Giaime Pintor

I fratelli Pintor – Fonte: Calabri, Art. cit. infra

[…] Malgrado la pubblicazione delle pagine del diario e delle lettere avesse comunque fatto emergere la specificità e la soggettività del percorso individuale e del processo evolutivo intellettuale di Giaime Pintor, svolto all’interno della vischiosità del ventennio fascista, la sua pubblicazione non portò quindi a grandi mutamenti interpretativi. Tuttavia, proprio in seguito a tale lettura, un livoroso intervento di Fortini cercò di abbattere il monumento che era stato costruito scrivendo con qualche acredine d’un Giaime per natura borghese che se fosse vissuto sarebbe diventato un «commis d’état». Fortini partiva da un assunto corretto, ossia la difficoltà di individuare una cesura netta nella vita di Giaime, che marcasse un antifascismo culturale e familiare e non solo attivistico, ma cadeva nel rimproverargli la sua appartenenza a una determinata classe sociale, ingabbiando in un pregiudizio ideologico non solo una condizione umana e intellettuale ma anche un problema storiografico, che andavano invece considerati alla luce delle trasformazioni e dei bradisismi tipici della vita di un ragazzo nato nel 1919. E proprio una più acuta comprensione del fenomeno “giovani intellettuali nati sotto il fascismo” era quanto ci si sarebbe aspettati da Fortini, quasi coetaneo di Giaime, ma che non arrivò.
La stroncatura, in ogni caso, sembrò non scalfire il monumento Pintor che, molti anni più tardi, sarà messo di nuovo sotto il fuoco dal nostro misero “revisionismo”. Questa volta il caso venne costruito da Mirella Serri, già curatrice nel 1979 del Doppio diario e che nel 2002, in tempi politici totalmente mutati, ne Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista (Marsilio, 2002), trascurando di citare dalla ricca documentazione inedita conservata presso l’Archivio centrale dello Stato, ‘rivelava’ con falso scoop montato ad arte dalla stampa la già ben nota partecipazione di Giaime al convegno degli scrittori tedeschi a Weimar, nell’ottobre 1941, e la recensione fatta (e respinta) per la rivista Primato di Bottai, imputandogli di avere osannato il nazismo e Goebbels. In questa maniera, finalizzando l’intera ricostruzione biografica di Giaime all’«episodio» di Weimar, già noto attraverso gli scritti di Giaime stesso, e dal 1976 raccontato con dovizia di citazioni archivistiche e più seria metodologia storica da Rosellina Mariani, Serri ripercorreva senza originalità accuse già mosse proprio dalla critica di sinistra sin da molti anni prima della pubblicazione di Doppio diario arrivando addirittura ad imputare alla storiografia di sinistra post bellica di avere volutamente occultato la vicenda per anticipare un passaggio all’antifascismo di Pintor che, secondo lei, accadde invece solo in extremis. Storiografia di sinistra che risulta essere un concetto confuso per l’autrice se, proprio da un ambito culturale “di sinistra”, come già detto, veniva sin dal 1960 liquidata da Zangrandi e da Bianca Ceva, non senza acredine, la figura di Giaime come «individualista», «aristocratica » e, proprio per la sua presenza al convegno letterario nazista del 1942, addirittura «ambigua».
Infine, indagare la questione della presenza di Pintor all’iniziativa nazista allo scopo di indicare, ancora una volta, la data esatta del suo passaggio all’antifascismo appare del tutto fuorviante. Così facendo infatti Serri resta ancorata a una valutazione ideologica e moralistica del percorso tormentato e complesso compiuto dai giovani della «generazione del littorio» per liberarsi dalle influenze inevitabili della cultura e della società sotto cui sono nati e, soprattutto, con l’idea del «breve viaggio» non risolve la dicotomia fascismo- antifascismo. Il suo lavoro, che poteva avere il merito di liquidare l’immagine agiografica imposta dalla letteratura resistenziale, finisce in tal modo per proporre nuovamente una visione riduttiva del personaggio Pintor, imprigionata questa volta nel fascismo, secondo una nuova vulgata che ha tentato di sostituire la precedente che lo appiattiva invece sull’antifascismo. Ancora una volta sfuggiva la complessità del percorso culturale ed intellettuale di Giaime dentro il fascismo e soprattutto il quadro complessivo nel quale si trovarono a operare i giovani della generazione del littorio.
Un nuovo attacco alla figura di Giaime Pintor è arrivato nel 2007 da Mauro Canali che, sacrificando ancora una volta l’impegno documentario ad una tesi precostituita, rendendo nota l’esistenza di quattro documenti desecretati appartenenti ai Servizi segreti inglesi e relativi alle ultime ore di Giaime Pintor, gioca al “taglia e incolla” con carte d’archivio che di fatto non aggiungono niente se non alcuni particolari di colore a una vicenda ben nota, e presenta come scoop il rapporto di Giaime con i Servizi segreti britannici, un rapporto, secondo lui, volutamente taciuto da Luigi Pintor e dalla storiografia di sinistra per «consentire al Pci di appropriarsi di fatto dell’eredità politica di Giaime» (Canali 2007, p. 31). Se fa sorridere, pensando alla situazione del Sud nel dicembre 1943, il fatto di interpretare la scelta di Giaime di appoggiarsi ai servizi segreti inglesi come una scelta di campo politico, ancora una volta nel saggio di Canali si fa tabula rasa della ricca storiografia già edita sull’argomento. Sarebbe comunque stato sufficiente a Canali rileggere il volume Il colpo di Stato del 25 luglio, curato nel ‘74 da Franco Antonicelli dove sono pubblicati, oltre al noto saggio di Giaime che dà il titolo al libretto, anche i resoconti della spedizione in cui egli trovò la morte, scritti all’indomani della tragedia da Paolo Filippini (nome da partigiano di Paolo Buffa) e da Ciotti (non identificabile), suoi compagni nella fatale spedizione, oltre a quello redatto dal capitano Silvester (il tenente colonnello Massimo Salvadori, esule politico rientrato al seguito della Special Operations Executive, al cui servizio si era posto Giaime dopo l’arrivo nella Napoli appena liberata), incaricato di scortare il gruppo di partigiani fino al territorio difeso dagli Alleati.
Precedentemente alla mia biografia, edita nel 2007, Il costante piacere di vivere, in cui ho tentato di ricostruire le luci e le ombre della storia di questo ragazzo attraverso l’immenso materiale inedito conservato all’Archivio centrale di Roma, oltre che presso amici e parenti, nel 2000 ho curato per Einaudi l’epistolario di Pintor e Filomena d’Amico, ricostruito grazie alla disponibilità e alla generosità della stessa Filomena d’Amico. Proprio Filomena, lasciandomi una testimonianza su Giaime, parlando delle loro lettere, aveva detto che sarebbe stato bene pubblicarle perché da esse «è il Giaime-uomo che ne emerge, con la freschezza della sua giovinezza» (Giaime Pintor e la sua generazione, p. 296). Concetto ribadito nell’introduzione all’epistolario da Luisa Mangoni, la quale sottolinea come l’«anormalità normale» di commenti a film visti e libri letti, intrecciata a notizie tragiche legate alla guerra, aiuti a «sottrarre la figura di Pintor all’unicità in cui era stata finora situata» e la ricollochi «in una situazione e in un ambiente», consentendo anche «di individuare gli aspetti peculiari che la contraddistinguono» (Mangoni 2000, p. x). Perché questo è stato il nocciolo del ‘problema Pintor’ ossia che nello studio della sua generazione il vero problema storiografico consiste nell’affrontare la vita di chi aveva tre anni quando il fascismo prese il potere e dunque visse sempre sotto il regime, pur all’interno di famiglie chiaramente antifasciste, per cui è necessario non perdere di vista mai lo sfondo, sia quello storico sia quello esistenziale. Di fronte a casi simili le vecchie categorie di fascismo/ antifascismo non bastano, e lo stesso Giaime aveva offerto acutamente una chiave di lettura del senso storico della propria generazione quando nel famoso passo del suo Diario sulle tre forme dell’antifascismo parla della propria generazione, per la quale «astenersi fin dalla nascita, è poco più che il suicidio» (Pintor G. 1978, p. 118), come la sola che ha ancora il gioco in mano. Giaime stesso colloca quindi se stesso e i suoi coetanei in una visione postfascista. Non si può valutare la vita di un uomo, nemmeno i suoi momenti più alti, se non li si connette a quelli, meno evidenti, che li precorrono e li preludono, al retroscena umano dal quale una persona emerge.
