La tragedia di Porzûs

Porzûs: la sede della Brigata Osoppo- Fonte: Lino Predel, art. cit. infra

Sin dal luglio 1944 l’OSS (il servizio segreto degli USA che poi diventerà l’attuale CIA, relativo alle operazioni all’estero) aveva avviato in Friuli una propria missione di collegamento con i partigiani, denominata Chicago-Texas. La missione era guidata da due agenti italiani affiliati al PCI, Alfredo Michelagnoli e Giuseppe Gozzer.
La missione fu organizzata sulla scorta di un più ampio accordo tra OSS e Partito comunista, che prevedeva l’arruolamento di “uomini esperti” indicati dal partito, in cambio della possibilità, per quest’ultimo, di utilizzare le radio del servizio segreto per comunicare con i propri dirigenti nell’Italia occupata dai nazifascisti.
Gozzer, tuttavia, sebbene alla testa di una missione alleata, divenne presto capo di stato maggiore della Brigata Garibaldi Friuli, generando incertezze tra i membri del SOE (uno dei vari servizi segreti britannici per operazioni dietro le linee nemiche), già operanti in zona, i quali non avevano chiaro quando considerare le sue iniziative come adottate nella sua qualità di rappresentante degli statunitensi, o in quella di comandante partigiano e comunista.
D’altra parte, non esisteva alcun coordinamento specifico tra le missioni OSS e SOE e questo, a prescindere dal differente approccio politico tra statunitensi e britannici, generò “la più completa confusione”, arrivando a mettere in concorrenza involontaria le missioni inviate indipendentemente su uno stesso territorio, e generando inefficienza e pericoli indebiti per gli stessi agenti alleati. Inoltre, il diverso approccio delle differenti missioni alleate non forniva ai partigiani una coerente immagine dell’alleanza angloamericana, e rendeva meno efficace la loro azione militare.
La scarsità del materiale inviato per via aerea dagli Alleati (sempre subordinato alle esigenze belliche su altri fronti e, comunque, a partire da una disponibilità limitata, frutto della percezione dei partigiani di una disponibilità teorica illimitata da parte angloamericana e, soprattutto, lo scarto notevole tra le promesse delle missioni e il materiale effettivamente giunto (oltre alle differenze riscontrabili tra le promesse di agenti OSS e agenti SOE), indusse – secondo un agente operante in Carnia – l’assunzione da parte della Resistenza locale di un atteggiamento cinico conseguente allo svilupparsi di una scarsa fiducia verso gli Alleati, incoraggiando così la propaganda rivoluzionaria e l’adesione a tendenze filorusse.
In generale, come spiega Claudio Pavone, se i rifornimenti non giungevano, o se ne giungevano pochi, si tendeva, in alcune occasioni, a ritenere che ciò fosse dovuto al fatto che gli eserciti “inglese e americano erano pur sempre strumenti di due potenze capitalistiche e imperialistiche”.
L’agente Nicholson, del servizio britannico, che pure appoggiava il punto di vista garibaldino nelle trattative con le Brigate Osoppo, valutò con estrema durezza l’operato del Gozzer, stigmatizzando come, a suo parere, l’OSS stesse affidandosi ad un “fantoccio mercenario” completamente sotto il controllo “del più violento comunista” del nord Italia.
Dal canto suo, Michelagnoli inviava rapporti all’OSS nei quali elogiava le Garibaldi per lo “spirito combattivo” e il “sicuro antifascismo”, mentre accusava le Osoppo di avere tra i propri membri numerosi ex fascisti e personaggi politicamente compromessi, pur rimarcando come tra le due formazioni non vi fossero incidenti degni di nota.
A proporre una diversa visione all’OSS vennero i rapporti di un’altra propria missione – guidata da uno statunitense, il maggiore Lloyd Smith – inviata in zona e controllata da una sezione del servizio diversa da quella responsabile per la Chicago-Texas. Lloyd Smith, nei propri rapporti, segnalò Gozzer come un attivo propagandista comunista, impegnato nel sabotare scientemente i tentativi di pacificazione tra diverse formazioni partigiane nei quali lo stesso Lloyd Smith era impegnato.
Lloyd Smith chiese inutilmente al proprio comando che gli fosse conferita l’autorità necessaria per imporre il suo punto di vista – che era quello politico di parte alleata, che riteneva utile e necessaria la pacificazione e il coordinamento tra le Osoppo e le Garibaldi – arrivando a minacciare il ritiro della propria missione. Nel novembre 1944 giunsero al comando OSS di Caserta proteste simili di parte britannica, relative alla medesima situazione. Tuttavia, il responsabile della missione criticata, Suhling, respinse duramente al mittente le accuse, ribaltandole su Nicholson e Smith, sostenendo fossero essi a dare un connotato politico alla loro azione nel tentare di “unificare formazioni di diversa estrazione ideologica”, contribuendo così ad interpretare l’azione alleata come una “pressione politica” e pretendendo di “influenzare se non di dirigere” le organizzazioni partigiane. Suhling concluse proponendo la rimozione di Smith.
I faticosi ma largamente infruttuosi tentativi di pacificazione ed unificazione delle formazioni Osoppo e Garibaldi condotti dagli agenti inglesi durante l’estate del 1944 fallirono definitivamente quando la zona fu sottoposta a violenti rastrellamenti da parte tedesca. Nicholson non poté che prendere atto che, tra i garibaldini, l’ostilità verso gli Alleati (per la scarsità di lanci di rifornimento e per gli scarsi progressi dell’avanzata in Italia) e verso le Osoppo era cresciuta, anziché diminuire. Le Garibaldi avevano parallelamente aumentato la loro attività politica. Addirittura, gli agenti inglesi erano stati minacciati di arresto e di fucilazione.
A seguito di tali fatti e di tali minacce, lo stesso Nicholson si spostò verso Udine, abbandonando così il settore. Sul lato orientale del fiume Tagliamento (che, con un vasto letto ghiaioso largo circa un chilometro costituiva un vero confine naturale) la situazione era ancora più difficile, in quanto tale territorio era apertamente rivendicato dai partigiani jugoslavi.
Questi, ad una politica fortemente ostile verso le Osoppo, univano continue pressioni affinché i garibaldini fossero posti direttamente alle loro dipendenze. Un agente alleato inviato nella zona, al seguito del maggiore Thomas MacPherson, scrisse al suo comando una relazione nella quale segnalava che il IX Korpus sloveno considerava il maggiore e le Osoppo come collaboratori dei tedeschi e che, per questo motivo, sia la missione inglese, sia le Osoppo andavano eliminate a qualunque costo, in quanto considerati elementi che si opponevano al loro disegno annessionistico.
Le Osoppo, in particolare, erano considerate un “nemico naturale” dai partigiani sloveni, che conducevano una violenta propagada contro di essi, giungendo a disarmarle ove possibile, e rifiutando loro ogni diritto di reclutamento. A quel punto, concludeva l’agente, le Osoppo si trovavano a combattere contro sette nemici contemporaneamente: i tedeschi, i russi (al servizio dei tedeschi), i fascisti repubblicani, gli sloveni, i garibaldini, le spie civili e l’inverno. Nel novembre 1944 la divisione Garibaldi Natisone trasse il dado e passò alle dirette dipendenze degli sloveni, chiudendo ogni contatto con le Osoppo. MacPherson, sollecitato anche dal comando Alleato a Caserta (dove giunsero poco dopo le denunce di Lloyd Smith e dei servizi inglesi), tentò un’ultima – disperata, quanto infruttuosa – mediazione.
Il 15 dicembre 1944 Macpherson incontrò i capi della Natisone e lamentò come dal momento del loro passaggio alle dipendenze del IX Korpus [sloveno], si fossero verificati frequenti incidenti tra le brigate garibaldine e le Osoppo, aggiungendo che le divergenze politiche andavano assolutamente rimandate a dopo la fine della guerra, e che in nessun caso potevano costituire intralcio alle operazioni militari, sottolineando, a titolo di rassicurazione, come gli Alleati fossero vincolati da accordi internazionali a non ingerirsi nelle questioni politiche interne dei singoli Paesi liberati. Ma l’appello cadde nel vuoto e, anzi, la situazione continuò a precipitare. Negli stessi giorni un agente inglese, il caporale Michael Trent rimase ucciso in circostanze mai definitivamente chiarite, forse dagli sloveni, i quali fecero correre voce che sia MacPherson, sia Trent, erano stati da essi condotti “davanti alla giustizia”.
Nella sua relazione stesa dopo la fine della guerra, MacPherson espresse la convinzione che i garibaldini avessero accettato il suggerimento di un comando unificato con le Osoppo solo al fine di ottenere in cambio un aumento dei lanci di rifornimento alleati, accaparrandosi poi la maggior parte delle armi, che conservarono durante l’attacco autunnale tedesco, mentre le Osoppo, pesantemente sconfitte, persero gran parte del loro equipaggiamento.
Il passaggio della Natisone sotto comando sloveno segnò l’occupazione di tutta la zona da parte del IX Korpus che, secondo MacPherson, vi dichiarò illegale l’italiano, impondendo in ogni ambito l’uso dello sloveno e organizzarono alcuni “plebisciti” annessionistici con le schede aperte sotto la minaccia delle armi. Lanciarono inoltre una violenta campagna propagandistica contro le Osoppo, arrestandone e deportandone alcune staffette, e accusando gli osoviani di capitalismo, fascismo, e collaborazione con i tedeschi. Tuttavia furono gli sloveni, in un certo senso, a collaborare con i tedeschi, segnalando loro le basi e i movimenti delle Osoppo.
