che accadde ad almeno 331 profughi che, dopo essere stati concentrati dagli occupanti italiani nella residence forcée di Saint-Martin-Vésubie, lasciarono il territorio francese nel settembre del 1943 insieme alla 4ᵃ armata allo sbando. Insieme a centinaia di altri perseguitati passarono di qui – dove siamo oggi – per cercare protezione in Italia. E, il 21 novembre dello stesso anno, trovarono la deportazione ad Auschwitz […]
Carlo Greppi, Salvare se stessi, Doppio Zero, 8 Settembre 2015

La famiglia Roman, rifugiata a Saint-Martin-Vésubie, passa in Italia dopo l’invasione della zona di occupazione italiana da parte dei Tedeschi l’8 settembre 1943. Passo di Ciriegia, Alpi Marittime, settembre 1943. Foto Charles Roman, coll. Alberto Cavaglion, Archivio Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” (Istoreto) – Fonte: Alberto Cavaglion, art. cit infra

Fra dicembre 1942 e settembre 1943, mentre Roma diventa sempre più lontana da Nizza, l’umanitarismo sentimentale – che non era evidentemente una pura invenzione se era paventato dal Duce – si fa strada. Gli italiani si oppongono alla decisione di imporre la “J” (Juif) sui documenti, istituiscono ”residenze coatte” in piccoli centri dell’entroterra come St Martin, a ridosso del confine, dove potevano vivere liberamente, a patto che due volte al giorno segnalassero la loro presenza; concordano attività di smistamento e di assistenza con le organizzazioni ebraiche di soccorso di Rue Dubouchâge a Nizza.
L’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre costrinse gli abitanti della residenza coatta alla fuga. Decisero di seguire i soldati della IV armata che rientravano in Italia attraverso quei due colli alpini.
Da qualche anno, ogni settembre, “attraverso la memoria”, si sale lassù per ricordare quella che già ai protagonisti della vicenda sembrò “una marcia biblica”, tragicamente conclusasi con l’arresto di 349 ebrei, internati nella ex caserma alpina di Borgo S. Dalmazzo e di lì deportati ad Auschwitz il 21 novembre del 1943.
Alberto Cavaglion, La marcia biblica degli ebrei sulle Alpi, Camminare, 30, agosto-settembre 2013, Fusta Editore

La questione francese stizzì anche uno dei più importanti ufficiali nazisti in Italia, Heinz Roethke, che così si espresse il 21 luglio 1943: «L’atteggiamento italiano è ed è stato incomprensibile. Le autorità militari italiane e la polizia italiana proteggono gli ebrei con ogni mezzo che sia in loro potere. La zona di influenza italiana, particolarmente la Costa Azzurra, è divenuta la Terra Promessa per gli Ebrei residenti in Francia» <216.
Nel caso francese, la ‘spina nel fianco’ dei nazisti era un semplice ispettore di Polizia: Guido Lospinoso, il quale era stato incaricato dal duce di recarsi a Nizza per organizzare il trasferimento delle migliaia di profughi ebrei che si nascondevano nelle zone di occupazione italiana. Costoro avrebbero dovuto essere portati in campi di internamento che si trovavano nel lontano entroterra. Circa cinquemila ebrei vennero effettivamente trasferiti, ma altrettanti rimasero in Costa Azzurra. Mussolini non aveva effettuato la sua scelta a caso: i nazisti si erano spesso lamentati della scarsa cooperazione dimostrata dall’esercito italiano durante la caccia agli ebrei nelle zone di occupazione. Lospinoso era una conoscenza personale del duce, il quale sapeva che scegliendo un uomo che proveniva dalla Polizia (e quindi dipendeva dal Ministero dell’Interno, entrambi ambienti notoriamente più antisemiti rispetto all’esercito) i gerarchi nazisti avrebbero creduto alle sue buone intenzioni. Come riporta la storica Susan Zuccotti, «The Germans were delighted. Heinrich Müller, Chief of the Gestapo, stated from Berlin on April 2 that Lospinoso would “regulate the Jewish problem… in accordance with the German conception, and in the closest collaboration with the German police» <217. Ma come aggiunge poi l’autrice «Another brief comedy began»; ovviamente in genuino stile italiano. Infatti «Lospinoso, nel frattempo, faceva in modo di disertare ogni eventuale incontro con i tedeschi per evitare domande dirette; la destituzione di Mussolini e la sua sostituzione a capo del governo con il maresciallo Pietro Badoglio il 25 luglio 1943 poi, gli fornì un’altra scusa per temporeggiare ulteriormente. Il 18 agosto spiegò accuratamente ai tedeschi che doveva ritornare a Roma per ricevere nuove istruzioni. Finché l’esercito italiano non si ritirò dalla Francia, dopo l’armistizio, neanche un ebreo fu deportato dalla zona di occupazione» <218.
Il fatto che le truppe italiane aiutassero gli ebrei anche dopo gli eventi del 25 luglio o dell’8 settembre 1943 evidenzia come tale protezione non dipendesse dalla volontà di Mussolini, né che fosse stata da lui lontanamente suggerita.
Forse la ‘diversa formazione intellettuale’ di cui parlava il duce esisteva davvero: pur privi di una guida sicura, gli ufficiali italiani seguirono probabilmente quelle che vennero definite «elementari esigenze del prestigio italiano» <219 le quali impedivano di consegnare dei civili inermi all’esercito nazista od ai suoi alleati, ben sapendo la fine che avrebbero fatto.
Sebbene sia evidente che il mito del ‘buon italiano’ sia soltanto appunto un mito, il comportamento di parte dell’esercito e delle autorità italiane fu sicuramente diverso da quello che Hitler e tutti i gerarchi nazisti auspicavano.
[NOTE]
214 Gideon Hausner, Sei milioni di accusatori, Torino, Einaudi, 2010.
215 Hannah Arendt, La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme, Op. cit., p. 184.
216 Leon Poliakov, Jacques Sabille, Gli ebrei sotto l’occupazione italiana, Roma, Edizioni di Comunità,
1956, pp. 104-105. Citato in Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Op. cit., p. 462.
217 Susan Zuccotti, The Italians and the Holocaust, Lincoln, University of Nebraska Press, 1996, p.86.
218 Susan Zuccotti, Il Vaticano e l’Olocausto in Italia, Milano, Mondadori, 2001, p. 149. Circa vent’anni dopo questi eventi, il nome di Lospinoso venne pronunciato in un luogo particolarmente solenne: il tribunale della corte distrettuale di Gerusalemme, durante il processo Eichemann. Al gerarca nazista venne chiesto se avesse mai incontrato il semplice ufficiale di Polizia che per mesi gli aveva impedito di deportare gli ebrei della Costa Azzurra. Vedasi Gerardo Unia, Scacco ad Eichmann, Cuneo, Nerosubianco, 2012.
219 Leon Poliakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, op. cit., p. 229.
Davide Spada Pianezzola, Le ragioni dei Giusti. Azioni, tecniche e motivazioni dei “Giusti” italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, 1941-1945, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2013-2014