Capire una vita e un destino significa sempre ricostruirne le tappe, tanto più per questa generazione che visse in quei tempi micidiali. Tanto più per Giaime Pintor in cui scelta politica non significò mai rinuncia ad un impegno culturale o «abolire ed eliminare l’intellettuale per il politico» (Vittoria 1979, p. 916).
Solo dunque partendo da quel «bimbo fatto di sole, creaturina di magia» (Adelaide Dore a Francesca Pintor, da Vaglia, 23 giugno 1923, in Dore 2011, p. 119), che la penna formidabile della madre, Adelaide Dore, fa rivivere lettera dopo lettera, per approdare alla fitta trama di una vita presa «dagl’impegni militari, da quelli letterari, dalle relazioni, dai viaggi, dall’instancabile e pure sempre armonica attività» (Dore ai cugini sardi, 7 agosto 1944, in Dore 2011, p. 190) si potrà, se non comprendere, almeno intuire la complessità della breve esistenza di Giaime e dare un significato concreto a quel suo gesto estremo, a quel corpo dilaniato e innaturalmente «insensibile ad ogni richiamo, inerte nel giorno e nella notte sotto un cielo invernale» (Pintor L. 1991, pp. 36-37)
[…] Nel 1925, subito dopo la nascita di Luigi, la famiglia Pintor si trasferisce a Cagliari, dove Giuseppe era stato nominato capo ufficio presso il Provveditorato delle opere pubbliche. Nella «sperduta isola dei sardi», dove nascerà Antonietta, l’ultima sorella, i Pintor vivranno anni felici, anni in cui ancora «nessun infausto presagio gravava su questo paesaggio e sulla quiete domestica » (Pintor L. 1991, p. 19). A Cagliari Giaime frequenta lo stesso liceo-ginnasio Dettori in cui avevano studiato il padre e gli zii. Proprio durante gli anni del ginnasio, però, l’insofferenza fino ad allora avvertita verso qualsiasi obbligo scolastico o legame si trasforma in ostilità nei confronti dell’ambiente e della stessa età adolescenziale, nel «bisogno di crescere per sentirsi più libero» (Pintor G. 1978, p. 5). Nell’ottobre del 1935 ottiene quindi il sospirato permesso di trasferirsi a Roma, e continuare gli studi liceali ospite della casa di zio Fortunato dove, in un clima culturale aperto e al di sopra di ogni orientamento politico, cresce e sviluppa la propria personalità respirando un liberalismo sincero e frequentando gli amici intellettuali dello zio: da Giovanni Gentile a Gioacchino Volpe, da Giuseppe Lombardo Radice a Benedetto Croce e Arturo Marpicati, il segretario del Pnf.
È in questa realtà, e non in quella scolastica, che stringe alcune delle sue amicizie più importanti. In primo luogo Lucio Lombardo Radice e le sorelle Giuseppina e Laura, altri giovani di straordinaria intelligenza e, tramite loro, Antonio Amendola, Aldo e Ugo Natoli, Paolo Bufalini, Aldo Sanna. Sin da subito instaura nei confronti dell’attività di questo gruppo, poi definito dei «giovani comunisti romani», un rapporto di simpatia e di appoggio esterno pur non aderendo mai, formalmente, a nessuna loro iniziativa, preferendo per molto tempo il mestiere dell’homme de lettres.
Nel corso del 1936 la naturale avversione da sempre nutrita contro l’istituzione scolastica spinge Giaime a sostenere la licenza liceale con un anno di anticipo. Iscrittosi a Legge a soli 17 anni, dedica alle materie giuridiche un interesse appena generico e, pur sostenendo regolarmente gli esami, preferisce destinare il suo tempo allo studio del tedesco, della cui tradizione letteraria avverte la grandezza, e alla conoscenza della letteratura europea, raggiungendo una cultura impressionate per un giovane di quella età. Alla fine di dicembre 1937, durante le esercitazioni della milizia universitaria, Pintor conosce colui che in seguito diventerà il suo amico par excellence: Mischa Kamenetzky, un giovane russo con cui instaurerà un rapporto di totale identificazione, in un gioco di reciproca imitatio che avrà il suo segno più vistoso nell’uso da parte di entrambi dello pseudonimo Ugo Stille negli articoli pubblicati sulla rubrica “XX Secolo” del settimanale Oggi di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio. Ugo Stille sarà poi un caso unico di nom de plume: se sarà scelto da Pintor, dopo l’8 settembre, come nome di copertura durante l’attività di partigiano, verrà assunto, dopo la sua morte, da Kamenetzky, diventato nel 1946 corrispondente dall’America per il Corriere della sera, e poi direttore, non solo per firmare gli articoli ma anche anagraficamente, trasmettendolo come cognome ai figli. Per tutto il periodo universitario, pur pagando l’obbligato contributo al regime con la partecipazione alle esercitazioni militare, l’antifascismo di Pintor è soprattutto una questione di stile e di gusto individuali che si manifestano attraverso lo sguardo ironico o di malcelata insofferenza con i quali racconta nel diario e nelle lettere il suo coinvolgimento coatto nel clima di crescente militarizzazione del paese. A partire dall’aprile del 1938, inizia una lunga serie di collaborazioni come traduttore e saggista a numerose e importanti riviste letterarie. Giaime infatti continuò a lungo a preferire un antifascismo carsico all’azione politica diretta, rifiutando come autore e come critico di esaltare la retorica del regime e quindi lo stile e il costume che esso voleva imporre agli italiani, scegliendo di utilizzare gli spazi culturali concessi, sia sulle riviste sia durante le occasioni di incontro e di confronto.
Di qui l’ostilità nei confronti di autori premiati dalla grancassa del regime come D’Annunzio, Marinetti e Papini, e il consenso ad autori di vocazione opposta come Montale, Vittorini e Jahier che egli esprime nei saggi che pubblica, a partire dal aprile del 1939, sulle pagine di Oggi e poi di altre riviste, come Letteratura, Circoli, Campo di Marte, Primato. Contemporaneamente traduce Rilke, soprattutto, ma anche Podbielski, Hesse e Trakl, di cui stupiscono le scelte mai scontate dei testi e l’eccezionalità delle traduzioni, sicuramente poco rispettose dell’originale ma che evidenziano una fedeltà più profonda, quella al ritmo interno e alla dolcezza melica.
[…] Dopo il 25 luglio Giaime svolge un’importante opera di intermediario, già iniziata alcuni mesi prima, sia tra i diversi gruppi antifascisti, sia tra questi ultimi e la Principessa di Piemonte. All’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre, armato di mitra e di tricolore, è tra i giovani che incitano il popolo a combattere i tedeschi, a Porta San Paolo. Il 12 settembre tuttavia, ormai sfiduciato nelle azioni clandestine, decide di lasciare Roma e di tentare di raggiungere gli Alleati che operano nel Sud. Arriva dapprima a Brindisi, dove si era rifugiato il re, ma trovando nel Comando Supremo di Badoglio solo incertezza, decide di forzare i tempi e, nella speranza di ricevere un incarico dal servizio inglese per le operazioni speciali (SOE) o dallo stesso SIM, il servizio segreto del Regio esercito (la cui prima sezione era addetta ai contatti con i gruppi partigiani e a svolgere servizi d’informazione oltre le linee del fronte), si unisce a Edmondo Craveri e Alberto Tarchiani, giunti per parlare al maresciallo Badoglio del progetto appoggiato da Croce di formare a Napoli un corpo di volontari al comando del generale Giuseppe Pavone, e decide di partire con loro e con Max Salvadori per Napoli.