Al contempo, sia le Osoppo che la missione inglese furono accusate di essere spie tedesche.
Nonostante tali denunce, la posizione del SOE non fu modificata in senso anticomunista e, anzi, esso si preoccupò di lasciare chiaro che le posizioni espresse dai suoi agenti sul campo fossero da attribuire esclusivamente ad essi stessi, e non al servizio. Pertanto, agli inizi di febbraio 1945, comunicò ai propri agenti che non era possibile intervenire in alcun modo sugli sloveni, e che gli agenti erano tenuti a tenersi fuori da qualsiasi scontro tra sloveni e partigiani non comunisti. Solo pochi giorni dopo fu consumato l’eccidio di Porzûs.
Nella sua relazione finale, MacPherson lo definì come punto culminante di una campagna che durava da diversi mesi e aggiunse che, nelle intenzioni slovene, anche la missione inglese avrebbe dovuto essere eliminata allo stesso modo.
Redazione, Le missioni alleate e il conflitto tra le Brigate Osoppo e le Brigate Garibaldi, Bella Ciao, Milano!

Il cosiddetto “eccidio di Porzûs” ha una storia complicata e diversi punti poco chiari. A pochi chilometri dal confine con la Slovenia, in provincia di Udine, ci sono alcune zone che da molti secoli hanno una forte presenza slava, la cosiddetta “Slavia veneta”. Durante le ultime fasi della II guerra mondiale, nella zona c’erano gruppi armati formati da persone di etnia slovena, in collegamento coi partigiani di Tito, che avevano formato un esercito ben strutturato per la liberazione della futura Jugoslavia. Tito aveva fatto capire chiaramente, e da diversi mesi, di considerare la zona parte della Jugoslavia.
In Friuli, oltre ai partigiani slavi, c’erano poi i gruppi formati dagli italiani: quelli comunisti, che come nel resto del nord Italia facevano parte delle Brigate Garibaldi, e quelli di altri orientamenti politici, in particolare cattolici e liberali politicamente vicini al Partito d’Azione, delle brigate “Osoppo” fondate all’inizio del 1943 da alcuni sacerdoti.
Le Brigate Garibaldi, alla fine del ’44, avevano accettato (dietro esplicito ordine di Togliatti, segretario del PCI) di obbedire agli ordini dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, nell’ottica di consegnare la piccola area della Slavia veneta al confine con la Slovenia al nuovo stato che sarebbe stato formato da Tito dopo la guerra. Le Brigate Osoppo, invece, erano contrarie a un’alleanza simile: la contrapposizione tra cattolici, liberali, monarchici e comunisti era molto decisa e portò rapidamente a una spaccatura insanabile. La sede locale del Comitato di Liberazione Nazionale, a Udine, da cui dipendevano sia la Osoppo che la Garibaldi, provò a mediare senza successo, in un clima che diventava sempre più difficile, con reciproche accuse di delazione e di collaborazionismo coi tedeschi.
In questa atmosfera, il 7/2/’45 un gruppo di partigiani comunisti dei GAP (Gruppi di Azione Patriottica), formato da un centinaio di persone, arrivò ad alcune malghe di montagna in una località che, subito dopo la guerra, venne chiamata Porzûs dal nome del paesino vicino in cui abitava il loro proprietario. Le malghe si trovavano in provincia di Udine, nel comune di Faedis, e il gruppo si era spostato lì per ordine della federazione del Partito comunista di Udine. Il comandante era Mario Toffanin detto “Giacca”, allora 32enne, ex operaio iscritto al PCI dal 1933 e in stretti rapporti coi comunisti jugoslavi.
Subito dopo la Liberazione (25/4/’45) i primi a denunciare data e dinamica dell’eccidio furono i comandanti osovani Candido Grassi “Verdi” (all’epoca socialista, in seguito deputato socialdemocratico) e Alfredo Berzanti “Paolo” (democristiano). Questi accusarono i partigiani comunisti di aver ucciso i propri compagni di lotta «sol perché si erano resi colpevoli di non aver voluto combattere i tedeschi sotto la bandiera jugoslava.
La vicenda di Porzûs è stata nel dopoguerra trattata in molti giornali e libri a livello nazionale, e nel Friuli-Venezia Giulia non è passato anno senza che fosse ricordata in manifestazioni di varia natura, anzi, in questa regione Porzûs è stato uno dei miti fondanti del ceto politico dominante, in gran parte di origine osovana.
Su Porzûs inoltre si è per la prima volta evidenziata quella convergenza destra-sinistra tesa a ricostruire un immaginario condiviso anticomunista. Non è un caso che il film ‘Porzus’ (1997) sia stato finanziato dall’allora governo di centro-sinistra, cioè dal ministro della cultura Walter Veltroni, ma apprezzato anche a destra.
In sostanza la tesi che passò (la stessa delle forze dominanti in tutti questi 60 anni, ma con la differenza che veniva fatta propria anche dagli eredi del PCI) era quella della responsabilità dei comunisti friulani, e del PCI più in generale, presentati come asserviti agli interessi jugoslavi, mentre gli osovani risultarono i patriottici difensori dei confini dalle mire jugoslave.
Ma andiamo ad analizzare l’elenco dei nomi che si trovano sulla lapide a Porzûs, un elenco di 20 nomi, alcuni dei quali, come vedremo, sicuramente non centrano con questi fatti:
Comandante Bolla, Francesco De Gregori: insignito di medaglia d’oro al valor militare. Era stato un ufficiale dell’esercito, volontario in Spagna (coi fascisti), combattente nei Balcani, monarchico. Aderì all’”Osoppo” nella primavera del ’44. Era il comandante del Gruppo Brigate “Osoppo dell’Est”, ma proprio nel giorno dell’eccidio si stava trasferendo in pianura per assumere l’incarico di capo di stato maggiore del gruppo divisioni “Osoppo-Friuli”, ma anche per incontrarsi col federale fascista di Udine, Mario Cabai. Il suo posto al gruppo di Brigate dell’Est doveva essere preso da Centina, Aldo Bricco (scampato all’eccidio fuggendo e curato dalle ferite in un ospedaletto sloveno).
Bolla viene sempre indicato come comandante della I Brigata, ma in realtà non lo era più dall’estate del ’44, quando era diventato vicecomandante della divisione unificata “Osoppo-Garibaldi” e poi, allo scioglimento di questo comando, era diventato comandante appunto del gruppo brigate “Osoppo dell’Est”. Dal momento che la I Brigata ha avuto altri comandanti, non si capisce perché questi siano stati oscurati, se non ipotizzando che per la ricostruzione di questa vicenda fosse meglio che i loro nomi non venissero ricordati. Avranno infatti tutti un ruolo importante nelle organizzazioni clandestine anticomuniste sorte in Friuli già prima della fine della guerra e confluite poi in Gladio. Il comandante della I brigata al momento dei fatti di Porzûs era Marino Silvestri, futuro membro di Gladio/Stay Behind, che non fu mai chiamato a testimoniare, sebbene fosse stato fra gli artefici di un accordo coi repubblichini e i nazisti in funzione antigaribaldina noto come il Presidio di Ravosa, di cui si parlò molto al processo di Lucca. Poi c’era il delegato Politico Enea, Gastone Valente: era del Partito d’Azione. Nel dopoguerra, in una sua intervista, Giacca avrebbe dichiarato che l’unica cosa di cui si dispiaceva riguardo all’azione che aveva comandato, era la morte di Enea. Era uno dei non numerosi azionisti rimasti nella “Osoppo” dopo il cosiddetto golpe di Pielungo del luglio del ’44, quando la componente militare e democristiana della Osoppo con una sorta di putsch aveva allontanato i dirigenti azionisti, troppo inclini al comando unitario coi garibaldini. Tuttavia, secondo la testimonianza al processo di Maria Pasquinelli, agente al servizio della X Mas, a casa di Enea sarebbero avvenuti i primi contatti fra “Osoppo” e X Mas per costituire un fronte unitario antislavocomunista. Ma probabilmente la Pasquinelli si era fatta accogliere in casa con un ricatto. Anche Enea viene di solito indicato con un ruolo sbagliato, come delegato politico della I Brigata Osoppo, mentre lo era della VI, oppure si dice anche che stava per prendere il posto di Alfredo Berzanti come delegato politico del gruppo Brigate dell’Est, cosa che non risulta dai documenti. È stato insignito della medaglia d’argento al valor militare. Non si capisce il perché di questa discriminazione rispetto a Bolla, medaglia d’oro, dal momento che sono morti nelle stesse circostanze e la storia partigiana di Enea era anche più intensa di quella di Bolla.
Sulla lapide poi ci sono i nomi di battaglia degli uccisi in ordine alfabetico; di questo elenco, si può rilevare:
– il corpo di Egidio Vazzaz, “Ado”, non è mai stato trovato, né ci sono altre prove valide perché sia stato inserito fra gli uccisi;
– “Rinato”, “Mache” e “Vandalo” sono morti in altre circostanze che già al processo di Lucca, nel 1951, erano emerse e non centrano con Porzûs;
– “Flavio”, Erasmo Sparacino, risulta dai documenti presso l’anagrafe di Cividale fucilato dai nazisti il 12/02/’45; anche il suo nome continua a essere citato fra le vittime di Giacca;
– “Gruaro”, Comin Giovanni, non era osovano, ma garibaldino e il suo nome da partigiano era “Tigre”; non si capisce come mai i dirigenti osovani lo abbiano indicato sia nella lapide sia nel processo con questo nome di battaglia del tutto inventato;
– Di fronte a tanti nomi sbagliati o che non dovrebbero esserci, nella lapide manca invece quello di Elda Turchetti, che pure nei giorni precedenti all’eccidio era stata arruolata nelle file osovane, con un numero di matricola, 1755, e nome di battaglia, “Livia”. Ciò risulta dallo stesso diario di Bolla e da documenti presenti nell’Archivio “Osoppo”.