Eroe della Resistenza, eroe personale di tanti ebrei perseguitati in fuga dal nazifascismo, memoria storica e custode delle vicende plurisecolari e appassionanti della Cuneo ebraica […] Enzo Cavaglion.
Nato a Cuneo il 21 giugno del 1919, figlio di Giuseppe ed Eva De Benedetti, appassionato e grande conoscitore del mondo alpino, sin dalla gioventù frequentò i circoli antifascisti e fu attivamente impegnato nella lotta al regime fascista. Dal settembre del ’43, mentre l’Italia si appresta a entrare nei suoi mesi più drammatici, aiuta gli ebrei evacuati dalle loro precedenti sedi di internamento della Francia meridionale portando aiuti materiali e favorendone la sistemazione provvisoria. Mettendo più volte in pericolo la propria vita, fornì rifugio, abiti e documenti falsi oltre alle informazioni più dettagliate sui rastrellamenti nazifascisti in corso così da scongiurarne la cattura.
Questa la motivazione che nel gennaio dello scorso ha portato l’organizzazione ebraica B’nai Berith a conferirgli la “Jewish Rescuers Citation”. Il riconoscimento attribuito a quei cittadini ebrei che, al tempo delle persecuzioni, aiutarono dei correligionari braccati.
Insieme al fratello Riccardo, Enzo fu uno dodici componenti della Banda “Italia Libera”, primo nucleo fondato dall’avvocato Duccio Galimberti che entrò poi a far parte di “Giustizia e Libertà”. È in questo ambito che la banda affronta diversi scontri con i tedeschi. I due fratelli partigiani riescono inoltre a salvare i loro cari, internati nel campo di Borgo San Dalmazzo […]
Redazione, Enzo Cavaglion (1919-2019), moked, 7 gennaio 2019

Meno fortunati furono invece i circa mille ebrei di varia nazionalità che erano stati confinati dalle autorità italiane a S. Martin Vésubie, un grosso paese delle Alpi Marittime francesi situato all’interno della zona francese dal 1942 sotto il controllo del Regio Esercito. La Delasem, da qualche tempo, stava cercando di intervenire in favore di questi ebrei e di tutti quelli obbligati alle résidences forcées presenti nella regione d’oltralpe: attraverso la mediazione del Vaticano si voleva raggiungere un’intesa con le autorità italiane affinché quest’ultime autorizzassero il trasferimento nel Regno di tutti gli ebrei. Malauguratamente, l’8 settembre arrivò prima che l’accordo potesse dare i suoi frutti. Abbandonati al loro destino, gli ebrei di S. Martin Vésubie, alla notizia dell’armistizio, scapparono in direzione dell’Italia.
Quasi 400 ebrei scappati da S. Martin Vésubie scoraggiati e stanchi per la dura marcia, si consegnarono ai tedeschi. Pochissimi fuggirono nuovamente nascondendosi tra le montagne <13.
Gli ebrei fermati il 12 settembre nelle vallate cuneesi, condotti a Borgo San Dalmazzo, il 21 novembre 1943 vennero deportati da lì ad Auschwitz/Birkenau dopo un lungo viaggio via Nizza e Drancy, il più importante centro di internamento francese. Il gruppo di Borgo San Dalmazzo costituì il terzo convoglio in partenza dall’Italia verso i campi della morte; in precedenza, il 9 novembre, era partito un convoglio formato da circa 400 persone arrestate in Toscana e nel Bolognese, mentre il 18 ottobre 1943, furono deportati il migliaio di ebrei rastrellati nella retata tedesca di Roma avvenuta due giorni prima.
13 La famiglia Greve fu fra questi. Per il momento essi avevano salvato la pelle, ma purtroppo la loro vita, già segnata da anni di peregrinazioni, avrebbe serbato loro prove ancor più dolorose. A proposito dell’entrata in Italia del gruppo di ebrei di S.M. Vésubie, Ludwig Greve, ebreo diciannovenne di Berlino, scrisse: «Il 9 settembre 1943, un giorno dopo l’armistizio italiano, l’esercito occupante (il 4° Alpini) iniziò la fuga. Noi, circa mille persone perseguitate dai tedeschi, fuggimmo in Italia insieme a loro, con una marcia di tre giorni. Il percorso: Saint-Martin-Vésubie, colle della Madonna di Finestra (altezza 3500 m) [Colle delle Finestre, 2178 m], Entraque. Nei due villaggi di confine, Entraque e Valdieri (in provincia di Cuneo), fummo accolti fraternamente dai contadini. Credemmo di essere giunti in un paradiso, ma già il secondo giorno dopo il nostro arrivo comparvero i carri armati con le SS tedesche e annunciarono con gli altoparlanti che tutti i profughi dovevano presentarsi entro le ore 12. I contravventori sarebbero stati fucilati». L. Greve, Un amico a Lucca. Ricordi d’infanzia e d’esilio, (a cura di Klaus Voigt), Carocci, Roma 2006, p. 197. Sulle vicende degli ebrei di S. Martin-Vésubie si veda A. Cavaglion, Nella notte straniera. Gli ebrei di Saint Martin Vésubie. 8 settembre-21 novembre 1943, L’Arciere, Cuneo 2003.
Paolo Tagini, “Le prefazioni di una vita”. I bambini ebrei nascosti in Italia durante la persecuzione nazi-fascista, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, 2011