Come si legge nell’ultima lettera, Giaime sembra trovare nella Napoli liberata «un ambiente congeniale », «fra gli amici politici e i reduci dalla emigrazione » Alberto Cianca, Aldo Garosci, Dino Gentili e Alberto Tarchiani, e ottenuta l’immediata fiducia degli Alleati si impegna nella realizzazione del progetto dei Volontari della Libertà.
Ma gli accordi intercorsi tra il comando americano e Pavone si prestano a numerosi equivoci e ben presto l’organizzazione dei Gruppi Combattenti Italia naufraga travolta dal contrasto di fondo tra le aspettative dei giovani antifascisti, che mirano alla creazione di un esercito italiano libero da ogni legame monarchico, e le direttive alleate che non incoraggiano imprese militari fuori del quadro delle istituzioni esistenti, prevedendo piuttosto la formazione di piccoli nuclei di sabotatori. Intorno a Garosci, Gentili e Pintor si stringono alcuni giovani, circa una decina, animati dal desiderio di portare comunque il proprio contributo di combattenti alla guerra di Liberazione. Su richiesta di Salvadori, il maggiore Malcom Munthe, direttore del SOE sul fronte italiano, si offre «di aiutarli a passare le linee e raggiungere i gruppi armati che operavano, in territorio occupato dai Tedeschi, sotto la direzione del Comitato di Liberazione Nazionale di Roma» (Salvadori 1974, p. 52).
Per alcune settimane, il gruppo viene mandato in un campo di addestramento sull’isola di Ischia, al termine del quale Munthe stabilisce che un primo nucleo, tra cui Garosci e Pintor, provi a passare le linee alla fine di novembre, lasciando a Napoli Dino Gentili con il restante personale. Era necessario, infatti, tentare l’impresa in piccole formazioni poiché la battaglia si andava stabilizzando e le linee si stavano chiudendo. Il capitano Silvester (Salvadori) e il capitano Cooper, dell’esercito inglese, sono incaricati di scortare i partigiani fino all’estremo limite dei territori occupati dagli Alleati. La partenza da Napoli viene fissata la mattina del 29 novembre. Ma la sera prima Aldo Garosci è colto da un violento attacco di angina e dopo avere valutato i pericoli maggiori a cui la spedizione sarebbe andata incontro se fosse stata rinviata di qualche giorno, si stabilisce che Giaime prenda, fino alla base di partenza, il comando del gruppo.
I giovani partigiani lasciano Napoli la mattina del 29 novembre per giungere a piedi Castelnuovo al Volturno, estremo limite delle posizioni alleate. In questa vallata, infatti, la quinta Armata dell’esercito americano era riuscita a incunearsi tra le postazioni nemiche formando quello che sembrava essere uno dei pochi passaggi sicuri per attraversare le linee, oltrepassare le Mainarde e ricongiungersi, mediante due o tre marce notturne, alle prime formazioni armate che operavano sotto il CLN.
La spedizione viene divisa in due gruppi, il primo composto da Stille (Pintor, capo-spedizione) e Ciotti, il secondo da Filippini (Paolo Buffa, capo-gruppo), da Zanetti e da Farrese. Alle 4,30 del mattino le due formazioni lasciano l’accampamento scortati, fino all’inizio della pendice del monte, da Cooper e Salvadori: «Da quel punto ci disponemmo secondo il seguente ordine di marcia: Filippini-Farrese-Zanetti, a qualche distanza Stille-Ciotti» (P. Filippini [Buffa], Rapporto di Filippini, pp. 58-59).
La sera prima, nell’eccitazione della partenza, insieme all’ultimo «saluto frettoloso» a Dino Gentili, Giaime scrive «quel suo messaggio dall’oltretomba» mandato ad un fratello non ancora ventenne, che forse avrebbe «preferito non ricevere» (Pintor L. 1991, p. 11). Sorprendono la serenità e la compostezza con cui Giaime, in un momento di estrema vitalità e di eccitazione, riesce a raccogliere i pensieri e a congedarsi da tutto. Nella tensione che si cela dietro un apparente distacco emotivo si intravedono la riflessione intensa e la sicurezza cosciente di chi ha compiuto una scelta consapevole.
Dopo il disperato tentativo di Max Salvadori e Paolo Buffa di recuperare il corpo in mezzo al campo minato, l’intero gruppo torna a Napoli dove Paolo Filippini informa Garosci della terribile perdita:
Erano stanchissimi, calmi. Raccontarono. La partenza nella notte, attraverso l’ultimo varco possibile nelle linee, verso una cresta dove si supponevano gli avamposti tedeschi, per una strada da cui erano scesi il giorno prima tre soldati nostri che se ne venivano al di qua. Le pattuglie tedesche che avevano, durante la notte, occupato la zona. L’incontro con la pattuglia, che aveva sparato su di loro. Il ritorno dei compagni, precipitoso, nella notte, in due gruppi; uno verso la strada, l’altro verso il torrente nel fondo valle. E verso la strada Giaime aveva ricevuto nella schiena, in pieno, la scarica d’una mina che aveva fatto esplodere. Ora giaceva ancora là supino nel campo, da dove non si era potuto ritirarlo, malgrado che un ufficiale alleato, andato per tentare l’impresa, insieme con Paolo B[uffa] vi fosse stato ferito nel tentativo (Garosci 1944, p. 106).
Era il 2012 quando, sulle tracce di Giaime Pintor, ho incontrato due persone che hanno conosciuto lo scrittore durante la seconda guerra mondiale a Castelnuovo a Volturno, luogo questo, dove il giovane intellettuale ha perso la vita a ventiquattro anni colpito da una mina sulla strada che porta a Monte Marrone, montagna simbolo della resistenza e cimitero di numerosi soldati. Un incontro che a distanza di sei anni viene pubblicato, con il rammarico della scomparsa nel gennaio 2018 di Giovanni Tomassone, al quale va il ringraziamento personale e collettivo per aver conservato e tramandato la testimonianza di un’avventura di vita che i protagonisti non raccontano mai a cuor leggero: la guerra.
Castelnuovo, l’ultima casa di Giaime.
Castelnuovo a Volturno è un piccolo paese in provincia di Isernia. È situato a ridosso di Monte Marrone, scenario, quest’ultimo, di numerose battaglie della seconda guerra mondiale perché breve tratto della linea Gustav. Quel luogo con circa duecento abitanti era l’ultimo avamposto degli americani prima delle postazioni tedesche: in mezzo ai due eserciti c’era una striscia di terra senza dominio disseminata dai tedeschi di mine antiuomo, mentre le case erano riempite di mitragliatrici. In quella valle l’esercito americano aveva costruito uno dei pochi varchi agibili per passare le linee e congiungersi, mediante due o tre marce forzate compiute di notte, attraverso il gruppo montuoso delle Mainarde, ai gruppi armati che operavano sotto la direzione del Comitato di Liberazione nazionale. Proprio a Castelnuovo, dopo aver percorso trenta chilometri a piedi, nel pomeriggio di martedì trenta novembre del ’43 arrivò un gruppetto di cinque uomini, formato da Giaime Pintor, il capo spedizione, che aveva trasformato il suo nome in Ugo Stille, e altri quattro compagni di avventura desiderosi di impugnare le armi contro i tedeschi. Pintor era arrivato nel piccolo paese del Molise dopo un soggiorno a Brindisi, dove era approdato al termine di un avventuroso viaggio da Roma alla “capitale del Sud”. Era stato assegnato al gabinetto Badoglio.
