La realizzazione del Comando Unico è per Longo una tappa molto importante

L’importanza storica e politica della lotta armata resistenziale deriva anzitutto dalla particolarità che questa assume e nel contesto della Resistenza e in quello più generale della tradizione del movimento operaio. A Milano, nella riunione del settembre ‘43 tenuta da Longo e Secchia, si prende la decisione di organizzare gruppi armati di montagna e di città, capaci di forzare la mano e spingere sia il fronte antifascista sia il proletariato all’iniziativa della lotta contro tedeschi e repubblichini, autonomamente dagli angloamericani.
Perché Milano? Perché qui, in particolare nella cintura industriale di Sesto San Giovanni, erano presenti importanti nuclei combattivi di lavoratori; perché il capoluogo lombardo era non solo la capitale produttiva del paese, ma anche il cuore dell’occupazione nazifascista. Non è facile l’avvio della lotta armata, neanche tra gli stessi comunisti: la direttiva del partito che almeno il 15% dei membri di sezione si arruolasse in una formazione guerrigliera viene spesso interpretata come una punizione <303; ci sono molte perplessità legate alla distanza soprattutto teorica tra lotta armata, fosse essa terrorismo o partigianato, e dottrina marxista-leninista.
Concentrandoci principalmente sui fenomeni gappista e sappista, e partendo dal primo, la proposta iniziale di formare Gruppi di azione patriottica che utilizzino il terrorismo contro nazisti e fascisti arriva da reduci della Guerra di Spagna e della primissima lotta partigiana nella Francia meridionale, avendo l’esempio dell’esercito titino in Jugoslavia.
Nel documento di Antonio Roasio, esponente del Centro Interno comunista che per primo ha parlato di GAP, emerge che “la struttura è mutuata dalla tipologia organizzativa dei gruppi di Francs-tireurs et partisans (d’ora in poi Ftp), che nella Francia del Sud, in particolare tra Lione e Marsiglia, hanno sperimentato l’efficacia di azioni di tipo terroristico sotto la guida di numerosi dirigenti comunisti italiani, forgiati dall’esperienza della clandestinità e della guerra civile spagnola”. <304
Infatti, “nella Francia del Sud, fra l’autunno 1942 e i primi mesi del 1943, l’organizzazione del Ftp vede in posizione preminente numerosi dirigenti e militanti del Pci, reduci della guerra civile spagnola, che qui perfezionano l’allenamento alla vita clandestina e all’uso delle tecniche di una guerra condotta in ambito urbano con attentati dinamitardi e alle persone”. <305
Ma “gli esempi del terrorismo urbano francese e della guerra partigiana jugoslava, ben noti ai dirigenti tempratisi nella guerra civile spagnola e nella scuola di partito a Mosca, restano assai lontani dalla cultura e dall’esperienza di ciò che del Partito era sopravvissuto in Italia, cioè molto poco”. <306
Passate le illusioni iniziali, si acquisisce consapevolezza che la lotta armata, soprattutto in città, avrebbe richiesto tempi lunghi. I centri industriali, secondo la formazione dei dirigenti e militanti comunisti, sono i luoghi con la più alta disponibilità di lotta delle masse che però in questa fase sono ancora immobili. La funzione dei GAP è dunque l’utilizzo cosciente della violenza come detonatore della lotta di massa.
[NOTE]
303 Cfr. G. Galli, Storia del Pci. Il Partito comunista italiano: Livorno 1921, Rimini 1991, p. 160, Kaos Edizioni 1993
304 S. Peli, op. cit., p. 14
305 Ibidem, p. 32
306 Ibidem, p. 14
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017

Per avere una percezione numerica dell’enorme quantità di memorie pubblicate negli anni compresi tra l’immediato dopoguerra e il 1950, basta consultare l’articolo “La lotta partigiana in Italia”, <119 che raccoglie tutte le pubblicazioni di quegli anni: esso occupa quattro fogli di giornale a tre colonne, fitte di titoli. Tra questi figurano ricordi di singoli e anonimi partigiani (“Diario di un patriota” <120), di incarcerati, di attivisti politici e diari di brigata – che raccontano la vita magari di un’intera divisione – accanto a ricostruzioni più oggettive del fenomeno (“Caratteri della guerra partigiana in Italia” <121, “Aspetti politici della guerra partigiana in Italia” <122) che spesso tradiscono una certa partecipazione emotiva dell’autore. Anche le prime ricerche propriamente storiche sulla Resistenza, infatti, sono iniziativa di ex combattenti, e risulta quasi impossibile che, a pochissimi anni di distanza, essi riescano a guardare quei momenti con distacco e freddezza.