Le Alpi occidentali viste attraverso la lente d’ingrandimento della persecuzione antiebraica si possono visivamente rappresentare come una rete che sempre più restringe l’area di libertà di movimento: le fasi da scandire sono quelle che immediatamente seguono il giugno 1940, ma la data-spartiacque viene dal novembre 1942, con il definirsi più preciso delle zone d’occupazione italiana.
In altri termini, a partire dalle emigrazioni clandestine avviate a Ventimiglia già sul finire del 1938, ha inizio, intorno all’arco alpino, un percorso a spirale, con tanti punti di ingresso o di accesso e un’infinita serie di passaggi in più direzioni di marcia. Una spirale che coinvolse individui provenienti dall’Europa centrale, dalla Polonia, dall’Austria, dalla Russia, che salgono e scendono, passano frontiere, poi ritornano sui loro passi. Una cifra, fra le tante, dà il peso di queste vicende: circa 20.000 profughi di mezza Europa da Nizza guardavano alle Alpi Marittime (oppure al mare) come a una possibile via di salvezza nell’inverno 1942-1943.
Una serie di percorsi da indagare per ricostruire la dimensione europea di una pagina dimenticata della storia del Novecento. Da indagare attraverso la ricorrenza dei nomi e delle storie di vita: registriamo infatti nei documenti la presenza degli stessi uomini, delle stesse donne, degli stessi bambini ora nei registri francesi, ora nei registri comunali italiani, infine, nei documenti svizzeri. Non è un esercizio impossibile quello di seguire caso per caso la storia di una persona che a Ventimiglia si registra in un modo, poi due mesi dopo a Mentone la ritroviamo registrata in modo leggermente diverso nei documenti per le cartes d’alimentation; ritroviamo la stessa persona, lo stesso nucleo famigliare nella testimonianza di un soldato della IV Armata, poi vediamo comparire quelle stesse persone o nelle liste di deportazione pubblicate da Serge Klarsfeld nel suo Mémorial oppure nelle formazioni partigiane italiane del Cuneese o in Valle d’Aosta.
Dentro le Alpi, dentro questa spirale di valichi, passaggi frontalieri di contrabbando e di pescatori, linee ferroviarie percorse con «l’ultimo treno», mulattiere, postazioni militari, alpeggi, gli ebrei penetrarono rincorrendo più di una linea vettoriale, come si diceva.
Alberto Cavaglion, Persecuzioni e repressioni in Memoria delle Alpi

Alberto Calisse è stato console generale d’Italia a Nizza durante la Seconda guerra mondiale e nel 1943 anche capo dell’ufficio della Commissione Italiana di Armistizio con la Francia nella stessa città. Quando assume l’incarico diplomatico la parte settentrionale e nord orientale della Francia è già occupata dall’esercito tedesco, mentre l’esercito italiano dal novembre 1942 occupa la parte sud orientale, da Mentone a Tolone, e l’Alta Savoia.
[…] Negli anni 1942-1943 Calisse, d’intesa e con il supporto dei comandi militari italiani, offre un rifugio a migliaia di ebrei in fuga da tutta Europa dalla Shoah, realizzando a Saint Martin Vésubie, un villaggio nelle Alpi francesi, un luogo sicuro, dove gli ebrei possono continuare le loro attività, avendo a disposizione anche una sinagoga e una scuola. Calisse cerca anche di raccogliere aiuti economici, sostenuto da altri diplomatici italiani.
In questa attività di protezione degli ebrei Calisse è affiancato da Angelo Donati, cittadino italiano proveniente da una delle famiglie più importanti della Comunità Ebraica di Modena, già ufficiale con compiti di collegamento tra l’esercito italiano e quello francese nella Prima guerra mondiale, poi trasferitosi a Parigi per operare nel mondo economico e finanziario. Nel 1940, poco prima dell’invasione tedesca, Donati si sposta a Nizza, dove risiedono ormai molti ebrei provenienti da tutta Europa per beneficiare della protezione italiana.
Grazie al suo passato militare e alla sua notorietà, Donati stabilisce un rapporto di fiducia con le autorità diplomatiche e militari italiane e collabora con Calisse per garantire la salvezza a numerosissimi ebrei francesi, italiani e di altre nazionalità. Alla rete di salvataggio, che fornisce aiuti e documenti falsi, partecipano anche Padre Marie-Benoit – membro della Delasem (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei) – e il Comitato Dubouchage.
Tutto poi cambia improvvisamente l’8 settembre 1943 con l’armistizio proclamato dall’Italia, che si schiera con gli Alleati, mentre a Nizza arrivano le truppe tedesche e i soldati italiani devono scegliere se fuggire, essere fatti prigionieri o restare a fianco della Germania.
Agli ebrei resta solo la possibilità di una drammatica fuga attraverso le montagne, durante la quale un terzo di loro viene arrestato.
Una targa commemorativa posta nel villaggio di Saint Martin Vésubie ricorda il loro tragico destino e l’impegno di chi cercò di aiutarli: “Qui un migliaio di ebrei, uomini, donne, bambini, vecchi, aiutati dalle organizzazioni ebraiche, protetti dall’esercito di occupazione italiano hanno conosciuto un po’ di pace fino all’8 settembre 1943, giorno in cui si è scatenato l’odio razziale dell’occupante tedesco. Superando le montagne in un esodo biblico, 360 di loro furono ripresi dalle SS e internati a Borgo San Dalmazzo. Trasferiti dalla Gestapo da Nizza a Drancy, furono deportati al campo della morte di Auschwitz-Birkenau. Ricordiamoci di queste vittime innocenti, della crudeltà dei loro aguzzini, ma anche dell’umanità di coloro che qui tentarono di salvarli” […]
Redazione, Alberto Calisse, console generale a Nizza, si è prodigato per salvare gli ebrei offrendo loro un rifugio, Gariwo la foresta dei Giusti