Partiti da Napoli il 29 novembre, erano accompagnati dal capitano Cooper e dal tenente colonnello Max Salvadori (SOE), detto il capitano Silvester, entrambi dell’esercito inglese e incaricati dal maggiore Munthe di aiutare i volontari a passare le linee e a raggiungere i partigiani dall’altra parte della montagna. Il viaggio non si presentò affatto facile poiché tutto il territorio era sotto il tiro dell’artiglieria tedesca. La spedizione quindi si rivelò alquanto ardua per la natura aspra della montagna e per la mancanza di carte topografiche. I viaggiatori erano Stille (Giaime Pintor, capo spedizione), Ciotti (non identificato), Filippini (Paolo Buffa, capo-gruppo), Zanetti e Farrese (uno di questi ultimi due è Paolo Petrucci, giovane intellettuale che morirà alle fosse Ardeatine). Verso le quattro del mattino i partigiani (divisi in gruppi così organizzati: Stille con Ciotti e Filippini, Zanetti con Farrese) lasciarono il presidio notturno e si avviarono su per la salita. Sono queste le ultime ore di Giaime Pintor, prima che finisse colpito a morte per essere incappato in un filo spinato che fungeva da trappola perché collegato con una mina <<S>> piantata nel terreno. Era sempre il 1943 e a Castelnuovo a Volturno vivevano Giovanni Tomassone e Cristina Tomassone, due giovani costretti quell’anno a nascondersi dai tedeschi.

Dedè, Beppino, Giaime, Silvia, Luigi e Nenetta Pintor, Cagliari 1929 – Fonte: Calabri, Art. cit. infra

Ricordo che ero in campagna con la mia famiglia, in una zona che si chiama Santa Lucia: era il luogo dove gli abitanti di Castelnuovo si sono rifugiati durante l’invasione dei tedeschi. In un pomeriggio vidi arrivare un giovane, alto e magro, di bella presenza, che si aggirava nel nostro piccolo paese. Con sé aveva una borsa, era silenzioso e pensieroso e si presentò senza divisa, in abiti civili. Era il 1943, il periodo in cui hanno fatto sfollare il paese, nella seconda metà dell’anno. Eravamo convinti che fosse una spia americana. Quando si avvicinò a noi ci salutò dicendoci «buongiorno»: era molto educato e le sue maniere erano inconsuete per una popolazione per la maggior parte formata da contadini. Non avevamo idea di chi fosse, visto il periodo in cui si alternavano soldati qui da noi. Soltanto dopo la sua morte siamo venuti a conoscenza di chi era. Giaime Pintor, da Roma, scrittore e intellettuale, nipote di un generale.
Durante la sosta a Castelnuovo, Giaime Pintor, dai racconti degli altri abitanti, risulta essere stato ospite di un avvocato, un certo Bruno Grande. L’avvocato Grande era una persona colta che ha vissuto molti anni a Campobasso dove lavorava senza mai abbandonare il suo paese natale, appunto Castelnuovo. Aveva studiato a Roma ed era un noto comunista, costretto a rifugiarsi e scappare dai tedeschi, infatti fu uno degli sfollati di quell’anno. Fu proprio lui a ospitare Pintor nella sua casa: è una piccola abitazione che affaccia sulla piazza, oggi diventata un museo. Durante il bombardamento venne completamente distrutta, non rimase niente, neanche il famoso pianoforte che allietò la serata della piccola delegazione.
Quanto è forte il ricordo di Giaime Pintor qui a Castelnuovo a Volturno?
Per noi Giaime è un eroe, un simbolo della Liberazione come tutti gli altri morti in questa terra e sul nostro Monte Marrone. È un privilegio essere depositari del ricordo di questo giovane ed è importante mantenere acceso il ricordo affinché le generazioni che verranno possano conoscere questo personaggio che a Castelnuovo ha dato la vita per la patria.
Castelnuovo a Volturno-22 maggio 2012, intervista a Cristina Tomassone (28/12/1924).
[…]
Maria Cecilia Calabri, Giaime Pintor, ArcheoMolise N°33 2007 – ANNO X – Associazione Culturale ArcheoIdea, articolo qui ripreso da Rocchetta a Volturno – Sito Ufficiale Turismo

Nelle molte celebrazioni e rievocazioni, necessarie ad alimentare il processo di annessione ideologica, naturalmente si glissò sugli anni del fascismo, cioè quelli della formazione intellettuale e politica di Giaime Pintor. Poco si sapeva, e ancor meno si ebbe l’interesse a spiegare, delle vicende biografiche del Giaime giovane intellettuale fascista, collaboratore della rivista “Primato” di Bottai.
Occorrerà perciò attendere il lavoro di Mirella Serri, Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista, con cui la studiosa ripercorreva la vicenda esistenziale e culturale del giovane intellettuale dagli anni giovanili della sua formazione fino alla partecipazione al convegno di Weimar dell’ottobre 1942. Già alcuni anni prima la Serri aveva avuto modo di confrontarsi col complesso percorso intellettuale di Giaime curando quel suo Doppio diario, la cui pubblicazione fu all’origine della rottura dei rapporti tra Luigi Pintor e Franco Fortini, il quale aveva giustamente sollevato alcuni interrogativi sulla correttezza dell’interpretazione che fino ad allora era stata data delle scelte ideologiche di Giaime, concludendo col manifestare l’esigenza d’una rilettura critica del suo percorso politico ed esistenziale. Queste conclusioni avevano incontrato l’ostilità di Luigi Pintor, il quale aveva difeso quella ‘vulgata’, consolidatasi in seno alla cultura di sinistra, che collocava politicamente il fratello nelle file del Pci; una collocazione alla quale peraltro egli aveva contribuito in modo decisivo.
Quello che fino ad ora si sapeva dell’ultimo periodo della vita di Giaime è che egli aveva maturato tra l’ottobre del 1942 (convegno di Weimar) e il luglio del 1943 (caduta di Mussolini) una profonda e irreversibile crisi di sfiducia nei riguardi del regime fascista. Durante i quarantacinque giorni di Badoglio, egli aveva preso contatti con i comunisti, attraverso Giorgio Amendola, e con gli azionisti, tramite Carlo Muscetta. Dopo l’8 settembre, aveva raggiunto Brindisi e cercato di arruolarsi nell’esercito regio. Vi sono al riguardo le testimonianze di Edgardo Sogno che in quei giorni lo frequentò assiduamente, lasciando una testimonianza del contenuto dei loro colloqui.
Resosi presto conto dell’inefficienza monarchica, egli s’era dileguato e aveva raggiunto Napoli, dove s’era unito al gruppo di patrioti volontari che stava raccogliendo il generale Pavone. Ma, fallito anche questo nuovo tentativo a causa dello scioglimento del gruppo, Giaime, per quello che le testimonianze hanno fino ad ora permesso di accertare, s’era rivolto agli inglesi per cercare di attraversare la linea Gustav con l’intenzione di raggiungere Roma per dar vita a gruppi di resistenti attorno alla capitale. Ma nel tentativo di attraversamento, effettuato con altri quattro compagni, s’era imbattuto in una pattuglia tedesca e nella fuga aveva tragicamente perso la vita finendo su una mina tedesca.
Le testimonianze delle sue ultime ore si presentavano tuttavia incomplete, tanto che non s’era mai capito se la sua intenzione di raggiungere Roma fosse il frutto d’una iniziativa personale o una missione affidatagli da qualche forza politica alla quale avesse nel frattempo aderito. Ovvero se la missione gli fosse stata affidata dagli inglesi o se questi si fossero limitati a facilitargli il passaggio delle linee.