Il testo di Luigi Longo. Sovrapposizioni tra storiografia e memoria personale
Un esempio di questa impossibilità di evitare la partecipazione emotiva – a così poca distanza dai fatti che si vorrebbero analizzare con oggettività – è il volume “Un popolo alla macchia” di Luigi Longo, uscito nel 1947. Sin dalla dedica si coglie il coinvolgimento sentimentale dell’autore: “Questo libro è dedicato ai morti, ai martiri e agli eroi della guerra di liberazione nazionale, alle loro madri, alle loro spose, ai loro figli con il cui nome sulle labbra essi caddero; a quanti oprarono e soffrirono nei luoghi di battaglia, di deportazione e di prigionia, nelle officine e sui campi della patria perché l’Italia fosse di nuovo libera e rispettata nel mondo, madre premurosa di tutti i suoi figli”. <123
Avendo letto l’articolo di Parri, notiamo subito la somiglianza nello stile e la comunanza dei temi: eroismo, sacrificio, patriottismo. Longo si propone di dare una prima ricognizione della Resistenza italiana, da lui vissuta sin dagli albori.
Questa partecipazione attiva, però, gli impedisce di adempiere completamente allo scopo. Nonostante ciò, alcuni meriti vanno riconosciuti al suo sforzo: Longo è il primo a tentare una periodizzazione della Resistenza, e a studiare l’esperienza italiana confrontandola con il resto dell’Europa. Egli inoltre lega la lotta partigiana all’antifascismo clandestino attivo nel ventennio fascista, messo a tacere dal regime. È importante per lui sottolineare la dimensione popolare di questa guerra di popolo che ha saputo unire operai, contadini e gruppi dirigenti in uno sforzo comune: “Quando è nata la Resistenza italiana? La risposta è facile e sicura: essa è nata col fascismo stesso. Fin dal primo giorno, fin dalle prime manifestazioni di violenza delle camice nere, violenza organizzata e armata contro il popolo, il popolo si è levato alla difesa, alla resistenza e alla lotta. Fin dal primo giorno, la resistenza popolare fu la difesa non solo di semplici interessi di parte, ma della libertà, del progresso e della dignità umana, e, per ciò stesso, dei più vitali ed essenziali interessi nazionali”. <124
Longo descrive gli atti del regime contro la dissidenza antifascista, l’esilio dei primi avversari, il loro lavoro di propaganda clandestina e i contributi all’estero, per esempio nella Guerra di Spagna, a cui lui stesso ha preso parte. In seguito, l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, l’incapacità italiana di ribellarsi alle decisioni di Mussolini, i più tenaci antifascisti messi a tacere al confino: essi però da Ponza, da Ventotene continuano la lotta clandestina. Longo vede come primo successo dell’opera antifascista gli scioperi del marzo ’42 avvenuti nel Nord Italia, che a suo avviso, indeboliscono il regime.