Ha fatto tappa al Muro del Lager di via Resia a Bolzano il cammino di Gimmi Basilotta della Compagnia Teatrale il Melarancio di Borgo San Dalmazzo che sta proponendo l’iniziativa “Passo dopo passo / Schritt fuer Schritt. Da Borgo San Dalmazzo ad Auschwitz” che consiste in una marcia a piedi dal Piemonte alla Polonia in memoria di 27 ebrei della provincia di Cuneo deportati nel lager nazista il 15 febbraio del 1944. Una marcia che rientra idealmente nelle attività del progetto “Storia e Memoria: il Lager di Bolzano” dell’Archivio Storico cittadino. Stamane ad accogliere Basillotta ed i suoi accompagnatori, in via Resia davanti al muro del Lager i rappresentanti dell’amministrazione comunale e dell’Anpi.
“Cosa è oggi la memoria e cosa vuol dire ricordare la Shoah, sterminio di massa del popolo ebraico, perpetrato in Europa dal III Reich?
In un suo recente intervento il professor Alberto Cavaglion ci mette in guardia dal rischio di rimanere intrappolati in una sorta di eccesso celebrativo definito “memoriosità”: un’impostazione del ricordo, un po’ rituale e circoscritta, soggetta alla banalizzazione e portatrice dell’effetto anestesia suscitato dagli eccessi comunicativi.
Tutti dichiarano la necessità di parlare di memoria e soprattutto di FARE, però i metodi e gli approcci devono diventare uno strumento e non una finalità. Ricordare uno o due giorni all’anno scatena addirittura reazioni di avversità, lasciando sulla superficie una memoria effimera che non genera confronto, né invita alla riflessione e non contribuisce a costruire tra le persone relazioni etiche e identitarie profonde.
Per queste ragioni, come artisti di teatro, crediamo sia indispensabile tracciare una linea tra passato, presente e futuro; ecco da dove nasce il senso del viaggio: un viaggio che vuole essere un pellegrinaggio laico in cui la dimensione fisica e quella spirituale si fondono; un viaggio fatto di strada e di fatica ma al tempo stesso di relazioni concrete e di rapporti umani vitali con l’ambiente circostante. Percorrere le tappe della deportazione, fermarsi, incontrare i giovani, significa riappropriarci di una storia che ci appartiene e che non possiamo permetterci di iconizzare.
Un’idea che cerca di ridare significato al “Tempo dell’Uomo” attraverso un percorso in cui la lentezza diventa un valore, perché solo lentamente possiamo ricuperare il tempo della cura di noi stessi e degli altri; procedendo, passo dopo passo, possiamo aggregare e costruire una comunità itinerante che condivide e partecipa; solo lentamente, in punta di piedi, crediamo si debba tornare ai luoghi della disumanizzazione, perché ci vogliono forza, rispetto e umiltà per affrontarli e viverli; solo con pazienza possiamo conquistare una forza nuova capace di creare conoscenza…
La nostra è un’idea che parte dal teatro e, al teatro, attraverso il viaggio vuole tornare; perché crediamo che il teatro per sua natura e origine possa contribuire a restituire una memoria e a ricostituire una comunità, e siamo convinti che in questo percorso possa svolgere un ruolo importante di presidio del dissenso e di lotta all’omologazione
Camminare insieme
L’idea di un cammino verso Auschwitz è lodevole e va sostenuta. “Passeggiare insieme è il modo per me più naturale di tenere i rapporti con gli amici”, si confidava così Primo Levi, parlando con Bianca Guidetti Serra.
Scorrendo il progetto di Officina, residenza teatrale della Compagnia Il Melarancio, affiorano molti ricordi, non soltanto l’importanza che Levi attribuiva al camminare insieme. Viene subito in mente Campo di sangue (Mondadori, 2003), libro d’esordio di Eraldo Affinati. “Ma qual è il vero obiettivo?”, si chiedeva il giovane scrittore prima di cimentarsi con un’impresa emozionante, ma anche difficile da gestire: “Perché Auschwitz? Solo perché mia madre ha rischiato di finirci? Oppure perché, da un paio di anni, leggo quasi soltanto libri sui campi di concentramento? Perché ho letto Levi, Antelme, Borowski, Semprun, Todorov, Herling, Sereny, Solzenycin, Bauman, Bettelheim, Marrus, Sinjavskij, Salamov, Améry, Wiesel e tutti gli altri?” Nel tentativo di rispondere a queste domande, personali e collettive, Eraldo Affinati ha intrapreso un viaggio di conoscenza e di coscienza verso l’incommensurabilità del Male. Compiuto per gran parte a piedi, il percorso tra Venezia e Auschwitz rappresentava anche l’itinerario simbolico di una cultura romantica che dalle suggestioni di una laguna di acque, di marmi e di merletti precipita nel buco nero dei fili spinati e delle baracche.
Lo stesso carattere simbolico mi sembra assumere il progetto di Gimmi Basilotta, che intendo seguire con particolare attenzione: esso si propone di unire insieme non la laguna del romanticismo, ma le Alpi del Mare, che fecero da sfondo alla vicenda degli ebrei di S. Martin Vésubie, fra 8 settembre e 21 novembre 1943, data della loro deportazione da Borgo S. Dalmazzo per Auschwitz.
Quando nel 1981 raccontai la loro vicenda nel mio libro Nella notte straniera non avrei immaginato che molto tempo dopo, sulle orme di quella “strana gente”, proveniente da mezza Europa, si sarebbero messi in marcia alcuni giovani – e meno giovani – coordinati da un’associazione di saluzzesi, che, ogni anno, la prima domenica di settembre, per ricordare l’evento risalgono al Colle Ciriegia e al Colle Finestra; e tanto meno avrei immaginato che sarebbe nato un giorno un progetto molto più impegnativo come questo di Gimmi Basilotta.
Un progetto che mi sembra avere, come già aveva avuto, sul piano letterario, il racconto di Affinati, una forte valenza spirituale e simbolica: si tratta di un viaggio dentro l’Europa, ma anche di un viaggio dentro se stessi, per capire la storia e per capire il ruolo che ciascuno di noi deve avere se vuole conservare memoria del passato senza inciampare nei trabocchetti della retorica.
Alberto Cavaglion
Il viaggio
Il viaggio, di 1913 chilometri, attraversa l’Italia, l’Austria, la Repubblica Ceca e la Polonia, ha una durata di 76 giorni e inizierà il 15 febbraio 2011, ricorrenza della partenza da Borgo San Dalmazzo degli internati, per terminare il 1° maggio 2011, Yom Ha Shoah, giorno della memoria in Israele.
[…] Con l’8 settembre e il disfacimento della IV Armata era venuto meno ogni controllo italiano sui dipartimenti della Francia meridionale occupati dall’esercito fascista nel novembre 1942. La zona italiana, specialmente il nizzardo e le Alpi marittime, aveva accolto tra il 1942 e il 1943, con un sistema chiamato “residence forcée” che assicurava una complessiva anche se precaria sicurezza, diverse migliaia di ebrei non francesi rifugiati nella Francia meridionale e braccati dalla feroce persecuzione nazista. Una di queste località di residenza era St.-Martin Vésubie, che finì per accogliere oltre mille ebrei di varie nazionalità vissuti in relativa tranquillità fino alla data dell’armistizio. La val Vésubie è collegata al cuneese da due valichi alpini: il colle delle Finestre e il colle Ciriegia, a oltre 2400 metri di altitudine. Scalando questi valichi, a partire dal 13 settembre, un migliaio di ebrei di St.-Martin cercò la salvezza, nella convinzione che l’armistizio facesse dell’Italia un territorio sicuro. Interi gruppi familiari, per un totale stimato di mille persone, raggiunsero così la valle Gesso alla ricerca di rifugio nei paesi di Entraque e Valdieri, vicini a Borgo San Dalmazzo. Il 12 settembre, con l’occupazione di Cuneo, i piccoli gruppi di antifascisti davano vita ai primi nuclei partigiani. Il 18 settembre un bando del comando SS intimava agli “stranieri” nel territorio a presentarsi al Comando Germanico in Borgo San Dalmazzo. 349 persone, soprattutto ebrei polacchi (119), francesi (56), tedeschi (42), ma anche ungheresi (34), austriaci (25), belgi (22), e alcuni rumeni, russi, greci, slovacchi, croati, lituani e turchi , furono registrati nel campo. Si presentarono spontaneamente o vennero rastrellati e rinchiusi nei locali della caserma. Gli altri fuggiaschi cercarono rifugio presso la popolazione delle valli e qualcuno si unì alle bande partigiane. Grande è la riconoscenza dei salvati e del mondo attento al coraggio dei Giusti tra le Nazioni, nei confronti di molte famiglie, soprattutto contadine, che hanno rischiato la propria vita per nasconderli. La medaglia di Giusto è stata assegnata a Don Raimondo Viale di Borgo San Dalmazzo, a Don Francesco Brondello, alle sorelle Anna e Marianna Giordana di Andonno, che hanno salvato numerosi ebrei.
Agli “stranieri” internati nel campo si aggiunsero per breve tempo gli ebrei di Cuneo, rastrellati e arrestati il 28 settembre ma poi rilasciati, senza alcuna spiegazione, il 9 novembre, pochi giorni prima della deportazione degli “stranieri”. Gli ebrei cuneesi cercarono rifugio sopratutto in montagna, mentre gli altri si videro condannati alla deportazione.
Primo convoglio Borgo San Dalmazzo – Drancy – Auschwitz
Per due mesi gli internati della caserma vissero in un regime di segregazione, tuttavia privo della violenza che caratterizzò gli altri lager nazisti. Il 21 novembre 1943, su ordine dell’Ufficio antiebraico della Gestapo di Nizza, 349 stranieri, malati inclusi, furono condotti alla stazione e di qui, ammassati su carri merci, trasportati al Lager di Drancy, via Savona e Nizza. A Drancy, il gruppo proveniente da St. Martin Vesubie rimase circa un mese e poi quasi tutti furono deportati ad Auschwitz il 7 dicembre con il convoglio n. 64. Fecero ritorno in 12
Dopo la deportazione del 21 novembre il Polizeihaftlager di Borgo San Dalmazzo, rimasto vuoto, cessò la sua attività per due settimane.
DICEMBRE 1943-FEBBRAIO 1944
Secondo convoglio Borgo San Dalmazzo – Fossoli – Auschwitz
Nel giro di poco più di due settimane dalla chiusura del campo a gestione tedesca, la Questura di Cuneo, in applicazione dell’ordinanza di polizia n. 5 della RSI, destinò la caserma al concentramento degli ebrei della provincia; nel campo, sorvegliato e diretto da italiani furono internati circa 30 ebrei, i più deboli – anziani e malati -, rimasti nelle proprie case o nei nascondigli; alcuni, provenienti soprattutto da Saluzzo, erano muniti dell’ambiguo lasciapassare di “discriminato”. Per questioni demografiche e storiche, dopo il 1930, il numero degli ebrei nelle città di Cuneo, Mondovì, Fossano si era fatto ormai piuttosto esiguo, mentre a Saluzzo si trovava un gruppo importante di sfollati da Torino. Dopo il 2 dicembre, gli uomini furono assegnati al lavoro presso l’organizzazione tedesca Todt, all’aeroporto della Grangia, mentre donne e bambini furono condotti al campo di Borgo San Dalmazzo.
Gli internamenti si susseguirono a ondate; le prime donne furono rinchiuse già il 4 dicembre, ma la maggior parte arrivò verso la fine di gennaio.
Al 31 gennaio1943 gli internati destinati al viaggio a Fossoli erano:
1. Adele Regina Segre, casalinga di Moretta, nata il 24 luglio 1886, internata a Borgo San Dalmazzo il 4 dicembre 1943 (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
2. Anetta Levi, casalinga di Saluzzo, nata il 2 febbraio 1888, internata a Borgo San Dalmazzo il 4 dicembre 1943 (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
3. Delfina Ortona, insegnante di Casale Monferrato, nata l’11 novembre 1904, internata a Borgo San Dalmazzo il 5 dicembre 1943 (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz il 26 febbraio 1944)
4. Ida Moscati ved. Loris, casalinga di Pesaro, nata il 29 novembre 1886, internata a Borgo San Dalmazzo il 5 dicembre 1943 (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
5. Spartaco Segre, ingegnere di Torino, nato il 15 settembre 1902, internato a Borgo San Dalmazzo il 7 dicembre 1943 (rimarrà a Fossoli e sarà poi deportato a Buchenwald e sopravviverà)
6. Lelio Levi, orologiaio di Busca, nato il 7 agosto 1921, internato a Borgo San Dalmazzo il 23 dicembre 1943, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz dopo il 20 aprile 1944)
7. Ugo Jaffe, ragioniere di Casale Monferrato, nato il 31 maggio 1910, internato a Borgo San Dalmazzo il 7 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz il 5 agosto 1944)
8. Guglielmo Valabrega, rappresentante di Roma, nato il 4 ottobre 1888, internato a Borgo San Dalmazzo il 9 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz nel mese di giugno 1944)
9. Giuseppina Valabrega, casalinga di Casale d’Alba, nata il 28 luglio 1887, internata a Borgo San Dalmazzo il 9 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
10. Franco Valabrega, studente di Torino, nato il 3 dicembre 1924, internato a Borgo San Dalmazzo il 9 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà a Buchenwald il 7 febbraio 1945)
11. Walter Greve, industriale di Strasburgo, nato il 9 marzo 1883, internato a Borgo San Dalmazzo il 22 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz il 26 febbraio 1944)
12. Evelyn Greve, scolara di Strasburgo, nata il 1° luglio 1930, internato a Borgo San Dalmazzo il 22 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
13. Carmen Segre in Lattes, agiata di Boves, nata l’11 dicembre 1894, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz il 26 febbraio 1944)
14. Eleonora Levi, casalinga di Saluzzo, nata il 28 novembre 1913, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
15. Gemma Levi, casalinga di Saluzzo, nata il 3 luglio 1879, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz il 26 febbraio 1944)
16. Regina Levi, casalinga di Saluzzo, nata il 23 settembre1910, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
17. Elia Levi, impiegato di Saluzzo, nato il 7 ottobre 1910, , internato a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
18. Alda Levi, casalinga di Casale Monferrato, nata il 3 gennaio 1908, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
19. Levi Angela, casalinga di Casale Monferrato, nata il 5 luglio 1910, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
20. Lattes Decima, casalinga di Saluzzo, nata il 5 gennaio1887, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
21. Anna Lattes ved. Segre, casalinga di Saluzzo, nata il 4 luglio 1880, internata a Borgo San Dalmazzo il 24 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz il 26 febbraio 1944)
22. Pia Clelia Levi, casalinga di Saluzzo, nata il 17 maggio 1899 internata a Borgo San Dalmazzo il 26 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
23. Amelia Levi, casalinga di Busca, nata il 30 maggio 1927, internata a Borgo San Dalmazzo il 26 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz in data ignota)
24. Beniamina Levi, casalinga – Mondovì, nata il 20 febbraio 1919, internata a Borgo San Dalmazzo il 26 gennaio 1944, (partirà da Fossoli con il convoglio 8 e morirà ad Auschwitz il 27 gennaio 1945, poco dopo la liberazione del campo)
25. Riccardo Hess, di Seibarsbach, nato il 2 maggio 1911, internato a Borgo San Dalmazzo il 28 gennaio 1944 (rimarrà a Fossoli e sarà poi deportato a Buchenwald e sopravviverà)
26. Alessandro Schiffer, manovale di Oking, nato il 29 novembre 1897, internato a Borgo San Dalmazzo il 6 febbraio 1944 (rimarrà a Fossoli, il 1° agosto del 1944 verrà trasferito a Gries e di lì il 24 ottobre sarà deportato a Auschwitz, dove morirà in data ignota)
Il fonogramma n. 01083, firmato dal questore Finucci e datato 15 febbraio decretava l’invio degli internati a Fossoli e il giorno successivo il commissario prefettizio trasmise l’elenco di 18 donne e 8 uomini riportato sopra.
Il 22 febbraio il convoglio che partì da Fossoli (trasporto n. 8), composto da 12 vagoni merci, carichi di 650 persone, portava, oltre a Primo Levi e all’amico medico Leonardo De Benedetti, anche 23 dei 26 internati di Borgo. Arrivarono a destinazione tre giorni dopo, il treno siglato RSHA, si fermò nella cittadina di Auschwitz, accanto alla banchina detta la “Judenrampe”. Quasi la totalità delle persone fu mandata con i camion alle camere a gas. Gli altri 120 furono tatuati con il numero di prigioniero e inviati a piedi al campo. Da quel trasporto tornarono vivi solo 24 deportati italiani, tra loro Primo Levi.
Dei 23 ebrei arrivati da Borgo, con quel convoglio, 5 furono immediatamente mandati alle camere a gas e gli altri 18 perirono prima della liberazione del lager. […]
Redazione, Da Borgo San Dalmazzo ad Auschwitz a piedi per non dimenticare, Città di Bolzano, 2010/2011