La documentazione disponibile fino ad oggi sugli ultimi giorni di Giaime Pintor consisteva di alcune testimonianze: da una parte quelle fornite da un paio di compagni di avventura che scamparono alla morte e una breve rievocazione di Max Salvadori , allora tra i responsabili per l’Italia del Soe, lo Special Operations Executive, il ramo operativo dell’Intelligence service inglese, apparse tutte in appendice al lavoro di Giaime Pintor sul colpo di stato del 25 luglio , e dall’altra un ricordo di Aldo Garosci, il quale doveva essere compagno di Giaime nell’impresa, ma che era stato costretto a rinunciarvi a causa d’uno stato febbrile che lo aveva colpito alla vigilia .
Le relazioni dei due compagni attribuivano agli inglesi un ruolo di supporto di tipo logistico. I due ufficiali del Soe, Cooper e Sylvester, cioè Max Salvadori, avrebbero accompagnato a Castelnuovo al Volturno il gruppetto guidato da Giaime, limitandosi a indicare quale fosse secondo i servizi segreti inglesi il percorso migliore per attraversare indenni le linee. E’ facile concludere dai tragici esiti dell’impresa che si trattò d’un grave errore di valutazione, dipeso forse dal fatto che agli ‘osservatori’ alleati era passato inosservato che la notte prima i tedeschi avevano seminato quel tracciato di mine.
Conforme a tale versione fu la testimonianza rilasciata nel 1947 da Max Salvadori. Egli asserì che il Soe, il cui ramo italiano era designato come Special Force N. 1, s’era limitato ad assistere Giaime e gli altri quattro compagni nel passaggio delle linee. Infine, Garosci fece addirittura intendere che lui e Giaime, dopo aver pensato in assoluta autonomia a una iniziativa che consentisse loro di precedere le truppe alleate nella marcia verso Roma, e che furono costretti ad accantonare a causa della diffidenza alleata “per i ‘politici’ che sarebbero andati là a fare la rivoluzione”, avevano infine optato per un progetto che prevedeva il loro insediamento in una zona “non troppo lontana da Roma e dalla resistenza romana”, per raccogliere e dirigere le bande di patrioti che si stavano spontaneamente formando. A questo punto il racconto di Garosci circa la preparazione della missione assume aspetti misteriosi. Precisava infatti di non poter “entrare nei dettagli tecnici del nostro progetto, né spiegare grazie a quali sue qualità fosse stato preso in considerazione” .
Su queste lacune e ambiguità s’inserì, ancor prima che la guerra terminasse, la macchina propagandistica comunista che giunse appunto a fare di Giaime un suo martire.
L’operazione prese l’avvio nel luglio 1944, all’indomani della liberazione di Roma, quando apparve un articolo sulla rivista “Rinascita” dal titolo Martiri ed eroi della nuova Italia, in cui si affermava non solo che il “il compagno Giaime Pintor era arrivato al Comunismo” attraverso un “interiore travaglio”, ma che, a questa “conquista grande”, egli s’era tenuto “attaccato saldamente, perché non soltanto essa rappresentava per Lui il frutto di una elaborazione teorica raggiunta attraverso un rigoroso processo di critica, un superamento e una progressiva eliminazione di ideologie spurie, ma perché nel Comunismo, sentito come fede attiva, come supremo ideale di libertà e di umano affrancamento, Egli trovava un alveo capace di raccogliere questa sua calda umanità, questa sua pienezza di vita morale”. Con questo articolo senza firma, e perciò stesso autorevole, Giaime veniva iscritto d’ufficio al Pci.
[…] Nella costruzione del mito di un Giaime comunista, decisivo fu l’apporto di Luigi Pintor, che intervenendo nel 1947, sempre su “Rinascita”, con un pezzo rievocativo, Vicino a contadini e proletariato, inseriva Giaime nella galleria degli eroi gramscianamente intesi incarnanti il nuovo intellettuale comunista, il quale riassumeva con le sue scelte le istanze dei contadini meridionali e quelle del proletariato industriale. Ne usciva la rappresentazione di un eroe popolare, di un difensore delle classi più umili; una rappresentazione in cui veniva sacrificato proprio l’eclettismo dei rapporti che aveva caratterizzato l’azione politica di Giaime, consentendogli di frequentare con la stessa semplicità, curiosità e disinvoltura gli ambienti sociali e politici più vari, non disdegnando le frequentazioni di esponenti e ambienti dell’alta borghesia. Nel raccontare i funerali celebrati a Castelnuovo al Volturno, Luigi, con alcune sapienti pennellate rappresentava una scena di robusto impianto neorealistico, in cui taciturni, rudi e semplici contadini del Sud seguono il feretro di Giaime istintivamente consapevoli del sacrificio estremo di questo combattente morto per la loro causa. Era la semplice coscienza di classe a orientare i loro sentimenti. Sembra effettivamente di essere in presenza della esegesi di uno dei quadri neo-realisti che Guttuso nel dopoguerra dedicò alle tante tragedie che colpirono le plebi meridionali .
Una parte importante del breve articolo di Luigi Pintor è dedicata a polemizzare con non meglio definiti “intellettuali e rappresentanti della cultura italiana”, “simili a Giaime per tradizione, per origine e condizione culturale”, ai quali Luigi rimprovera di aver mostrato una assoluta incapacità di comprensione nei confronti dell’azione di Giaime, fino a “definirla vana, ed esprimere un dubbio sul diritto di un uomo di cultura ad abbandonare la sua attività normale e la sua vita così largamente affermata per scendere nella lotta accanto agli operai, alle masse popolari, ai soldati, ai quali invece spetta il combattimento e il sacrificio”. La critica serviva a Luigi per evidenziare l’abisso che separava questi esponenti della borghesia dalla spontaneità dei contadini meridionali, i quali senza sapere nulla dell’attività intellettuale di Giaime, lo avevano ritenuto, grazie alla coscienza di classe, “uguale a loro e ai loro morti nella loro campagna, partecipe e vittima della loro stessa battaglia”.
[…] Ora a chiarire definitivamente la portata della manovra ideologica di cui si rese protagonista il Pci nella vicenda Giaime giungono dagli archivi inglesi alcuni documenti che ci consentono di dire una parola definitiva sulle ultime scelte di Giaime. Essi aiutano a comprendere il percorso che il giovane intellettuale aveva intrapreso nei giorni immediatamente a ridosso della sua tragica fine; un percorso che, giova anticipare, si presente differente da quello suggerito dal Pci e dallo stesso fratello Luigi, sul ruolo del quale i documenti sollevano indirettamente alcuni interrogativi di non poco conto.
La documentazione proviene dal fondo degli agenti del Soe, il ramo operativo dei servizi segreti inglesi. Si tratta del fascicolo personale di Giaime Pintor, compilato il 29 agosto 1945, e che documenta come il giovane patriota, il 15 novembre 1943, cioè quindici giorni prima di morire, si fosse arruolato nel Soe.
I documenti rivelano che il suo reclutatore era stato proprio Max Salvadori. Inoltre, alla voce “Date of commencement of service” appare la risposta “15 November 43”, cioè quindici giorni prima della sua morte. Giaime aveva deciso inoltre di usare per la sua nuova vita di agente del Soe lo pseudonimo di “Stille”, che era anche il ‘nom de plume’ da lui usato in passato per firmare le collaborazioni a riviste e giornali. I documenti ci dicono ancora che l’arruolamento nei servizi segreti inglesi fu una scelta dettata da un purissimo spirito di patriottismo e che tra reclutato e reclutatore fu estraneo qualsiasi tipo di patteggiamento. Al riguardo il modulo di reclutamento è chiarissimo: alla voce “Was he under written contract” vi è infatti apposto “No”, alla successiva richiesta di spiegare il “motive for undertaking work” vi è apposta la risposta “patriotism” e infine alla voce “Amount paid whilst employed (regular or irregular payments)” vi è apposta la risposta “nil”, cioè zero.