L’eccidio di Porzûs fu presentato come l’esecuzione di un ordine degli sloveni; per sostenere questo venne presentato al processo dall’accusa un breve documento a firma di Ultra, Alfio Tambosso, il responsabile organizzativo della Federazione clandestina del PCI di Udine. In tale documento indirizzato in modo generico a “cari compagni” e datato 27/1/’45, si chiedeva di mandare in montagna circa 100-150 persone “da porre alle dipendenze della Divisione ‘Garibaldi Natisone’, operante agli ordini del Maresciallo Tito”. Come risulta dall’analisi del documento, questo non può essere affatto l’ordine dell’azione di Porzûs, ma i giudici non andarono troppo per il sottile e ancora una volta accettarono le tesi osovane. È importante ricordare un altro fatto: i dirigenti osovani si procurarono questo documento con un furto nella sede dell’ANPI, come l’autore del furto (Giorgio Brusin, futuro membro di Gladio/Stay Behind) avrebbe ammesso anche nel corso del processo. Nello stesso furto si procurarono anche l’altro documento d’accusa fondamentale, e cioè quella che sarebbe la relazione dell’azione, inviata dal triumvirato gappista Marino, Marco e Valerio alla Federazione del PCI e al Comando della “Natisone”. Che fosse procurata con un furto all’ANPI da parte di alcuni osovani non turbò i giudici. Ma val la pena di ricordare ciò che disse Mario Fantini – Sasso, l’eroico comandante della divisione “Garibaldi-Natisone”, da dietro le sbarre della gabbia in cui gli imputati erano rinchiusi: “Come hanno rubato i documenti, possono aver rubato anche i timbri”, intendendo che potevano aver falsificato i documenti.
Tornando al contesto generale dell’autunno del ’44, bisogna ricordare ancora che in ottobre c’era stata la liberazione di Belgrado e gli Jugoslavi rivendicavano i territori italiani abitati anche da sloveni e croati, in sostanza la Benecija nell’attuale provincia di Udine, e tutta la Venezia Giulia. In quello stesso autunno si sviluppano i contatti di vari esponenti della Repubblica di Salò, primo fra tutti Junio Valerio Borghese, con esponenti della Resistenza non comunista, per la costituzione di un fronte anticomunista e antislavo. Di questi contatti si ha ampia attestazione, e i documenti relativi si trovano anche agli atti del processo di Lucca. Contatti si ebbero dai massimi vertici della Osoppo sia coi nazisti (e non soltanto per scambio di prigionieri, come affermò don Moretti) sia e soprattutto coi fascisti. Questi contatti si infittiscono nel gennaio del ’45, poco prima dell’eccidio di Porzûs, ci fu un’incontro con Candido Grassi, il massimo esponente militare della Osoppo e il capitano Morelli della X Mas, delegato da Junio Valerio Borghese.
Anche il delegato politico di Bolla, Alfredo Berzanti, fu pesantemente coinvolto in trame coi nazifascisti, in particolare per la costituzione del presidio di Ravosa, formato da osovani e repubblichini, ufficialmente in funzione anticosacca (i cosacchi erano alleati dei repubblichini!) ma in realtà in funzione antigaribaldina. Lo stesso Bolla era coinvolto in questi contatti, ed infatti proprio il giorno dell’eccidio avrebbe dovuto incontrarsi col federale fascista di Udine, Mario Cabai. Da quanto risulta dallo stesso diario di Bolla, nel gennaio del ’45 egli stava mettendo in piedi una formazione di Arditi in funzione antislovena e antigaribaldina.
Tutti questi contatti non sfuggivano ai garibaldini, i quali ne erano grandemente preoccupati. Anche a livello di base c’erano molti sintomi, che si esplicitavano per esempio nel diverso trattamento di tedeschi e fascisti nei confronti dei prigionieri osovani o garibaldini.
In queste regione friulane c’era la presenza di molti apparati militari: inglesi, americane e del governo del sud. Il capo di una di queste, il maggiore inglese Nicholson era al corrente dei contatti fra “Osoppo” e X Mas, e un suo agente, Cino Boccazzi, ne fu il principale mediatore. Dai documenti di queste missioni emergono anche contrasti fra inglesi e americani, che si stavano giocando il controllo dell’area che si sapeva già strategicamente importante nel dopoguerra, come confine non solo con la Jugoslavia, ma anche coi paesi dell’est.
Le missioni del governo del Sud tramavano per un accordo fra resistenza non comunista e repubblichini in funzione antislava, e proprio nei giorni in cui si svolgeva la vicenda di Porzûs operarono per provocare una reazione armata congiunta osovano-repubblichina antislava e antigaribaldina.
Per avere un quadro abbastanza completo della situazione precedente all’eccidio, nei rapporti fra garibaldini e osovani, bisogna ricordare ancora che nel gennaio del ’45 i garibaldini avevano raccolto alcune testimonianze di tradimenti da parte degli osovani. In particolare proprio i gappisti di Giacca avevano raccolto la confessione di un certo “Brontolo”, Marcon Guido, ex osovano, arrestato dai tedeschi e poi infiltratosi fra i gappisti, ai quali aveva raccontato, facendo anche i nomi fra cui quello di Bolla, non solo dei contatti di questi coi fascisti, ma di uccisioni di garibaldini commesse dagli osovani. Marcon Guido fu poi fucilato come spia.
In quegli anni in Friuli crebbero le grandi organizzazioni clandestine anticomuniste, il III Corpo Volontari della Libertà, l’organizzazione “O” (da “Osoppo”) del generale Olivieri, i cui aderenti sarebbero poi confluiti in Gladio/Stay Behind, costituita nel 1956 con un accordo anticostituzionale fra servizi segreti americani e italiani. Tali organizzazioni avrebbero letteralmente avvelenato il clima politico e sociale della regione, in stretta alleanza con la Chiesa udinese dell’arcivescovo Giuseppe Nogara, prima entusiasta del fascismo, poi collaborazionista dei nazisti e poi organico alla guerra fredda alleata. Gli uomini di queste organizzazioni erano in gran parte osovani, ma anche ex repubblichini riciclati in massa negli ultimi giorni di guerra, come i rastrellatori antipartigiani del Reggimento alpini “Tagliamento” (repubblichini di Salò), entrati in massa nella “Osoppo” nell’ultimo giorno di guerra […]
Redazione, 7 febbraio 1945: Eccidio di Porzûs (1° parte), ricercatori senza padroni, 29 gennaio 2015

Alle malghe di Porzûs infatti, il 7 febbraio del 1945, iniziò il massacro a tradimento dei partigiani italiani della “Osoppo” da parte di alcuni partigiani italiani comunisti, un massacro protrattosi ancora nelle settimane seguenti con crudeltà e cinismo.
Tra le vittime, oltre a ragazzi provenienti da varie regioni d’Italia, finirono anche alcuni tra i personaggi più noti della Resistenza friulana: Francesco De Gregori, Gastone Valente e Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, il quale in seguito a questo episodio, non riuscì mai ad elaborare il conflitto doloroso tra i suoi sentimenti personali e quelli politici.
Alla “Osoppo”, impegnata nella lotta al nazi-fascismo, veniva imputato di opporsi alla penetrazione slavo-comunista, prevista fino al Tagliamento.
Per questo motivo recondito sulla “Osoppo” piovvero così, preventive e false, le accuse di tradimento, di complicità coi fascisti e con la X Mas di Borghese.
Questo avrebbe continuato a scrivere, ancora nel 1976, Mario Toffanin, detto Giacca, il capo responsabile dell’eccidio, rifugiatosi nella Jugoslavia titina e mai pentitosi, in una lettera a Don Redento Bello.
Ancora nel settembre 1997 il settimanale L’Espresso ricordava che, oltre alla strage di Porzûs, gravavano su “Giacca” sentenze per capi d’imputazione pesanti, quali estorsioni, rapine, omicidio, crimini comuni, quelli, senza alcuna motivazione politico-ideologica.
Toffanin non venne mai meno a toni di una certa violenza ideologica, e con tutto ciò non mancò di estimatori pronti a rilanciarla ad ogni minimo progresso dei difficili intenti di pacificazione.
[…] Tornando all’epoca dei fatti, va ricordato che lo sloveno Edvard Kardelj, un importante collaboratore di Tito, in una lettera del 9 settembre 1944 inviata alla direzione del PCI Alta Italia tramite Vincenzo Bianco, (uomo prescelto da Togliatti come delegato del partito presso il Fronte di Liberazione Sloveno), scrisse che all’interno delle formazioni partigiane italiane occorreva “fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti”. Con riferimento alle zone di operazioni del IX Korpus, così proseguì: “Non possiamo lasciare su questi territori nemmeno un’unità nella quale lo spirito imperialistico italiano potrebbe essere camuffato da falsi democratici”, auspicando il passaggio dell’intera regione alla nuova Jugoslavia: “Gli italiani saranno incomparabilmente più favoriti nei loro diritti e nelle condizioni di progresso di quel che sarebbero in un’Italia rappresentata da Sforza, ministro del governo provvisorio”.