“Gli ebrei stranieri che non avevano un permesso di soggiorno permanente in Francia e quelli che erano arrivati nella zona occupata dagli italiani furono inviati in resistenze coatte. Gli ebrei abitavano nelle case e nelle ville del paese, dovevano presentarsi due volte al giorno al commissariato di polizia italiano e non avevano il diritto di abbandonare il paese né di allontanarsene. A quell’epoca a san Martin c’erano circa trecento famiglie di ebrei…” (B. Halpern).
L’8 settembre 1943 giunse notizia che i soldati italiani erano sul punto di tornare in Italia: “noi pensammo che gli americani avrebbero occupato l’Italia e i tedeschi la parte della Francia che gli italiani lasciavano libera… la catena delle Alpi sarebbe stata la linea di guerra tra i tedeschi e gli americani. Noi saremmo partiti con gli italiani” (Alfred Feldmann). Restare a San Martin – scrive Halpern – “sarebbe stato un suicidio, ma dove andare? La maggioranza decise di seguire i soldati italiani”. Tra l’8 e il 13 settembre circa milleduecento ebrei civili e di ogni età e ceto sociale ripresero la fuga al seguito delle truppe della VI armata. A piedi, attraverso due differenti vie – Colle delle Finestre (m. 2471) e Colle Ciriegia (m. 2453) – i profughi arrivarono a Entracque e Valdieri, dove vennero alloggiati in caserme e con mezzi di fortuna. Ricorda Bruno Segre: “All’alba, metà dei profughi si trovava a Valdieri, l’altra metà ad Entracque. Ma quella notte i tedeschi non arrivarono e, poiché non apparvero neppure nei giorni seguenti, subentrò una certa fiducia… Il peggio si verificò poco dopo: il sesto giorno i tedeschi arrivarono, riuscendo a catturare i rifugiati di Entracque e molti tra quelli di Valdieri”. A questo punto la storia prese strade diverse. Chi si consegnò o fu catturato dai tedeschi (349 persone), venne internato nel campo di concentramento di Borgo san Dalmazzo e di qui, il 21 novembre 1943, deportato ad Auschwitz. Gli altri ebrei, nascosti principalmente in Valle Gesso, Valle Vermenagna, valle Stura furono aiutati da Don Viale e da una fitta rete di collaboratori da lui messa in piedi (da “Nella notte straniera” di Alberto Cavaglion).
“C’erano uomini e donne dai cappelli bianchi, bambini in tenera età, gente nella più gran parte ridotta in miseria… provenivano da tutte le nazioni, Polonia, Germania, Cecoslovacchia, Francia… abituati in tempi normali a una vita agiata… ora ridotti a fuggire come selvaggina inseguita dai cani e dai cacciatori su per i monti”.
Redazione, Gli ebrei di San Martin Vésubie, Comune di Cuneo