Ma l’esile fascicolo ci rivela altre cose importanti. E cioè che dopo la sua morte, e ancora prima della liberazione di Roma, il Soe aveva cercato di far pervenire alla famiglia Pintor la somma di 200 mila lire a risarcimento per la morte del loro figlio, e che il denaro, affidato da Dino Gentili, il cassiere del ramo italiano del Soe, a un amico della famiglia Pintor era stato ad essa consegnato nei giorni successivi alla liberazione di Roma. Al riguardo il documento riporta testualmente: “Pintor’s family received 200.000 lire from No.1 Special Force (Vigilant) in June 1944 (After the liberation of Rome). This sum was given to a friend of Pintor by Gentili in Naples in January or February 1944, and he took it to Rome in June” . La documentazione riferisce inoltre che, il 22 agosto del 1945, il lgt. P. Batron (attenzione al nome, poiché ci torneremo più avanti!) s’era recato nella casa romana della famiglia Pintor, in via Nizza 11, e aveva parlato con Luigi mettendolo a conoscenza delle ultime scelte di campo operate dal fratello Giaime. Batron riferisce di aver chiesto a Luigi, durante questo colloquio, se la famiglia avesse da rivendicare ancora qualcosa nei confronti dei servizi segreti inglesi e del governo di Sua Maestà, e di aver ricevuto una risposta negativa. Riporta il documento: “Pintor’s brother declared to me yesterday (22/8/45) his family has no claims against No.1 Special Force” . Il fascicolo personale di Giaime Pintor riferisce in modo burocraticamente essenziale in quale circostanza il giovane trovò la morte. Riporta dunque il documento: “Shortly after leaving the British conducting officer, while attempting to cross the lines into E.O.T. subject and his companion were fired on by the Germans and stumbled into a German minefield. Pintor trod on a mine and was killed instantaneously. His companion reached safety and returned with one of the conducting officer to recover Pintor’s body. The incident took place on 1st December 43 at Castelnuovo Volturno near Venafro”. Vi è inoltre spiegato nelle sue linee essenziali quale dovesse essere l’obiettivo della missione: “On operation “Arnold”. In Dec 44 (sic!) subject with another Italian left Naples to cross lines to Rome to make contact with resistance elements and organise patriot activity in the Lazio. Party ran into a German minefield and subject was killed”. Infine alla voce “Degree of agent’s responsability” vi è scritto “Mission leader”, cioè Giaime era il responsabile della missione “Arnold”.
Chi erano i compagni di avventura di Giaime Pintor? Da Aldo Garosci sapevamo che la mattina del 3 dicembre, due giorni dopo la morte di Giaime, s’erano presentati a lui “i due Paoli (Paolo B…. e Paolo Petrucci) che erano nel suo gruppo” per comunicargli l’esito tragico della spedizione . Paolo B…. non era altri che Paolo Buffa, che Garosci non nomina per esteso per una semplice misura di prudenza, in quanto nel periodo in cui usciva la sua testimonianza, dicembre 1944, Paolo Buffa si trovava al nord a combattere, con lo pseudonimo di Paul Barton , sempre tra le file della Special Force N.1, cioè i servizi segreti inglesi, la guerra di liberazione. Paolo Buffa veniva da una famiglia valdese antifascista. Iscritto alla facoltà di Medicina dell’Università di Roma, aveva preso a frequentare gli ambienti comunisti romani, dove aveva conosciuta la sua futura fidanzata Enrica Filippini Lera, già impegnata nel movimento clandestino comunista, la quale lo aveva introdotto nei salotti delle famiglie Lombardo Radice, Pintor, Natoli ecc.. insomma nelle famiglie i cui figli erano ormai attivi nella rete clandestina comunista. La frequentazione di Paolo Buffa e di Enrica Filippini Lera con il giovane Luigi Pintor è testimoniata in particolare da una foto del 1942, che ritrae i tre insieme in una casa di campagna .
Il secondo dei due Paoli, citato da Garosci, era Paolo Petrucci, un giovane che aveva già fatto la campagna d’Africa e che l’8 settembre s’era battuto contro i tedeschi per la difesa di Roma. I due erano amici e con l’occupazione tedesca avevano deciso di recarsi al sud per organizzare una formazione di volontari antifascisti. Li accompagnava un altro vecchio amico, Rinaldo (Aldo) Sanna, che ritroveremo tra i reclutati del Soe. I tre avevano raggiunto Napoli ed erano finiti nel gruppo che il generale Pavone stava cercando di organizzare. A Napoli incontrano Giaime Pintor che appunto già conoscono.
Che la missione fosse una operazione del Soe e che i membri fossero tutti agenti dei servizi segreti inglesi lo veniamo a sapere dagli stessi archivi inglesi, i quali rivelano che certamente tre elementi della spedizione, Paolo Petrucci, Paolo Buffa, e lo stesso Aldo Garosci, che la doveva dirigere se non si fosse ammalato, erano agenti dei servizi segreti inglesi. Al servizio del Soe era anche un altro loro amico, che quasi certamente era a Castelnuovo al Volturno, cioè Rinaldo Sanna. La firma di Paolo Filippini, che appare in calce alla relazione pubblicata in appendice al volume “Il colpo di stato del 25 luglio 1943”, nasconde quindi l’identità di Paolo Buffa, che in quella circostanza utilizzò il cognome della fidanzata, Enrica Filippini Lera. Quindi la missione era stata concepita e organizzata dai servizi segreti inglesi e il gruppo era composto esclusivamente da agenti del Soe.
Ma a sorprendere e a gettare ancora più luce sulla vicenda sono alcuni sviluppi della storia che i documenti inglesi ora ci consentono di seguire. Come racconta lo stesso Garosci, i due Paoli, cioè Buffa e Petrucci, a causa degli esiti tragici della spedizione di Castelnuovo al Volturno, furono costretti a tornare indietro. Ripeterono il tentativo nel gennaio 1944, facendosi questa volta paracadutare su Monterotondo, da dove riuscirono in un secondo momento a raggiungere Roma, cercando rifugio nella casa di Enrica Filippini Lera. Dopo un mese di intensa attività clandestina, di cui purtroppo si sa poco, furono sorpresi da una irruzione delle SS. Vennero arrestati Paolo Petrucci, Paolo Buffa, e due cugini di quest’ultimo, cioè Cornelio e Vera Michelin-Salomon, anch’essi attivi militanti antifascisti. Enrica, ignara della irruzione delle SS, veniva arrestata mentre rientrava in casa con una borsa piena di volantini anti-nazisti. Essa, durante i mesi di assenza di Paolo Buffa, aveva stretta ancora di più i legami con la organizzazione comunista clandestina e quando cadde nelle mani delle SS era la responsabile femminile della VI zona Gap. Mentre i tre giovani uomini, processati da un tribunale tedesco, sebbene assolti, rimasero reclusi a Regina Coeli, le due donne, Enrica e Vera, condannate a tre anni di reclusione da scontare in una prigione tedesca, venivano tradotte, nell’aprile del 1944, in Germania . Paolo Petrucci fu tra i martiri delle Fosse Ardeatine, mentre Paolo Buffa trascorse in carcere a Regina Coeli il resto dei giorni che lo dividevano dalla liberazione di Roma .
I primi interrogativi su questi ultimi risvolti della vicenda sorgono dal fatto che sappiamo ora dai documenti inglesi che anche Enrica e suo padre, Giuseppe Filippini-Lera, hanno un fascicolo personale nel fondo degli agenti del Soe. Insomma erano agenti del Soe. Un altro interrogativo sorge da alcuni degli sviluppi della vicenda personale di Buffa dopo la liberazione di Roma. Infatti, appena uscito da Regina Coeli, Buffa riprendeva i contatti con i servizi segreti inglesi e si faceva paracadutare nel Cuneese, dove prese a operare con il grado di tenente dello Special Force N.1 e sotto la copertura dello pseudonimo di ‘Paul Barton’. La sua mansione era quella di ufficiale di collegamento tra gli Alleati e le formazioni partigiane di Giustizia e Libertà .