Rispetto alla Osoppo, rilevò che fosse “sotto una forte influenza di diversi ufficiali badogliani e politicamente guidata dai seguaci del Partito d’Azione”
A seguito della lettera, Bianco intraprese, a nome del PCI, una serie di colloqui coi rappresentanti del comitato centrale del PCS.
Il 17 settembre inviò una lettera a Togliatti nella quale rivelò d’aver acconsentito alla cessione delle zone reclamate dagli sloveni:
“Non potevo oppormi alle giuste rivendicazioni nazionali di un popolo, che da tre anni combatte eroicamente contro il nostro comune nemico e non potevo dividere…la città di Trieste e altri centri dal loro naturale retroterra”.
Il 24 settembre Bianco spedì alle federazioni del PCI di Gorizia, Trieste e Udine, al commissario politico delle formazioni Garibaldi Friuli Mario Lizzero “Andrea” e al comitato centrale del PCS una lunga missiva riservatissima, firmata a nome del Comitato Centrale del PCI, che riproponeva i postulati di Kardelj.
[…] Le forze partigiane slovene chiesero ai reparti italiani di passare sotto il loro controllo, al fine di coordinare meglio la lotta.
I garibaldini accettarono per ragioni politiche e militari, e così la divisione Garibaldi Natisone, già operante in stretto coordinamento con gli sloveni ma anche, sulla base di un comando unificato, con le Osoppo, passò sotto la dipendenza del IX korpus e si trasferì in Slovenia.
La Prima Brigata Osoppo, guidata dal capitano Francesco De Gregori, insieme con un delegato politico democristiano, Alfredo Barzanti, ed un azionista, Gastone Valente, si stanziò, invece, sulle Prealpi Giulie, nelle malghe di Porzûs, e restò isolata.
A quel punto, i rapporti tra garibaldini e osovani si fecero tesissimi: De Gregori accusava i comunisti di essere “nemici occulti”, mentre l’Osoppo era accusata “non solo di patteggiamenti col nemico ma di avere ucciso direttamente, o informando il nemico, decine di garibaldini”.
Si trattava di accuse infamanti e infondate, sostenute in rapporti inviati al PCI di Udine e ai comandi delle Garibaldi, ma non al CLN provinciale, spediti da Toffanin, un “estremista fanatico” legato agli sloveni e al PCI udinese, già responsabile di aver abbandonato, con il proprio reparto e senza ragione, il settore a lui affidato nella zona libera del Friuli orientale.
Il PCI di Udine, che aveva salvato Toffanin dalla fucilazione alla quale era stato destinato dal comando della Garibaldi Natisone, condivise le accuse alle Osoppo.
Il 7 febbraio 1945, cento garibaldini di un reparto guidato da Toffanin, si finsero partigiani sbandati, salirono alle malghe di Porzûs e uccisero De Gregori, Valente, una donna e perfino un partigiano garibaldino che, scappato da un treno che lo stava deportando, aveva avuto l’ordine di raggiungere il comando partigiano più vicino, che era appunto quello di De Gregori.
Aldo Bricco, nuovo comandante della Prima Brigata Osoppo, poiché De Gregori era stato da poco nominato capo di stato maggiore della formazione, si salvò per puro caso; altri 14 partigiani osovani furono portati a valle e uccisi nei giorni successivi.
La presenza della donna, Elda Turchetti, fu il pretesto con cui “Giacca” giustificò la strage.
L’estrema povertà della famiglia aveva spinto la donna a ricercare un lavoro meglio remunerato: su indicazione di un compaesano, “Franco” Trangoni, all’inizio dell’estate del 1944 abbandonò il cotonificio dove lavorava essendo stata segnalata per una occupazione presso i tedeschi.
La Turchetti entrò in contatto con Mauro Pietro di Reana del Rojale (UD), un collaborazionista della zona, che le spiegò le sue mansioni: spiare le persone che di volta in volta le fossero state indicate.
Secondo però quanto affermò in seguito la stessa Turchetti, lei avrebbe rifiutato quel compito e si sarebbe limitata a portare solo del denaro o dei messaggi.
La sua attività con i tedeschi durò dalla fine di giugno alla fine di luglio del 1944, dopo di che lasciò il lavoro e ne trovò un altro come lavabiancheria a Udine.
A fine novembre del 1944 qualcuno la denunciò ai partigiani e, tramite la polizia garibaldina di Colugna e la missione alleata inglese presso i partigiani friulani, il nome della Turchetti venne segnalato da Radio Londra come “pericolosa spia dei tedeschi”.
La donna venne immediatamente informata della cosa e il 9 dicembre 1944 si presentò di sua iniziativa “a un capo garibaldino di sua conoscenza”, probabilmente Attilio Tracogna, “Paura”, che la condusse al comando della GAP di Siacco comandata da Adriano Cernotto, “Ciclone”, il quale, non sapendo quali decisioni prendere, la riconsegnò a “Paura”.
La Turchetti venne accompagnata quindi a Canalutto (UD) dall’osovano Agostino Benetti, “Gustavo”, dipendente dal responsabile dell’Ufficio Informazioni della Osoppo Gruppo Brigate dell’Est, Leonardo Bonitti detto “Tullio”.
Il giorno 11 dicembre la Turchetti venne interrogata proprio da “Tullio”, in seguito fu affidata all’osovano Ivo Feruglio “Marinaio”, che il 13 l’accompagnò alle malghe di Topli Uork sopra Porzûs, dove aveva sede il comando del Gruppo, agli ordini di De Gregori “Bolla”.
Con gli osovani Elda Turchetti rimase fino al giorno in cui fu uccisa dai gappisti di Mario Toffanin, venendo impiegata prevalentemente per cucinare e per altre incombenze logistiche.
Solo negli anni settanta è emersa dall’archivio di Lubiana la documentazione sequestrata dai gappisti a Topli Uork, contenente un “Verbale di assoluzione in istruttoria” del 1º febbraio 1945, dal quale si ricavava che quel giorno Elda Turchetti venne pienamente assolta dalle accuse rivoltele “in quanto dopo un mese di servizio al soldo del nemico, disgustata da tale servizio, lo aveva abbandonato, in quanto… non aveva compiuto alcuna azione che avesse danneggiato la lotta partigiana e in quanto aveva chiesto di riabilitarsi entrando nell’Osoppo”.
A questo punto la donna venne regolarmente inquadrata fra i partigiani della Osoppo col nome di “Livia” e il numero di matricola 1755.
[…] Una toccante lettera dattiloscritta, fu ritrovata tra le carte di Pierpaolo Pasolini da Antonella Giordano mentre curava per Garzanti la nuova edizione dell’epistolario del poeta, scrittore e regista.
Risaliva al maggio 1945, quando arrivò la notizia ufficiale della morte di Guido, suo fratello partigiano, ucciso durante l’eccidio di Porzûs: Il dolore più straziante ci è nato quando abbiamo visto una tua fotografia di quando avevi quattordici anni; quel tuo viso che m’assomiglia, con gli occhi cerchiati e un’espressione patita di ragazzo robusto ma troppo entusiasta, ci ha gettato nel cuore un impeto, una rabbia di pianto, come se tutto il nostro passato comune ci avesse sommerso. Hai udito come la mamma gridava, chiamandoti? Ora essa è qui, seduta, che tace. Se tu la vedessi, come la riconosceresti! L’infinito dolore che le hai dato non l’ha segnata, è sempre la nostra giovinetta, col suo viso carissimo della mattina, quando non ha ancora fatto la toeletta, e sfaccenda e s’affatica per casa. È lì che tace, con uno di quei suoi fazzoletti chiari sul capo; tu la riconosceresti, perfettamente, non è mutata per nulla; ma forse ti riuscirebbe un po’ nuova, come a me, quella sua espressione, soprattutto della bocca, che è forse un atteggiamento di dolore, ma io m’illudo, mi sforzo a credere che sia una specie di sorriso. Non sono passati che due notti e un giorno da che abbiamo saputo della tua morte, e una sola notte da quando quella tua fotografia ci ha dato per un attimo la sensazione, la divinazione dell’immensità del nostro dolore. E quindi tu ti meraviglierai come io possa aver preso la penna in mano, e incominciato a scriverti; me ne sarei meravigliato anch’io, solo tre giorni fa, benché coi pensieri di questa specie mi sia da molti mesi approfondito. Ma a che serve la nostra meraviglia? Ecco una realtà: tu laggiù un giorno di questo inverno, morto su un prato, o chissà dove; ed ecco un’altra realtà: io che ora, in questa stanzetta di Versuta, che tu hai conosciuto quando non vi avevamo ancora trasportato i mobili, io che ora ti scrivo. Dobbiamo arrenderci. E la resa, si vede, è necessaria; viene dal nostro corpo medesimo, quello che tu non hai più, ed io ho. È necessario poiché scrivendoti non penso che tu sia morto, ma vivo, anche se immancabilmente diverso da quel ragazzo che fu mio fratello, e che ho visto perfettamente, carnalmente, fatalmente tale nella fotografia”. […]
Lino Predel, Porzûs, la rabbia e la vergogna, Latina città aperta, Una voce fuori dal coro, 21 febbraio 2020

In questi giorni dedicati alla memoria (dei crimini del nazifascismo) e del ricordo (delle “foibe” e dell’esodo dall’Istria) cade anche un altro anniversario, quello dell’eccidio di Porzûs, quando un gruppo di partigiani “bianchi” della Divisione Osoppo fu ucciso da partigiani della Garibaldi, comandati da Mario Toffanin “Giacca”. La vicenda, tuttora controversa nonostante (o, forse, anche per) il complicato iter giuridico svoltosi nel dopoguerra, mostra ancora tanti punti oscuri ed è impossibile parlarne in queste poche righe (vi rimandiamo per questo a due studi, “Porzûs, Dialoghi sopra un processo da rifare, di A. Kersevan, Kappa Vu 1995 e “Porzûs: la Resistenza lacerata”, di D. Franceschini, IRSML FVG 1996): diciamo soltanto che alle malghe di Porzûs si trovava, assieme agli osovani comandati da Francesco De Gregori “Bolla”, una donna denunciata come spia da Radio Londra (Elda Turchetto, che fu tra gli uccisi), e che si era diffusa la notizia che l’Osoppo aveva avuto dei contatti con la Decima Mas in funzione anticomunista ed antijugoslava.