Dopo il 25 luglio gli antifascisti escono dalla clandestinità, ma l’insicurezza del re e gli «inauditi provvedimenti presi dal Governo semifascista di Badoglio» <125 impediscono di organizzare l’esercito italiano contro l’avanzata tedesca, che, secondo Longo, le forze militari italiane sarebbero state in grado di fermare. Il governo preferisce abbandonare L’Italia centro-settentrionale all’avanzata tedesca e lasciare tutto in mano agli Alleati, dopo aver firmato l’armistizio. Ecco che la Resistenza scende sul serio in campo: “Da quel momento, dal pomeriggio del’8 settembre, comincia apertamente la marcia del riscatto vittorioso del popolo italiano: dal popolo minuto che con le sue stesse mani costruirà, pietra su pietra, il proprio avvenire. Abbandonato, tradito, odiato e combattuto, esso esprimerà dal suo seno comandanti geniali, organizzatori capaci, uomini politici che si porranno interamente al servizio della Patria, e che, dal nulla e dal disastro, sapranno fabbricare un esercito nuovo, audace e vittorioso: l’esercito della liberazione nazionale”. <126
Dopo questa parte introduttiva, Longo descrive l’organizzazione vera del movimento partigiano, la sistemazione in montagna, la creazione delle rete di bande, che copre capillarmente il territorio italiano occupato, i primi scontri. Il paese risponde con un grande afflusso di giovani e un continuo susseguirsi di scioperi e resistenze nelle città nei confronti dell’esercito tedesco lì insediatosi. La guerriglia partigiana inizia ad ottenere i primi successi, ma il nemico risponde con altrettanta forza, e con l’arma del rastrellamento. Per rafforzarsi, il partigianato si dota di un Comando Unico, diventando così un’unica organizzazione armata, con un centro coordinatore. La realizzazione del Comando Unico è per Longo una tappa molto importante: “Tutti i combattenti per la libertà e l’indipendenza della patria si sentivano veramente come soldati di un esercito solo, uniti per la vita e per la morte un in blocco che doveva schiacciare il nazifascismo”. <127
L’autunno del 1944 è la stagione della grande offensiva partigiana: in ogni regione le formazioni partigiane sferrano attacchi ai comandi nazifascisti. Longo racconta con toni enfatici alcuni esempi di eroismo e coraggio, come la «bella prova di freddezza e di fermezza» <128 del partigiano “Gaio”. Il clima di lotta continua fino al proclama Alexander, che intima ai partigiani di tornare nelle loro case. Longo descrive la reazione del partigianato: “La risposta la dettero, immediata, tutti i distaccamenti, le brigate, le divisioni, che in quei giorni intensificarono la lotta. La risposta la dettero tutti gli eroi che caddero nei grandi, furibondi rastrellamenti dell’inverno. La dette tutto il popolo, organizzando in tutta l’Italia occupata la «Settimana del partigiano» o scendendo sulle piazze a lottare contro la fame, contro il freddo, contro il terrore. La dettero i comandi periferici che respinsero con sdegno le proposte nemiche di tregua e ordinarono d’attaccare. E la dette su mia proposta il Comando Generale del CVL, con una circolare che, formalmente, era di interpretazione, ma sostanzialmente di rettifica del messaggio di Alexander”. <129
Longo parla poi del grande sostegno popolare durante il durissimo inverno a cavallo tra il ’44 e il ‘45, l’importante contributo femminile delle staffette partigiane, fino alla primavera del ’45 e alla grande insurrezione, alla liberazione delle città più importanti, sostenute da scioperi e agitazioni popolari. E la conclusione è elogio retorico dei combattenti, ricordo dei caduti e già monito enfatico rivolto alle generazioni future: “Ora la guerra è terminata, la vittoria ha arriso all’eroismo e al sacrificio dei nostri combattenti; i nostri morti e i nostri martiri giacciono nella terra della Patria tornata libera. Essi chiedono ai compagni di lotta sopravvissuti, agli italiani cui il loro sacrificio ha ridato libertà e dignità di cittadini, di non frustare il loro sacrificio, di restare fedeli agli ideali per cui assieme si combatté e si soffrì, di continuare per la strada aperta dal loro eroismo e dal loro sacrificio e al cui termine essi videro, morendo, un’Italia unita e rinnovata nellalibertà e nel lavoro, non matrigna, ma madre amorosa e premurosa di tutti i suoi figli. Sappiamo ricordare sempre questa consegna; sappiamo realizzare questo testamento dei nostri morti: eleveremo così il miglior monumento alla loro gloria e alla loro memoria!” <130
La ricostruzione storica che Longo propone si fonda sui ricordi ancora freschi e sullo spoglio dell’archivio delle Brigate Garibaldi, quindi su una documentazione scritta; il volume è infatti corredato da tutta una serie di documenti ufficiali, tabelle e statistiche che rendono conto del fenomeno partigiano nel suo insieme. La partecipazione diretta ai fatti – Longo era vicecomandante del Corpo Volontari della Libertà – non lascia scampo al coinvolgimento emotivo e impedisce all’autore di vedere anche gli aspetti negativi del movimento resistenziale. Per fare un esempio, il progetto del Comando Unico si rivela un completo fallimento, ma Longo evita completamente di parlarne.