Paolo Buffa ci interessa in modo particolare per quel suo nome di battaglia, “Paul Barton”, poiché è lui, Paolo Buffa, il vecchio amico dei due Pintor, quel “Ltg P.Batron” , che, incaricato da Londra, si presentò il 22 agosto 1945 alla famiglia Pintor a nome dei servizi segreti inglesi, sintetizzando i risultati dell’incontro nel fascicolo di Giaime. E’ lui quindi che ebbe il colloquio col più giovane dei Pintor il 22 agosto 1945, e che riferì a Londra firmando le dichiarazioni raccolte da Luigi con il nome “Lt. P.Batron”, dove è ora evidente l’errore di battitura che ha trasformato P. Barton in P. Batron. E’ ancora lui quindi quel misterioso personaggio che, nel febbraio del 1944, in un incontro segreto nella Roma occupata dai nazisti, riferì a Luigi Pintor, come racconterà in seguito questi omettendone l’identità, le prime notizie sulla morte del fratello Giaime.
Quindi, Giaime Pintor nella sua ultima tragica fase della sua vita aveva scelto di legarsi ai servizi segreti inglesi. Ma ora sappiamo che non era solo in questa scelta. Gli facevano compagnia un gruppo di giovani che egli ben conosceva; amici della sua adolescenza e compagni dei suoi primi impegni politici, amici che a Roma egli incontrava quotidianamente nei salotti delle famiglie Lombardo Radice, Pintor, Natoli. A Napoli s’erano evidentemente ritrovati e avevano deciso di condurre insieme quell’operazione, tutti sotto la copertura dei servizi segreti inglesi. Proprio il coté famigliare e amicale in cui si muovevano tutte le personae dramatis rafforza la certezza che Luigi Pintor fu messo al corrente delle scelte ultime del fratello sia nell’incontro clandestino del febbraio 1944 sia, a maggior ragione, nell’incontro documentato dai fascicoli del Soe dell’agosto del 1945, quando il tenente P.Batron, alias P.Barton, cioè Paolo Buffa, reduce dalla guerra di liberazione condotta al nord, si recò a via Nizza, in una casa e da una famiglia a lui ben note, per spiegare bene ed esaurientemente la vicenda della morte di Giaime Pintor, di cui era stato testimone oculare.
Ciò rende del tutto inverosimile l’ipotesi che Luigi Pintor fosse all’oscuro delle ultime scelte del fratello […]
Mauro Canali, Il mito del “compagno Giaime Pintor” tra Pci e servizi segreti inglesi, Nuova Storia contemporanea, anno 11, n. 4. 2007

[…] Vi è però un episodio che non corrisponde al profilo tracciato e alle motivazioni che ho addotto. È un episodio per così dire sgradevole, un’occasione in cui Fortini ha mostrato la sua sofferenza. Forse è l’unico episodio pubblico, al di là delle controversie, dei furori fra amici, dei “musi” che lo oscuravano in disparte come il combattente ferito. È l’episodio, anch’esso di un’origine letteraria, ma solo in apparenza, della recensione per «il manifesto» del Doppio diario di Giaime Pintor, del maggio 1979. Questa volta Fortini rivendica se stesso con una violenza e una acredine che va ben oltre l’occasione di un confronto fra un testo e, tutto sommato, un recensore critico. Qui Fortini rivendica le sue frustrazioni di piccolo borghese, le sue origini di letterato fiorentino, le sue scarse risorse finanziarie, come se questi dati di fatto fossero dei valori o almeno dei fatti di cui tener conto per illustrare e capire la storia d’Italia, nel fascismo, nello stesso antifascismo dei pochissimi, ragioni e tragedie ignote o sorvolate dall’arroganza di chi sa a priori, chi ha il sapere innato nei lombi nobiliari. Di chi è nato ricco di spirito e di censo e può limitarsi, se crede, a trasmettere questo sapere dosandolo secondo le opportunità e il capriccio, ma riserbando per sé la parte migliore, quella disciplina arcani che è proprietà appunto esclusiva del ceto sacerdotale. Non è particolarmente rilevante giudicare legittimo o meno il livore di Fortini a proposito di Giaime Pintor e del suo diario inedito, del resto pubblicato con reticenza dal fratello Luigi, destinatario della famosa lettera. È ben più rilevante osservare che Fortini, nel 1979, mette in discussione, con questo attacco, ben più del suo credito di critico e di collaboratore di un giornale, la sua persona di critico non destinato da una dotazione originaria alla gestione dei poteri della cultura, di uno che si è costruito da sé attraverso un apprendimento graduale e difficile. Ho l’impressione che Fortini, leggendo il Diario, abbia visto con sgomento, come in un’allucinazione, quale sarebbe stata la sorte di Pintor se non fosse saltato per aria per lo scoppio di una mina e avesse dovuto rileggere la propria lettera, del resto mirabile, durante uno dei pomeriggi di siesta operosa fra gli inviti dei salotti romani. E abbia voluto lacerare quella lettera mirabile che iscrive giustamente Pintor fra gli eroi, lacerarla per sé e per lui.
Quello scritto, poi pubblicato perché respinto dal «manifesto» sui «Quaderni piacentini», in un luogo cioè protetto dagli amici, un luogo minore, un piccolo gruppo la cui incidenza era pur sempre modesta, ha fornito a me, leggendolo e rileggendolo ora, un altro di quei meridiani di cui parlavo all’inizio, il discrimine fra due appartenenze: una pubblica, dei “competenti” a priori, che possono valersi di tutti i guizzi del potere e parallelamente delle ricorrenti fortune degli spiritualismi, e una privata, anche se condivisa da pochi amici, incapace, per natura, per vocazione e destino, di farsi adulta e riconosciuta. E abbia scelto la seconda. Il suo enorme lavoro, da allora, si sarebbe svolto in questo meridiano, avrebbe avuto questi e non altri referenti. Anche il Partito comunista, gli sarebbe parso, talvolta, come intellettuale collettivo, ben simile agli intellettuali della Normale di Pisa, allevati ad essere dirimenti nelle patrie lettere, destinati, appunto, a esercitare il potere nelle accademie, un potere di competenze ineccepibili e in apparenza neutrali, in realtà frutto di un’arroganza appresa e trasmessa da grandi maestri a grandi allievi in una successione ereditaria, persone che, incontrandosi, non si chiedono: come stai?, ma: di che cosa ti occupi?, in una concezione della cultura come territorio distinto in feudi da assegnare.
(Intervento letto a Napoli nella primavera del 2001)
Michele Ranchetti, Sul riserbo di Fortini, L’ospite ingrato, 12 settembre 2008

Rossana Rossanda su Giaime Pintor
1. Non esiste un caso Giaime Pintor. La sua breve esistenza è trasparente e accessibile. Gli scritti pubblicati o da pubblicare sono stati raccolti a cura di Valentino Gerratana per Einaudi in Il sangue d’Europa, più volte ristampato (l’ultima – credo – nel 1975). Gli scritti privati sono stati messi dal fratello Luigi a disposizione di Mirella Serri, che li ha pubblicati in Doppio Diario (Einaudi, 1978). Dal 1919 al 1943 non ha vissuto che sotto il fascismo, e il suo percorso è molto interessante per la formazione di una gioventù intellettuale degli anni Trenta. Si era iscritto alla facoltà di legge ma prediligeva la letteratura, aveva collaborato poco più che ragazzo con l’editore Einaudi, era stato chiamato nell’esercito – periodi e luoghi conosciuti esattamente – e dopo l’8 settembre, cercato invano nell’Italia regia di mettere in piedi con altri una forma di intervento nella resistenza, decideva di passare le linee tedesche per raggiungere le formazioni partigiane nel centro-nord. Concordò il passaggio con gli alleati ma saltò su una delle mine che i tedeschi avevano lasciato ripiegando. Nulla di questo è stato taciuto fin dalla prefazione, via via aggiornata, di Valentino Gerratana a Il sangue d’Europa.