Tralasciando le possibili interpretazioni della vicenda vorremmo invece in questa sede parlare del ruolo avuto dall’avvocato di parte civile al processo iniziato a Lucca nel 1951, il triestino Luigi Giannini.
L’avvocato Giannini, medaglia d’argento al valore militare (ma non siamo riusciti a trovare le motivazioni di questa onorificenza), padre di Enrico Giannini (militare della “Legnano” rientrato a Trieste nel maggio 1945 ed arrestato dalle autorità jugoslave, poi scomparso in prigionia), aveva assunto, nel 1947, la difesa di Maria Pasquinelli. Ricordiamo chi era Maria Pasquinelli, ex insegnante di mistica fascista, che si recò come crocerossina in Africa e lì sì travestì da uomo per combattere con l’esercito italiano (e per questo motivo fu espulsa dalla CRI); dopo l’8 settembre si era recata in Istria e in Dalmazia, dove aveva condotto delle ricerche sulle “foibe” per conto della Decima Mas e successivamente aveva fatto da collegamento tra la Decima e la Osoppo (abbiamo trovato in rete questo riferimento al lavoro di Pasquinelli, ma il link non è più disponibile: “tentò verso la fine del 44 e gli inizi del 45, su mandato del comandante Borghese, di trovare un accordo fra la X Mas e la Brigata partigiana Osoppo in funzione anti slava, per preservare le popolazioni civili giuliane e dalmate dalle stragi delle bande titine”). Coincidenza: Maria Pasquinelli aveva avuto una parte negli eventi che portarono alla tragedia di Porzûs, del cui processo si occupò in seguito lo stesso avvocato che assunse la sua difesa quando l’ex maestra, dopo la firma del Trattato di pace del 1947, andò a Pola ed uccise a bruciapelo l’ufficiale britannico Robin de Winton, padre di famiglia, motivando il suo gesto criminale con queste parole:
“Mi ribello, con il proposito fermo, di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi, i quali, alla conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d\’Italia”.
L’avvocato Luigi Giannini, dunque, difese Maria Pasquinelli, ed esordì davanti alla Corte alleata con queste parole:
“Prima di ogni altra cosa, signor presidente, io mi considero un italiano che difende un’italiana”.
Subito dopo lo svolgimento del processo Pasquinelli troviamo il nome dell’avvocato Giannini in una relazione “riservata”, datata 10/6/47 ed indirizzata dall’Ufficio staccato di Venezia al Prefetto Micali, responsabile per la Venezia Giulia del neo costituito provvisorio Ufficio per le Zone di Confine. Questo Ufficio, ricordiamo, aveva come scopo la “difesa dell’italianità” sia nell’Alto Adige, sia nella Venezia Giulia. Prendiamo alcuni stralci da questa relazione (che si trova citata nella sentenza ordinanza del Giudice Istruttore Carlo Mastelloni di Venezia n. 387/87 AGI “Argo 16”, p. 1.791), che tratta della necessità di trovare una persona adatta a gestire la situazione triestina, dove “è necessario che tutti gli italiani siano cementati in un sol blocco da opporre a quello slavo-comunista, compatto ed unitario, e trarre così quella forza di resistenza tanto necessaria al sostegno ed alla difesa dell\’Italianità della Venezia Giulia”, dove per arrivare a questa coesione non sono considerati adatti i partiti (che “dividono anziché unire i cittadini”) ma piuttosto la Lega Nazionale, che però dovrebbe avere come coordinatore un “fiduciario del governo”, con i requisiti “della popolarità, della conoscenza perfetta della situazione politica, della non appartenenza ai partiti politici, dell’unanime stima e fiducia della popolazione”. Questa persona, che “dovrebbe rappresentare la longa manus del governo, avere ampi poteri, indirizzare la vita politica nella lotta a sostegno dell’italianità della Venezia Giulia”, viene identificato nella persona dell’avvocato “Luigi Giannini, antifascista, colonnello dell\’esercito italiano al seguito delle forze alleate, professionista di alto valore, di vasta preparazione politica, carattere energico, unanimamente stimato e particolarmente popolare quale difensore della Pasquinelli”.
Se poi l’avvocato Giannini abbia rappresentato la longa manus del Governo italiano nella Venezia Giulia (in un momento in cui, ricordiamo, la Venezia Giulia era amministrata da un Governo militare alleato) non siamo riusciti a ricostruire dai dati in nostro possesso, quindi teniamo in sospeso la questione e facciamo un salto in avanti, all’epoca dell’istruttoria per il processo Porzûs.
Riprendiamo in mano la sentenza ordinanza di cui sopra, riportando una breve valutazione del magistrato (p. 1.807) sul comportamento dell’Ufficio Zone di Confine relativamente allo svolgimento dell’istruttoria per i fatti di Porzûs.
< Si trattò dunque di una necessità politica coerente al clima proprio del periodo degli anni dal 1950 al 1952: occorreva ribadire che l’episodio, anche se avvenuto durante la lotta di Liberazione, era da ricondurre esclusivamente alle minacce comuniste di occupazione di parte del territorio nazionale, quanto mai attuali nella Venezia Giulia ove ancora non si era intravista alcuna possibile e soddisfacente soluzione della questione di Trieste.
Si trattò anche di un’ingerenza criptica che passò attraverso i rituali schemi della sovrapposizione dell’Esecutivo al potere Giudiziario, prono alle direttive ricevute (…) >.
Successivamente troviamo inserite nella sentenza alcune comunicazioni intercorse nel 1951 tra il prefetto Innocenti (capo dell’Ufficio Zone di Confine) e l’onorevole friulano Carron “scelto come il canale attraverso cui la Presidenza del Consiglio gestiva anche il lato pratico di alcuni aspetti non trascurabili del processo affidandogli le sovvenzioni finanziarie dirette ad integrare, per così dire, le spese sostenute per le trasferte dai testi e dalle parti lese ritenute insufficienti”. Questo il testo della Nota n° 200/432 del 20/1/51:
< “Egregio Onorevole, (Carron) l’Avv. Giannini mi informa da Trieste che l’affare “Porzûs” ha subito una battuta d’arresto, che non prelude a nulla di buono per i nostri interessi.
Egli mi ha soggiunto, inoltre, che Lei avrebbe dovuto presentare alla Giustizia un appunto in proposito: ma fino a ieri, secondo quanto mi ha confermato il Cons. Olivieri Sangiacomo – Capo Gabinetto della Giustizia – nulla sarebbe giunto a quel Ministero.
Poiché la questione riveste un carattere di particolare urgenza, Le sarò assai grato se vorrà cortesemente farmi conoscere se e quali passi Ella abbia inteso compiere al riguardo…”.
Annesso al telex è stato rinvenuto un altrettanto eloquente manoscritto ove sono fissati alcuni concetti , da qualificarsi vere e proprie direttive, che prontamente riceveranno attuazione: con buona pace del principio di indipendenza della magistratura appena sancito nella carta Costituzionale:
“Alla cassazione: pendenti ricorsi imputati (processo Porzûs…) intesi a ottenere:
1) revoca dei mandati di cattura in quanto i reati contestati sarebbero stati commessi per i fini politici considerati ai decreti,
2) il rinvio, la nuova istruttoria, la successiva eventuale unione dei giudizi sarebbe irrituale.
Convocare il P.G. di Venezia (quivi, però, è l’Avv. Gen. Tissà che si occupa del processo) e ordinargli che proceda subito contro coloro per cui abbiamo presentato denuncia.
Meglio se fosse incaricato di promuovere l’azione penale il procuratore di Udine (Franz), perché costoro si trovano sul luogo e conoscono i fatti” >.
Successivamente troviamo citato un < telex a firma del Prefetto INNOCENTI, che reca il “n° 200/2126/4.124” e datato “18 aprile 1950 ”, inviato all’Avvocato GIANNINI di Trieste rivela come il dirigente l’Ufficio Zone di Confine conoscesse in anticipo ciò che la Cassazione avrebbe deciso: l’assegnazione alla sede di Venezia della trattazione del processo di primo grado all’esito di un ricorso avviato dai difensori della Garibaldi per legittima suspicione in relazione al radicamento della causa a Udine.