La storia di una bambina in fuga durante la seconda Guerra Mondiale: da Berlino al Belgio alla Francia, sino a valicare a piedi le Alpi e trovare rifugio in una cava di pietra nelle valli cuneesi. Chaya H. Roth era giovanissima. A distanza di settant’anni da quegli avvenimenti ha raccontato la sua vicenda e le sue esperienze in un libro che è in parte storia orale, in parte esplorazione psicologica.
Il suo lavoro indaga il problema della psicologia e della trasmissione della memoria tra le generazioni: un argomento molto sentito in Italia, il quale tuttavia non viene supportato in maniera diffusa dalla ricerca accademica. IL ricordo dei tragici eventi del 1943-1945 si lega in questo libro ad una più ampia riflessione sul valore del ricordo e sui modi attraverso i quali le generazioni future dovranno fare tesoro dell’esperienza di chi li ha preceduti.
L’autrice Chaya H. Roth insegna al dipartimento di psichiatria dell’Università dell’Illinois, a Chicago. Nata a Berlino, Chaya fuggì con la madre e la sorella nel 1939. La loro odissea ebbe termine nel 1944. “The Fate of Holocaust Memories”, del 2008, è il suo lavoro più recente.
In Italia il libro (La Shoah, memoria e dialoghi familiari, Fusta Editore 2014) è stato pubblicato grazie alla traduzione ed alla collaborazione degli studenti del liceo linguistico “Soleri-Bertoni” di Saluzzo, incarnando l’ideale della storia maestra di vita.
Grazie al loro impegno le classi III^ A e B, nell’anno scolastico 2013/2014 hanno ricevuto il primo premio del concorso “I giovani incontrano la Shoah”, consegnato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e sono stati ospiti di Concita de Gregorio nella trasmissione “Pane quotidiano” della Rai. […]
W.A., “La Shoah” di Chaya H. Roth tradotta dagli studenti del liceo “Soleri-Bertoni” di Saluzzo al Salone del libro di Torino, targatocn.it, 18 maggio 2015