È forse per questa eccessiva partecipazione sentimentale che Battaglia considera lo scritto di Longo come un testo di memoria. “Un popolo alla macchia”, infatti, rientra in quella che lo studioso definisce la «triade conclusiva» della prima ondata di memorie: essa comprende anche “La riscossa” di Cadorna, definita «opera svolta in forma di diario o in prima persona», <131 e “Una lotta nel suo corso” di Leo Valiani.
A mio avviso, il testo di Longo non si può definire “memorialistica”. Come comandante del Cvl, egli può aver fatto uso del ricordo personale nella ricostruzione di certi eventi, ma il grosso della sua opera si è fondato sui documenti d’archivio, poiché la maggior parte dei fatti raccontati non sono stati vissuti dall’autore in prima persona.
In conclusione, come si è notato per i “Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese”, anche “Un popolo alla macchia” evidenzia un approccio storiografico ai fatti, che lo allontana dalla semplice memorialistica: d’altro canto, non credo che Longo – a differenza di Bianco – sia riuscito a staccarsi dagli eventi tanto da guardarli con il distacco indispensabile per chi tenta un lavoro storico.
[NOTE]
119 La lotta partigiana in Italia, in “Rassegna bibliografica mensile”, marzo 1950, pp. 24-27.
120 ADRIANA LOCATELLI, Diario di una patriota, Bergamo, Orobiche, 1946.
121 NICOLA DE FEO, Caratteri della guerra partigiana in Italia, Roma, Città Libera, 1945.
122 ALESSANDRO GALANTE GARRONE, Aspetti politici della guerra partigiana in Italia¸ Napoli, Macchiaroli, 1946.
123 LUIGI LONGO, Un popolo alla macchia, Verona, Mondadori, 1947, p. 7.
124 Ivi, p. 11.
125 Ivi, p. 48
126 Ivi, p. 53.
127 Ivi, p. 215.
128 Ivi, p. 311.
129 Ivi, p. 333.
130 Ivi, p. 452.
131 R. BATTAGLIA, La storiografia della Resistenza, cit., p. 90.
Sara Lorenzetti, Ricordare e raccontare. Memorialistica e Resistenza in Val d’Ossola, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, Anno accademico 2008-2009

L’immagine della Resistenza offerta dai modelli letterari trova poi pieno riscontro anche nella storiografia resistenziale prodotta negli anni che vanno dalla fine della guerra al ’52, quando esce il libro di Fenoglio, e anche in seguito, <56 fortemente segnata dalle componenti ideologiche che invece, come si è detto, al nostro mancano del tutto. Il che si traduce per lui, almeno agli occhi della sinistra, in un ulteriore elemento di estraneità e di colpevolezza. Muoverei da una considerazione preliminare di Nicola Gallerano, secondo cui “Gli storici che hanno studiato la Resistenza sono stati sempre fortemente condizionati dal contesto politico-culturale nel quale il lavoro si è svolto”. E questo dato, già noto, risulta amplificato dal fatto che “la storiografia contemporaneistica italiana è nata come storiografia dell’antifascismo e della Resistenza. Il che vuol dire che alle sue radici sta l’intreccio fra storia e politica, originato proprio dalle memorie rispettive di quei fenomeni storici”. <57
Gallerano scrive queste note nel 1995, dunque a breve distanza dall’uscita del già citato volume di Claudio Pavone, <58 al quale egli stesso attribuisce quel ruolo di svolta e rinnovamento profondo che gli verrà unanimemente riconosciuto, e anzitutto il merito di essersi smarcato dal “ricatto della legittimazione”, cioè dalla usata prassi di assumere la Resistenza come strumento di legittimazione di una o dell’altra parte politica. Negli anni qui presi in esame, il punto di vista degli storici è invece determinato da una logica di appartenenza, e tra le varie “letture” diversamente politiche, largamente predominante risulta quella di matrice comunista, che vede la Resistenza come rivoluzione di popolo, come corale rivolta contro l’invasore tedesco e il fascismo della Repubblica Sociale, prima fase di un processo storico di ampio respiro fondato sullo scontro fra le classi e finalizzato a un radicale mutamento sociale e politico. Un primo e immediato esempio si può ricavare dal tono e dal contenuto del testo, emblematico fin dal suo titolo, “Un popolo alla macchia”, con cui, fra cronaca e storia, Luigi Longo, maggiore esponente militare del PCI, dà conto dei principali aspetti e momenti della Resistenza, basandosi sullo spoglio dell’archivio generale delle brigate Garibaldi. Ed eccone, a titolo di esempio, un passo eloquente riferito alla Resistenza romana contro l’occupazione nazista, iniziata con l’8 settembre: “L’annuncio dell’armistizio, dato dalla voce funerea e meccanica del maresciallo alle otto del pomeriggio, sorprese la capitale, cagionando un tumulto di passioni, di illusioni e di speranze. Vi fu una parte che non seppe intuire le conseguenze, e accolse il discorso di Badoglio con il sollievo con cui si accoglie la fine di un incubo. Ma il popolo comprese, e si mise subito in cerca di chi potesse dirigerlo.