Vi è un ulteriore manoscritto , attribuibile – vista la grafia – sicuramente all’avvocato GIANNINI , che evidenzia come il legale abbia chiesto un attivazione del Governo per un intervento presso il Ministero di Grazia e Giustizia i cui organi avrebbero dovuto convocare il Presidente della Corte di Appello ed eventualmente il Procuratore Generale per rappresentare ad essi “ciò che è giusto e necessario fare”:
Un ulteriore intervento finanziario della Presidenza, finalizzato al deposito nel processo di documenti comprovanti la responsabilità dei “Capi Garibaldini” nell’eccidio – documenti tenuti dall’Avv. GIANNINI di Trieste – viene richiesto da Don Aurelio DE LUCA (fondatore della Div. Osoppo) all’Ufficio Zone di Confine. In tal senso il Prefetto INNOCENTI, in data 17 gennaio 1951, stila un Appunto “per l’On. Sottosegretario di Stato” chiedendo l’autorizzazione per un ulteriore impegno finanziario della Presidenza del Consiglio a favore dell’Avvocato GIANNINI :
“Oggetto: processo Porzûs. (Richiesta di Don Aurelio De Luca)
In via riservata ma da fonte attendibilissima (procuratore Repubblica Udine) la Osoppo Friuli è stata avvertita che fra pochi giorni l’istruttoria per il processo Porzûs sarà chiusa.
Non essendosi presentati ancora i documenti definitivi comprovanti le responsabilità dei capi Garibaldini arrestati un mese fà questi verranno rilasciati a piede libero perchè assolti in istruttoria.
La documentazione comprovante la responsabilità degli stessi è nelle mani dell’Avv. Giannini di Trieste, il quale per altro non intende interessarsi ulteriormente del processo se non ha una assicurazione che verrà retribuito per l’opera prestata.
È necessario quindi che l’Avv. venga assicurato immediatamente che non mancheranno i mezzi per la ripresa del processo.
Si fa presente a V.E. che per tale questione la Presidenza ha già erogato la somma di L. 3.500.000, che tramite l’On. Carron sono già stati spesi nella prima fase del processo già svoltosi nel gennaio sc.a. a Brescia.
Per le immediate esigenze di cui sopra viene richiesto un contributo di almeno un milione e mezzo.
Roma, 17 gennaio 1951”.
In calce all’Appunto si rileva la decretazione dell’autorizzazione alla spesa da parte del Sottosegretario >.
In sintesi, se abbiamo capito bene, l’avvocato Giannini sarebbe stato in possesso di documentazione tale da incriminare gli accusati dell’eccidio di Porzûs, ma per consegnarla agli inquirenti avrebbe chiesto “un contributo di almeno un milione e mezzo” di lire dell’epoca: contributo che gli fu prontamente versato dalla Presidenza del Consiglio, che finanziava l’Ufficio Zone di Confine (ricordiamo che il sottosegretario che si occupava di questo Ufficio era l’allora giovane Giulio Andreotti, all’inizio della sua carriera politica).
A noi, persone di mentalità ristretta ed antiquata, un tale comportamento appare vagamente anomalo, dato che siamo del parere che un legale incaricato di seguire un’istruttoria dovrebbe, trovandosi in mano documentazione necessaria alle indagini, consegnarle senz’altro agli inquirenti, e non richiedere “contributi” economici.
Redazione, Tra Ufficio Zone di Confine, Porzus, e Pasquinelli: l’avvocato Giannini di Trieste, La Nuova Alabarda

La prima struttura paramilitare di guerra non ortodossa fu l’organizzazione “O”, derivata dall’analoga formazione partigiana “Osoppo”. Dopo la smobilitazione della formazione partigiana, nel 1946 i capi della formazione chiesero il riarmo dei reparti di fronte a ripetuti episodi di violenza accaduti nelle zone di confine tra Friuli e Jugoslavia.
Nel marzo del 1949, per iniziativa del Gen. Manarini, all’epoca Sottocapo di Stato Maggiore dell’esercito, si avviava la trasformazione della Osoppo in “un organismo militare segreto, pronto a svelarsi con un certo numero di veri e propri reparti militari all’atto della mobilitazione” e il 6 aprile del 1950, sulla base di direttive dello Stato Maggiore dell’esercito, veniva ufficializzata la nuova formazione alla quale fu data la denominazione di “organizzazione O”, con contatti non ufficiali coi servizi segreti militari. Questa era costituita da circa 500 uomini tra ufficiali, sottufficiali e uomini di truppa. I compiti assegnati erano: “guerriglia e contro-guerriglia – guida, osservazione ed informazioni”.
Alla fine del 1956 l’organizzazione O venne trasferita nella “Stella Alpina” della nascente organizzazione Gladio e, come si legge in un documento del 26 marzo 1958, dal titolo “Risposta ai quesiti del Servizio americano riguardanti il programma Stay Behind, aveva tre compiti ben distinti: in tempo di pace, il controllo e la neutralizzazione dell’attività slavo-comunista; in tempo di conflitto o insurrezione interna, l’antiguerriglia e l’antisabotaggio; in caso di invasione del territorio, lotta partigiana e servizio informazioni.
In un documento successivo la parola “comuniste” fu sostituita da “eversive o sovversive” ma, poiché in quegli anni non esistevano forze di lotta armata né di destra né di sinistra, ne consegue che quando si parlava di neutralizzazione delle attività eversive o sovversive si intendeva un intervento in direzione delle forze di opposizione.
Giulia Fiordelli, Dalla Konterguerilla ad Ergenekon. Evoluzioni del Derin Devlet, tra mito e realtà nella Turchia contemporanea: analogia con la stay-behind italiana, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, Anno Accademico 2012/2013

La resistenza al fascismo in Friuli non aveva atteso l’8 settembre. Da vari mesi la rete clandestina comunista aveva stretto legami con i partigiani dell’Armata di liberazione jugoslava (Novj). Dar vita alle formazioni garibaldine in Friuli e farne lo strumento militare di sabotaggio e di attacco alle retrovie tedesche, fu cosa immediata. Clandestini friulani che già negli anni dell’occupazione nazi-italiana della Slovenia erano affluiti alle schiere del Novj passarono facilmente sul versante italiano, con la loro esperienza di guerriglia. Il nome Osoppo viene dal piccolo borgo di fronte a Gemona, dove nacquero i “corpi franchi” delle insurrezioni risorgimentali quarantottesche; nome e fazzoletto verde in luogo di quello rosso dei garibaldini fanno già simbolo. La “Brigata Osoppo” nasceva dalla convergenza tra aderenti al Partito d’azione (Pda) intellettualmente agguerrito ma privo di base popolare, cattolici, presenti come DC nel Comitato di liberazione CLN, e indipendenti. Guidati in un primo tempo dai due capitani Grassi-Verdi e Cencig-Manlio, e da DeLuca – Aurelio (in corsivo i nomi di battaglia), scelsero come base per il reclutamento e le prime azioni l’eccentrico e disabitato castello Ceconi a Pielungo, nella val d’Arzino. E formarono i primi reparti, rifornendosi di armi attraverso i lanci aerei organizzati dalle missioni alleate.
Si presentò subito la questione dei rapporti con le formazioni garibaldine. Se comune appariva la guerra all’occupante tedesco, diverse erano le posizioni relative al “dopo” e cioè alla sistemazione dei confini a conflitto concluso. I trattati del 1924 avevano inserito nel territorio italiano ampie regioni miste o a dominanza slava; correzioni e rettifiche apparivano ovvie; ma le rivendicazioni slave erano inaccettabili per gli osovani.
La resistenza friulana agiva entro una specie di quadrilatero. Ad uno dei vertici, sopra il CLN udinese, il Comitato regionale veneto (CRV) e il CLN – Alta Italia. Al secondo e al terzo vertice, in posizione collaborativa per la lotta antigermanica ma nettamente opposta sulla linea politica, gli osovani e i garibaldini. I periodici tentativi (ve ne furono per lo meno una ventina) di creare un comando unificato finirono quasi sempre per arenarsi. Gli osovani, dietro ai garibaldini vedevano le forze del IX Corpus sloveno. Al quarto vertice, le missioni militari alleate. Quelle americane facevano capo all’OSS (Overseas Special Service), quelle inglesi allo Special Executive, SOE. Esclusivamente militari quelle britanniche (citiamo la più nota, anche per la documentazione lasciata agli archivi Osoppo, la Nicholson-Bergenfield). Diversa la composizione delle missioni americane che potevano avere carattere militare come quelle inglesi (la missione Lloyd Smith – Eagle) ma potevano anche essere missioni di vera e propria “intelligence” operativa, come le missioni Michelagnoli-Texas e Franco-Chicago. E qui il discorso si fa più complesso. Che tra le varie missioni ci fossero, nei confronti delle formazioni osovane e garibaldine, valutazioni diverse e spesso contrastanti è un fatto. Ed altresì che le missioni inglesi operassero con maggior prudenza delle missioni americane nei confronti delle formazioni comuniste. Le missioni OSS consentirono talvolta ai loro membri italiani di assumere dirette responsabilità militari. Sul comportamento di queste missioni e dello stesso OSS vi furono successive polemiche, anche fra gli storici. Talvolta membri di queste missioni erano sospettati di essere ideologicamente corrivi alle posizioni slavo-comuniste. Spesso con accuse reciproche all’interno delle stesse missioni, con strascichi successivi in libri di memorie. Anche questi aspetti influirono sui comportamenti della Osoppo, e sulla “diffidente alleanza tra le due resistenze”. E hanno avuto seguito in ricerche storiche. E in strani documenti dell’intelligence italiana (il SIM operante durante il governo Bonomi), nei quali vengono avanzati, nei confronti di uno o l’altro contingente operativo nelle missioni americane, “sospetti” di comunismo o di slavofilia. Qualcuno di tali poco attendibili documenti è stato riscoperto recentemente nel corso delle indagini sulla genesi della cosiddetta “Gladio” (vedi l’articolo di G. A. Stella, “Porzûs, la grande trappola”, Corsera, 27 agosto 1997).