2. Esistono dei modesti casi giornalistici su Giaime. Il primo nel tempo, credo, è stato costruito da Paolo Mieli su l’Espresso a proposito della recensione di Franco Fortini al volume Doppio Diario curato dalla Serri. Secondo Mieli, Luigi Pintor, direttore de il manifesto, dopo averla chiesta a Franco Fortini avrebbe rifiutato di pubblicarla, rompendo un’amicizia e rivelando la sua natura di burocrate comunista censorio.
Senonché Luigi non aveva chiesto nulla a Franco Fortini, che peraltro conosceva appena, non essendo nel suo stile chiedere nulla per sé, né per il suo proprio giornale. La richiesta a Fortini venne da Severino Cesari, che allora si occupava delle nostre pagine culturali. Quando arrivò il pezzo nel quale Franco scriveva con qualche acredine d’un Giaime per natura borghese che se fosse vissuto sarebbe diventato un «commis d’état», Cesari si preccupò di Luigi, che non aveva mai cessato di soffrire per la perdita del fratello e del suo messaggio morale. Mi portò il pezzo: che facciamo? Mostriamolo a Luigi. Luigi lesse, divenne pallido e non fece parola. Fui io, non lui, a decidere di non pubblicarlo. Io lo dissi a Fortini, che se ne irritò grandemente. Luigi gli scrisse un duro biglietto, del tono «sei uno che spara alle spalle», che Franco non rese mai pubblico. Di tutto questo ho scritto nella introduzione a Disobbedienze, pubblicato dalla manifestolibri nel 1997.
Mieli avrebbe potuto facilmente informarsi con me, Luigi o Cesari prima di scrivere. Poteva rivolgere a me le accuse che faceva a Luigi. Ma era più saporoso sporcare Luigi. Non gli rispondemmo.
Il secondo caso è stato costruito da Mirella Serri, che ne Il breve viaggio. Giame Pintor nella Weimar nazista (Marsilio, 2002) «rivelava» la recensione fatta da Giaime per «Primato» sul convegno degli scrittori tedeschi a Weimar, imputandogli di avere frascheggiato con il nazismo e Bottai, e inaugurando la serie «demistifichiamo i presunti martiri antifascisti». Senonché la recensione incriminata non era stata affatto nascosta, ma pubblicata, assieme alla notizia del viaggio e a uno scambio con Vittorini, da Valentino Gerratana in Il sangue d’Europa.
Gerratana dava anche conto – e lo veniva facendo tutta una memorialistica – del tentativo di «Primato» di stabilire, come attraverso i Littoriali, un contatto con l’intellighentsia più giovane che sentiva sfuggirgli e infatti gli sfuggì. Essa, senza altre sponde, l’antifascimo dei padri essendo stato represso o clandestino, nel volgere degli anni ’30 si cercava dove era possibile trovarsi e fare una qualche fronda. Quanto a «Primato» respinse l’articolo di Giaime, che parve ed era sprezzante.
3. Il terzo caso è costruito ora da Nuova storia contemporanea (n.4, luglio-agosto 2007) sulla base dell’«esile» fascicolo degli archivi dello Special Operations Executive, branca operativa dei servizi inglesi, che raccolgono le schede di coloro con i quali fu preso un contatto in Italia. Uno di essi era Max Salvadori, che fu poi intelligente collaboratore de Il Mondo di Pannunzio. Probabilmente fu lui a segnalare alla fine di agosto del 1943 che Giaime Pintor cercava un modo di passare le linee e non da solo. Il fascicolo correttamente riporta che il contatto fu preso un paio di settimane prima della partenza, che Giaime si sceglie per nome di battaglia Stille, lo pseudonimo che usava per scrivere in comune con Mischa Kameneski (e questi avrebbe assunto in sua memoria quando, dopo la guerra, scrisse per Il Corriere della Sera, Ugo Stille), che non intercorre alcun contratto, che il fine di Giaime è «patriottico» e non ci sono compensi in denaro. Il gruppetto doveva essere guidato da Garosci, che poi si ammalò e la guida, se così si può parlare in quell’avventurarsi al buio, fu assegnata a Giaime. Il quale saltò sulla mina a Castel Volturno, gli altri a distanza sentirono e fuggirono, poi sarebbero tornati a battersi e avrebbero avuto destini diversi – uno di essi finì alle Ardeatine. Non so se per volontà o insipienza, Mauro Canali ne deduca in questo una storia alla James Bond: Giaime che diventa un «agente» dei servizi segreti inglesi, nonché una scelta di campo politico. Forse, nella sua mente, un futuro comunista avrebbe scelto i russi.
Senonché il Canali è doppiamente fuori contesto: con chi se non con il Soe avrebbe potuto prendere contatto un giovane tenente italiano deciso a raggiungere il centro-nord? Con il generale Montgomery? L’Intelligence inglese offriva quel che sapeva ai patrioti antifascisti e antitedeschi, cui l’esercito regio non offriva nulla. Anche quando la sottoscritta, a Como, dovette far passare «agli alleati» del materiale della X Mas lo fece inoltrare in Svizzera agli inglesi. E non solo e perché quelli erano sul posto e più interessati degli americani – fin troppo, protessero Badoglio contro venti e maree, per cui il maresciallo potè morire nel suo letto ed aver funerali di stato dalla Repubblica, malgrado avesse ordinato le stragi in Libia e poi nei Balcani. Per strano che possa apparire a certe anguste menti, non solo nel corso del conflitto ma fino al discorso di Churchill a Fulton, tutti credemmo nell’alleanza antifascista. A dividerla venne la guerra fredda, dopo. E non fu solo a Giaime che l’America apparve giovane, produttiva, libera dagli spettri europei; ricordo l’effetto che ci fecero i soldati americani, ragazzoni con le scarpe, la divisa snella e l’andatura sciolta invece degli stivali, le rigide uniformi tedesche e il passo dell’oca.
Un solo punto dell’«esile» fascicolo mi riesce nuovo, che alla liberazione di Roma la famiglia Pintor ricevesse 200.000 lire. Non era certo un «risarcimento» per la morte di Giaime. Conobbi a lungo Dino Gentili, socialista e mi rincresce di non averglielo potuto domandare.
4. Per ultimo, è una manipolazione bell’e buona pretendere che il Pci o Luigi per il Pci abbiano gabellato Giaime per appartenente al partito. A parte la notizia del 1944, neanche l’articolo di Amendola del 1948 può essere letto in questo senso – i resistenti in spostamento prendevano contatto con il gruppo che trovavano, senza domandare prima la tessera o l’inclinazione, e comunisti e azionisti erano quelli che si facevano trovare per primi. Quanto a Luigi, non disse né scrisse mai, da nessuna parte, che suo fratello era o sarebbe diventato comunista. Buon Dio, è morto a 24 anni! E i partiti cominciavano appena a definirsi! Non esiste più una decenza? Che ci si battesse anche per i lavoratori, operai o contadini, non era segnale di comunismo, ma coscienza comune. Per citare un titolo recente si legga la corrispondenza fra Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, pubblicata da Giovanni de Luna. Erano bolscevichi?
Ma forse sono precisazioni inutili, suppongono un giornalismo in buona fede, errori di ottica o pura e semplice ignoranza. È così? La domanda va rivolta, anzi dovrebbe rivolgere a se stesso, il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli. Da storico e interpellato come tale farebbe bene a dare un’occhiata alle sue terze pagine.
Rossana Rossanda – da il manifesto del 26 agosto 2007 – Fondazione Pintor Onlus