Nell’atmosfera eccitata della grande città, al termine di una giornata estiva placida e assolata come tutte le altre, passò un fremito antitedesco e risorgimentale”. <59
L’assunto di fondo di Longo, già implicito nel titolo, è che la Resistenza non è stata opera di ristretti gruppi di combattenti, non ha coinvolto soltanto dirigenti e militanti dei partiti antifascisti, ma ha visto come protagonista l’intero popolo italiano, che per opporsi all’invasione tedesca e al suo complice interno, la Repubblica di Salò, si è “dato alla macchia”, battendosi fino alla vittoria finale.
Una tesi analoga sostiene anche il testo base, che verrà a lungo preso come punto di riferimento per la storiografia di questo periodo, cioè la “Storia della Resistenza italiana” di Roberto Battaglia, a cui peraltro, aldilà della schierata matrice, viene riconosciuta un’alta qualità storiografica. <60
[NOTE]
56 si veda, fra l’altro, Luigi Longo, Un popolo alla macchia; Mondadori, Milano, 1947; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953, poi 1964 (e a questa seconda edizione si riferiscono le successive citazioni), seguito da Breve storia della Resistenza italiana, scritto con Giuseppe Garritano, Editori Riuniti, Roma, 1955; M. Salvadori, Storia della Resistenza italiana, Neri Pozza, Venezia, 1955; R. Carli Ballola, Storia della Resistenza, Edizioni Avanti, Milano-Roma, 1957; R. Battaglia, Risorgimento e Resistenza, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma, 1964; Pietro Secchia e Filippo Frassati, Storia della Resistenza: la guerra di liberazione in Italia, 1943-1945, Editori Riuniti, Roma, 1965; G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Bari Laterza, 1966; Paolo Spriano, Storia del partito comunista italiano, V vol., La Resistenza, Togliatti e il partito nuovo, Einaudi, Torino, 1975, senza dimenticare ovviamente l’importante sintesi operata da F. Chabod, in L’Italia contemporanea. 1919. 1948, Einaudi, Torino, 1961, che contiene il testo delle lezioni tenute alla Sorbona pubblicato in precedenza in lingua francese nel 1950)
57 N. Gallerano, La Resistenza italiana fra memoria e storiografia, in “Linea d’ombra”, anno XIII, aprile 1995, n. 103, p. 5
58 C. Pavone, Una guerra civile, Saggio storico sulla moralità della Resistenza, op. cit.
59 L. Longo, Un popolo alla macchia, op cit p. 55
60 op. cit. Da notare che Battaglia aveva pubblicato in precedenza, quando faceva ancora parte del Partito d’Azione, una delle prime opere testimoniali sulla Resistenza, Un uomo, un partigiano, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano, 1946, licenziato con una prefazione datata addirittura 15 aprile 1945, e del tutto scevro dai canoni della celebrazione e della propaganda
Alessandro Tamburini, L’uomo al muro. La visione della guerra nei “Ventitré giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trento, 2014