Che tra Osovani e Garibaldini le cose non procedessero perfettamente e che Porzûs sia stata la conclusione di un serrato conflitto, in parte mascherato, in parte costellato da reciproci sospetti, è fuori dubbio. Un primo incidente era avvenuto a Piancicco: una “rapina” di armi, sottratte agli osovani dai garibaldini. La vera crisi scoppiò poco tempo dopo con i fatti di Pielungo. Nel vecchio maniero gli osovani avevano stabilito il loro comando e organizzato le prime azioni. Reparti tedeschi, entrati nel castello con improvviso (e sospetto) attacco, vi liberarono alcuni loro prigionieri. La questione ebbe conseguenze immediate: CLN udinese e regionale veneto (CRV) intervennero destituendo i due principali responsabili dell’Osoppo, Grassi-Verdi e De Luca – Aurelio, affidando al maggiore Manzin-Abba il comando provvisorio. Per i due capi osovani arresto “sulla parola”, in attesa di decisioni. Cosa per nulla gradita a quelli dell’Osoppo, anzi. Peggio ancora fu quando a metà agosto, in un incontro CLN-garibaldini-osovani a San Francesco, sopra Pielungo, fu stabilito il nuovo organigramma dell’Osoppo. Al comando militare Abba, del P.d’A., suo vice il comunista Bocchi-Ninci, capo delle Garibaldi. Commissario il comunista Lizzero-Andrea, vice-commissario l’azionista Comessatti-Spartaco. In pratica il “comando unificato” era posto in mano ai comunisti e agli azionisti, considerati loro paravento. Le formazioni osovane, popolari, moderate, cristiane e diffidenti della componente slava nelle Garibaldi, reagirono con una specie di golpe, al quale CLN e garibaldini dovettero arrendersi. Destituiti gli azionisti Abba e Spartaco, i vecchi comandanti tornarono ai loro posti. Ribaltamento incruento per fortuna, ma che la diceva lunga, se gli uni e gli altri si fronteggiavano mitra in spalla. Da allora, come scrive Giampaolo Gallo, la componente politica DC ebbe netto sopravvento su quella azionista nelle formazioni osovane.
Nei mesi successivi a quel “luglio armato” maturò la spedizione punitiva tedesca. Irruppero da Tarvisio 30 mila uomini, in gran parte cosacchi reclutati dai tedeschi tra i loro prigionieri russi, a capo l’ex-principe zarista Krassnoff. E fu terra bruciata. Aggredirono per prima la piccola “Zona libera di Carnia”, una breve gloriosa autonomia durata 15 giorni. Dilagando prima nel Friuli del versante bellunese poi verso la piccola “Zona libera del Friuli orientale”, sopra Cividale, rapinarono e massacrarono un po’ dovunque. Ma intanto altri eventi maturavano. Attenzione alle date.
Il 6 settembre le truppe sovietiche, occupata la Romania, si erano congiunte all’armata popolare di Broz-Tito. Con grande delusione degli alleati (che al futuro maresciallo avevano sacrificato il generale Mihailovic, leader della resistenza monarchica) Tito attuò la “svolta stalinista”. Fu un momento cruciale per osovani e alleati. La pressione per definire la famosa linea di frontiera lungo il Tagliamento si fece via via più accentuata. Risale al 9 settembre il messaggio di Kardelj, capo delle forze di liberazione slovene e luogotenente di Tito, ai capi comunisti dell’Alta Italia. Tedeschi e sloveni facevano a gara nel diffondere falsi manifestini sulle mire reciproche. Ma Kardelj parlava in chiaro “di una comune presa di potere nella regione Giulia di comunisti italiani e sloveni”. Ad una prima missione segreta, a giugno, del plenipotenziario sloveno prof. Urban (Anton Vratusa) al CLNAI di Milano aveva fatto seguito una seconda trasferta a settembre, con precise richieste sulla delimitazione dei confini. Contrario Cadorna, d’accordo Longo. Deciso un rinvio a guerra conclusa.
Diffidenze e sospetti garibaldini avevano avuto ulteriori accentuazioni a seguito del cosiddetto caso “Piave”. Ecco i fatti. Il tenente italiano Boccazzi-Piave, paracadutato con la missione inglese Nicholson, catturato (o “fattosi” catturare, nuovi sospetti) dai brigatisti repubblichini della X Mas di Borghese, era riapparso a gennaio in quel di Udine. Proponeva al suo capo-missione e agli osovani un accordo con gli uomini di Borghese per contrastare, a guerra finita, l’avanzata degli sloveni nell’intera Venezia Giulia. Qualcosa di vero doveva pur esserci. E la tensione cresceva.
Ma c’è soprattutto un’altra data rilevante collegata ai fatti di Porzûs: l’eccidio del 7 febbraio avveniva a tre giorni dall’inizio degli “accordi-spartizione” di Yalta. Pura coincidenza? Difficile stabilire connessioni; ma che si sia tentato di mettere fuori gioco gli osovani per impedire il “ribaltamento” (la congiunzione Alleati – Osoppo – magari i patriottardi saloini della X Mas) non sia solo fare ipotesi fantasiose lo prova quanto lo stesso maggiore Nicholson lasciò scritto nelle sue annotazioni intitolate “Personal field message book”, ora negli archivi Osoppo. Che l’ordine sia partito tramite Kardelj, e forse col placet di Tito (o di chi, da Mosca, guardava allo sbocco adriatico-triestino) non è solo gioco alla Le Carré.
Torniamo a Porzûs. Dove quel 7 febbraio si trovavano i capi dell’Osoppo De Gregori – Bolla e Bricco-Centina, che di lì a poco avrebbe dovuto subentrargli nel comando. Con loro una ventina e più di osovani. C’era stata il 18 gennaio precedente una riunione di responsabili dell’Osoppo in cui si era discussa la “questione slovena”. Impossibile sapere che cosa sia stato detto. Quel che è certo è che la sera del 6 febbraio il responsabile dei GAP udinesi Toffanin-Giacca aveva convocato a Ronchi di Spessa circa 150 garibaldini. Salirono a Porzûs e di qui alle malghe la mattina seguente. Ai due osovani di guardia che li videro arrivare alla casera bassa dissero di esser partigiani sbandati che intendevano recarsi in Carnia. Con un biglietto scritto lì per lì da uno dei due, i capi osovani furono informati e si apprestarono a scendere alla baita di sotto. E cominciò un eccidio protrattosi drammaticamente per 13 giorni. Nel primo, il 7 febbraio furono quasi sommariamente trucidati sul posto De Gregori – Bolla, Valente-Enea, e una, fosse o no presunta, spia fascista, Elda Turchetti. Bricco, pur inseguito a colpi di mitra e ferito, riuscì a fuggire e scampò al massacro. Non vi riuscì invece l’osovano Comin-Gruaro, colpito a morte mentre cercava di fuggire. Gli altri 20 prigionieri, tra cui uno studente arrivato la sera prima, furono condotti al Bosco Romagno, sopra Ronchi di Spessa, una ventina di km più a valle. Cominciarono gli interrogatori (e si capisce che cosa volevano sapere gli uomini di Giacca). Due dei prigionieri si dichiararono, o si finsero, disposti a passare tra i garibaldini. Gli altri, sempre dopo sommari interrogatori, vennero trucidati in luoghi e con modalità diverse. Della cosa si cercò di non far trapelare nulla. Ancora un mese dopo c’era chi assicurava che i capi Bolla ed Enea erano tenuti prigionieri dai garibaldini o dagli sloveni. Tra gli uccisi del Bosco Romagno, Pasolini-Ermes, fratello di Pier Paolo.
Ma la “decapitazione” non ci fu. Il comando osovano si ricompose e volle subito procedere ad una inchiesta sulle responsabilità, accettata dal CLN il 18 aprile. Ma il 25 scoppiava l’insurrezione al Nord. Tutto fu rimandato ai futuri interventi giudiziari. A far luce sulle responsabilità si impegnarono i due processi di Lucca e di Firenze. Dei circa 50 imputati alcuni erano latitanti. Il principale esecutore, Toffanin-Giacca, aveva preferito l’asilo in Slovenia. La sentenza di primo grado irrogò tre ergastoli (Toffanin, Iuri, Tambosso), portati dalla stessa Corte a 30 anni. Analoga pena, poi ridotta a 22 e 14 anni, ebbero Modesti e Plaino, del PC, ritenuti responsabili di aver impartito l’ordine. Padoan (Vanni) commissario politico della Garibaldi-Natisone, assolto a Lucca, fu condannato a 30 anni a Firenze. Un indulto del ’53 ridusse a 10 anni le pene dei tre principali imputati, a due quelle di Padoan, Modesti, Plaino. Nel ’57 l’amnistia. E Giacca venne graziato da Pertini.
Padoan-Vanni, tuttora vivente, in una lettera a Panorama (4.9.97) difende Giacca. La responsabilità vera, egli dice, fu di Modesti e Tambosso, i due responsabili udinesi del Partito comunista. La piccola Yalta giuliana aveva ben altri protagonisti che quelli del PC udinese o del traballante governo Bonomi. E a mezzo secolo di distanza è inutile cercar di far luce su ciò che avrà sempre contrastanti e indimostrabili versioni. Ormai materia di film e romanzi.