[…] Quando il 24 aprile 1944 le SS bussano alla Tapparelli, sono sei gli ospiti ebrei della casa di riposo. I nazisti trascinano, per incarcerarli nelle Carceri Nuove di Torino, i coniugi Segre assieme a Emanuele Segre e Marco Levi. Riesce a salvarsi, Vittoria Segre, tenuta nascosta dal coraggio di suor Brigida. Anche Anna Segre Debenedetti non viene prelevata: morirà il giorno dopo la cattura dei quattro.
Grazie all’impegno dell’associazione Giorgio Biandrata, del liceo Soleri-Bertoni – dei suoi professori e della dirigenza scolastica guidata da Alessandra Tugnoli – così come del Comune, questi nomi, queste persone, le loro storie rientrano nella memoria collettiva della città. La responsabilità di restituire dignità a un passato di tragedia viene trasmesso alle nuove generazioni, con il coinvolgimento in prima persona degli studenti. Per questo Saluzzo è impegnata da diversi anni a creare nel tessuto cittadino una coscienza condivisa rispetto alla tragedia che segnò la comunità ebraica e la società intera. Tra i progetti portati avanti dall’associazione Giorgio Biandrata, ricordiamo la traduzione in italiano, da parte degli studenti del Liceo Linguistico, di un libro scritto da Chaya Horowitz Roth, sopravvissuta con la sorella Gitta nella fuga di mille ebrei di St. Martin Vésubie e profuga a Valdieri nel settembre del 1943. Il libro si intitola “The Fate of Holocaust”.
Altra iniziativa, l’allestimento di una pièce teatrale intitolata “Lettera da Varsavia” sul tema della Memoria: la traduzione teatrale, realizzata da Valerio Dell’Anna, del libro di Kolitz Zvi “Jossl Rakover si rivolge a Dio” con protagonisti gli studenti di alcune classi del liceo di Saluzzo.
Daniel Reichel, Qui Torino – La Memoria degli ebrei di Saluzzo, moked, 4 maggio 2014

Tra l’8 ed il 13 settembre 1943, circa 800 ebrei scesero in valle Gesso, a San Giacomo di Entracque ed alle Terme di Valdieri, in seguito alla dissoluzione dei reparti della IV Armata del Regio Esercito Italiano. Quei profughi provenivano dalle più diverse località dell’Europa, che avevano negli anni trascorsi via via dovuto abbandonare, alla ricerca di un riparo dalla persecuzione antisemita che il nazismo dilagante portava con sé. Erano polacchi, tedeschi, ungheresi, austriaci, slovacchi, rumeni, russi, greci, turchi, croati, belgi, francesi. Il loro ultimo rifugio era stata la zona di occupazione italiana in Francia, poiché l’esercito italiano non aveva mai consegnato gli ebrei delle aree di sua competenza ai tedeschi. L’armistizio dell’8 settembre tra l’Italia e gli Alleati aveva colto la maggior parte di quei profughi in domicilio coatto a St. Martin Vésubie. Ora che l’esercito italiano abbandonava le postazioni sulla linea di confine, essi lo seguivano pensando di trovare in Italia un luogo protetto dalle persecuzioni razziali. Il grosso dei profughi lascia Saint Martin non appena si diffonde la notizia dell’armistizio; altri, in gruppi sparsi, nei giorni immediatamente successivi. Il 17 settembre i tedeschi arrivano a Saint Martin e il 22 arrestano quasi tutti gli ebrei rimasti in paese: per lo più bambini molto piccoli, le loro madri, malati che non avrebbero potuto affrontare il cammino in alta montagna. Ma numerosi erano stati gli anziani ed i bambini, alcuni di pochi mesi, che con i loro familiari avevano affrontato la lunga traversata, per lo più male equipaggiati e con risorse fisiche limitate, giungendo stremati ad Entracque ed a Valdieri, dove erano stati ospitati in locali di fortuna dalla popolazione locale.
Il 12 settembre Cuneo è occupata dai tedeschi. Il 18 settembre un bando emanato dal comando tedesco ordina l’arresto immediato di tutti gli stranieri che si trovino nella zona: 349 ebrei sono così arrestati e rinchiusi nella ex caserma degli alpini di Borgo San Dalmazzo, trasformata in campo di concentramento e gestita dalle autorità locali subordinate ai tedeschi. Altri ebrei furono arrestati nei giorni successivi. Tra questi, i cuneesi, poi rilasciati tutti tra il 28 ottobre ed il 9 novembre.
Il 21 novembre, 328 ebrei stranieri furono deportati dal campo e dall’ospedale dove alcuni di loro erano stati ricoverati, ad Auschwitz. Di soli 18 di essi abbiamo la certezza che siano sopravvissuti.
Redazione, L’illusione della terra promessa, Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo

Dei circa ottocento ebrei stranieri giunti in Valle Gesso attraverso le Alpi, si salvarono dall’internamento nel campo di Borgo San Dalmazzo prima di tutto coloro che avevano trovato al termine della lunga traversata ancora le energie fisiche e psicologiche necessarie a proseguire immediatamente il cammino, prima che la provincia di Cuneo fosse occupata dai tedeschi. Molti di loro raggiunsero direttamente la Svizzera o, attraverso Genova, Firenze e di qui la zona liberata dall’avanzata Alleata. Si salvarono anche molti di coloro che, anziché rassegnarsi all’arresto, si erano nascosti nei boschi sulle alture che separano la valle Gesso dalla Stura , dove avevano trovato l’aiuto coraggioso e disinteressato della popolazione locale fino alla Liberazione.
Tetti Baut, Festiona, Bergemolo, Bergemoletto, Demonte, Rialpo, Moiola, Gorrè, Beguda, St. Antonio di Aradolo, Aradolo, San Michele di Cervasca, Andonno, sono alcune delle località dove per giorni, mesi, o addirittura fino alla Liberazione, i fuggiaschi trovarono rifugio. Molte di queste località erano, nello stesso periodo, frequentate da formazioni partigiane, alle cui vicende l’esistenza dei profughi fu legata, condividendone spesso sedi, rischi, spostamenti, ma anche ricevendone cibo, protezione, sostegno. Alcuni ebrei non esitarono a partecipare attivamente alla Resistenza delle bande che avevano incontrato nei luoghi di rifugio.
La semplicità rustica che ancora oggi caratterizza questi luoghi, ci consente di immaginare quale fosse, 60 anni fa, la povertà di vita di coloro che, allora, non esitarono a dividere il poco che avevano con gli stranieri in pericolo. Anima ed organizzatore dell’aiuto ai fuggiaschi rimasti in valle Gesso e nelle vicine valli Stura e Vermenagna, il cui numero è documentabile intorno al centinaio, fu don Raimondo Viale, parroco di Borgo San Dalmazzo il quale organizzò i rifugi dei profughi, mantenendo continuamente i contatti con loro e raccogliendo e distribuendo, direttamente o attraverso sacerdoti e laici fidati, gli aiuti economici che gli giungevano dalla Chiesa cattolica attraverso la curia di Genova. A don Viale faceva capo anche l’organizzazione ebraico-cristiana che cercava coraggiosamente di trasferire gruppi di ebrei dalla montagna, dove le condizioni di vita erano più difficili, verso Firenze. Nonostante questa fitta rete di aiuti, dieci ebrei stranieri nascosti in queste valli furono uccisi e tre arrestati e deportati.
Redazione, I luoghi della salvezza tra guerra e Resistenza, Giustizia e Libertà in Valle Maira, Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo

Gloria Arbib e Giorgio Secchi, nella loro pubblicazione Italiani insieme agli altri. Ebrei nella Resistenza in Piemonte 1943-1945 hanno identificato 174 nomi (153 uomini e 21 donne) di ebrei che hanno combattuto nella Resistenza piemontese. Di questi 44 vennero arrestati, 37 persero la vita in combattimento, 16 furono deportati nei campi di sterminio (solo Primo Levi e Luciana Nissim sopravvissero). Anche se la maggior parte degli ebrei piemontesi, probabilmente per la loro estrazione borghese, militò nelle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà ed era legata al Partito d’Azione, in molti casi la scelta della formazione a cui aggregarsi non fu dettata dal suo orientamento politico ma dalla presenza sul territorio. 70° Resistenza

ALBERTO CAVAGLION, Nella notte straniera. Gli ebrei di S. Martin e il campo di Borgo S. Dalmazzo. 8 settembre-21 novembre 1943, L’Arciere, Cuneo 1981, pp. 180
Nel quadro di un crescente interesse storico, rivolto a scoprire i con tenuti ed i valori di situazioni vissute, ma non ancora dimenticate, un posto privilegiato viene assegnato, in questi ultimi anni alla deportazione ebraica.
Gli studi in merito (con saggi, articoli, convegni, tavole rotonde che vanno moltiplicandosi) dimostrano che il tentativo di un avvicinamento significativo al problema è estremamente interessante, ma è, pure molto difficile.
Purtroppo in questi studi non sempre viene data sufficiente importanza ad aspetti concreti del fenomeno, che possono sembrare marginali ma che, ad un occhio più attento, risultano importanti ed illuminanti.
Infatti ogni contributo, anche se limitato ad ambiti circoscritti, poiché frutto di indagini pazienti ed accurate, può assicurare un utile sviluppo agli studi sulla questione ebraica, così da giungere, infine, ad una ricostruzione, seria ed intessuta di nomi, di date, di fatti rigorosamente accertati.
Alberto Cavaglion si inserisce in questo discorso e, con un linguaggio essenziale e preciso, che rivela una viva passione per l’argomento, ci offre un lavoro interessante, relativo alla situazione degli ebrei rifugiatisi nella Francia meridionale dopo l’armistizio del 1940.
È una passione che – come riferisce nella prefazione A. Galante Garrone – è unita ad un «ineccepibile rigore storiografico», che si è espresso nella consultazione di fonti scritte ed orali (registri, elenchi, diari, lettere e testimonianze). Il lavoto non è stato facile, soprattutto per la difficoltà legata al reperimento delle fonti stesse ed al vaglio delle testimonianze dei sopravvissuti, i quali hanno aiutato a ricostruire i fatti in base a ricordi ed hanno recuperato una dimensione umana a tutta la vicenza.
Frutto di questa paziente indagine è questo libro, il quale ricostruisce la lunga e dolorosa vicenda, per troppi conclusasi miseramente, che condusse un gruppo di ebrei nei campi di eliminazione. S. Martin Vésubie, Borgo S. Dalmazzo – Auschwitz: sono queste le tappe attraverso le quali siamo condotti dall’autore e che ci permettono di cogliere la situazione degli ebrei e l’atteggiamento degli italiani verso di loro.
Assistiamo così al vasto afflusso di profughi ebrei nella Francia meridionale dopo l’armistizio italo-francese, all’applicazione di misure severe da parte del governo di Vichy, alla protezione accordata dalle autorità italiane ed alle iniziative concrete intraprese dal banchiere Angelo Donati, alla «résidence forcée» di S. Martin Vésubie ed alla venuta in Italia (a Borgo S. Dalmazzo, soprattutto), di quasi tutti gli ebrei là residenti. Con piacere si constata la coesistenza pacifica tra italiani ed ebrei e l’estrema tolleranza e comprensione delle autorità italiane, che si esprimono in richieste alimentari ed in permessi speciali rilasciati ai profughi.
Tuttavia la deportazione del 21 novembre 1943 ci fa assistere al cadere di numerose speranze, soprattutto per coloro che partirono per Auschwitz, ma ci propone pure l’impegno di chi riuscì a sfuggire alla deportazione e trovò la salvezza nelle vallate del Cuneese. Molti di essi, infatti, parteciparono a episodi significativi della Resistenza: furono scelte isolate ed individuali, ma alcune volte portarono alla fucilazione ed alla morte.
Sono pagine scarne che hanno, tuttavia, la sofferta drammaticità della vita vissuta e contribuiscono a fare luce su un aspetto della nostra storia recente, avendo così un indubbio valore di documento.
Sono pagine che testimoniano la solidarietà italiana verso gli ebrei: solidarietà che spesso si fa resistenza anche nei confronti delle disposizioni tedesche e francesi, pur non potendo annullarle.
Ma il libro è bello anche per il fatto che non descrive la vicenda di persone singole, ma di una intera comunità, di parte di un popolo coinvolta in situazioni, non volute, di guerra e di odio.
In fondo è la storia ed è l’esperienza di tante altre persone, che desiderano ricordare. E nel ricordo di tanti episodi negativi, chiedono di non trascurare quegli aspetti, anche se pochi, che possono fare sperare nella bontà, mai vinta, dell’uomo.
Maria Rosa Zamboni, Nella notte straniera in La Resistenza Bresciana, rassegna di studi e di documenti, n° 13, Aprile 1982, Istituto Storico della Resistenza Bresciana