Giovanni Gozzer, Porzus, una Yalta giuliana, resistenzaitaliana.it

E’ un posto di mezza montagna sepolto nell’ombra degli alberi. Monsignor Aldo Moretti, 87 anni, il partigiano “Lino”, medaglia d’oro al valor militare, getta lo sguardo sulla valle, sulle cime dei monti, sulle foreste e sui prati che scivolano verso il Natisone e il passo di Caporetto, terre cariche di destino per le popolazioni del Friuli, terre spalmate di sangue e di sacrifici, dove il passato non passa mai.
Saliamo alle malghe di Porzus dove il bosco nasconde un’infamia, due piccoli edifici di pietra, il soffitto bassissimo, un tavolo di sasso all’aperto, il selciato intorno. Eccolo il caposaldo dell’orrore. Qui, il 7 febbraio 1945, i partigiani comunisti trucidarono i partigiani verdi, cattolici, liberali, moderati riluttanti all’idea di mettersi sotto il comando delle formazioni titine.
Monsignor Aldo Moretti le aveva fondate quelle formazioni cattoliche, insieme con altri due preti, un anno prima, e aveva scelto il nome di Brigate Osoppo, il paese friulano che insorse durante il Risorgimento contro l’occupazione austriaca. Ora è lì davanti alla lapide che ricorda i suoi ragazzi «soffocati nel sangue da fraterna mano assassina». Gli scende una lacrima sul viso asciutto, recita il salmo del giusto che muore e ha come un tremito: questo è il luogo della memoria opprimente.
L’auto corre tra i campi di granturco sulle strade del Friuli orientale. Il vecchio prete racconta la sua storia di cappellano militare in Africa, ferito e catturato dagli inglesi, prigioniero sul canale di Suez e poi scambiato a
Smirne. «Tornai a casa a maggio del 1942. Accettai un invito a Siena, dove pregai perché i nostri soldati potessero vincere. E lì accadde qualcosa. Al termine del discorso mi avvicinò un ometto. Disse poche parole: “Cambierà tutto, sa… cambierà”. Era Giorgio La Pira».
La chiesetta di Marsur appare dietro la curva. Segnava il confine nel settembre del 1944 tra le terre in mano ai nazifascisti e la fragile repubblica partigiana del Natisone, una manciata di giorni di libertà, di sacrificio, di sogni. Moretti si emoziona. Ha una memoria lucida, le parole scivolano via sicure. Povoletto, paese della battaglia tra partigiani, fascisti e tedeschi, quando settanta carabinieri passarono armi e bagagli con i partigiani per non dover uccidere altri italiani. Poi Attimis, Faedis, le valli che salgono verso il confine sloveno, terre che secondo i partigiani comunisti avrebbero dovuto essere consegnate a Tito, terre slovene perché lì c’erano e ci sono ancora italiani che parlano la lingua slovena: «La Grande Slovenia, volevano i partigiani comunisti. Noi volevamo solo combattere per la libertà, non per il comunismo, ed eravamo favorevoli a lasciare ad un referendum dopo la liberazione la scelta sui confini».
Il borgo di Porzus ora è abbracciato dai boschi. Sui prati spuntano i covoni: «Allora era tutto erba. Dalla Pedemontana ci vedevano i tedeschi». Il luogo si chiama Topli Vrh, cima calda. Più che malghe erano fienili, piccole stalle dove le mucche stavano a fatica, umide d’estate, gelide d’inverno: «Il nostro comando», dice Moretti. Oggi il bosco le nasconde alla vista su tutti i lati: «Allora no. Davanti al precipizio, accanto al sentiero, c’era un prato, il prato delle talpe. Bolla, il comandante, alzava la bandiera, bandiera italiana, bandiera con lo stemma sabaudo. Io lo mettevo in guardia: attento, gli dicevo, la vedono i comunisti e i partigiani sloveni, quello stemma a loro ricorda il fascismo, toglila. E lui no, cocciuto, perché credeva sopra ogni cosa all’Italia, senza compromessi, senza tante prudenze politiche».
“Bolla” era il nome di battaglia di Francesco De Gregori, ufficiale degli alpini, monarchico, onesto e convinto militare, che non mollava mai il cappello con l’aquila e il fazzoletto verde di partigiano moderato. Era lo zio del cantautore. Era stato lui, il 5 ottobre 1944, a dare la risposta negativa ai capi delle brigate garibaldine che volevano anche i partigiani cattolici sotto comando comunista alle dipendenze del IX Corpus jugoslavo. L’incontro era avvenuto al cimitero di Oborza di Prepotto. L’idea di Tito era quella, finita la guerra, di annettersi il Friuli orientale. Tito strappò a Togliatti il consenso e stabilì che tutte le formazioni partigiane friulane passassero sotto il suo comando. «Noi non avevamo mai avuto dubbi nel rifiutare», ricorda Moretti.
«Avevamo sempre operato insieme, anche se noi cattolici ci preoccupavamo, oltre che della onestà dei fini, anche della onestà dei mezzi. Ci furono discussioni assai accese con i comandanti comunisti sulla necessità di azioni che comportavano sacrifici di vite umane».
Nascono anche da questo atteggiamento più umanitario le accuse di tradimento che in questi anni sono state rivolte ai fazzoletti verdi per giustificare l’eccidio di Porzus, che viene alimentato dalla paura nei confronti di tutto ciò che potrebbe ostacolare una costruzione rapida del socialismo internazionale.
È una brutta storia, quella degli episodi che precedono la strage. Storia di contrapposizioni ideologiche che sfiorano livelli parossistici, dove si muore per uno sguardo, un’allusione, una voce buttata là. È una tragedia sulla quale convergono ragioni militari e interessi internazionali, che ha molte matrici e che lascia dopo quasi mezzo secolo ancora aperti molti interrogativi.
Liquidare i partigiani ribelli
L’8 settembre 1944 Vincenzo Bianchi, nome di battaglia “Vittorio”, rappresentante del Partito comunista italiano presso il IX Corpus titino, che era tornato da Mosca insieme con Togliatti, riceve una lettera da Edvard Kardelj, ideologo e braccio destro di Tito, in cui lo si invita a liquidare le formazioni partigiane che, in Friuli, non accettano di porsi agli ordini del IX Corpus.
I partigiani verdi rivendicano la propria libertà e tornano in montagna, da soli. Risalgono le strade che portano a Porzus. È inverno. Molti tornano a casa, aspettando la primavera. Vicino a Porzus nel villaggio di Canebola, dove si trova il comando garibaldino, il 7 novembre si fa festa per annunciare la solenne adesione alle formazioni titine. Bolla convoca i suoi: «Ci vogliono far sloggiare. Chi vuole andarsene se ne vada, noi restiamo». Restarono in venti alle malghe.
Ma sotto, in pianura, comincia a scattare la trappola. Girano con sempre maggiore insistenza voci di tradimento da parte dei verdi. Conferma Moretti: «Qualche intesa umanitaria, nessun tradimento. Tentavamo solo di anticipare la pace in un angolo del fronte». Poi le voci si infittiscono, fino a riferire di contatti con i repubblichini della X Mas di Valerio Borghese.
Che cosa c’era di vero? Moretti conferma che Cino Boccazzi, un partigiano della Osoppo preso prigioniero dai fascisti della X Mas, ricattato sulla sorte della moglie e dei figli, fu rimandato a Udine per cercare un contatto con la Osoppo, con la quale Valerio Borghese voleva collaborare per difendere il confine orientale dalle pretese titine, in modo da farsi un’immagine di patriota in vista della fine della guerra.
Boccazzi ne aveva parlato con l’ufficiale inglese Rowort, che lavorava clandestinamente a Udine, nome di battaglia “Nikolson”. Egli prende tempo prima di sentire il suo comando a Londra e ricevere una risposta negativa, ma intanto i sospetti aumentano, sulla scorta anche dell’ingenuità del capo missione inglese. Gli inglesi conoscevano bene la forte collaborazione che c’era all’inizio tra partigiani cattolici e partigiani comunisti. Al punto da esserne preoccupati; al punto, secondo Moretti, «di lavorare per dividerci, anzi di sacrificarci per gettare l’ombra del discredito sulle formazioni comuniste, alle dipendenze di un esercito, quello jugoslavo, che ormai era visto come conquistatore e non più come alleato. Insomma gli Alleati erano preoccupati del loro futuro governo nella zona».
Un processo prima della strage
E scatta la trappola. Tutto ruota attorno alla figura di una donna, Elda Turchetti. Moretti la ricorda bene: «Era una ragazza di Pagnacco, il paese dove i tedeschi avevano un deposito di carburante. Gli informatori inglesi raccolgono voci su amicizie della ragazza con alcuni tedeschi. Cosa normale, in un piccolo paese. Radio Londra la denuncia come spia. Lei, impaurita, si rivolge a un amico partigiano, che la porta da “Giacca”, Mario Toffanin, capo di una brigata gappista, uomo duro, sprezzante».
Toffanin è il partigiano che comanderà la strage a Porzus.
Ma Toffanin non la uccide, come accadeva sempre per le spie, e la consegna a Tullio Bonitti, capo della polizia interna della Osoppo. Bonitti la fa salire a Porzus in attesa del processo partigiano.
Moretti entra con noi in una delle due malghe: «A Natale eravamo qui tutti insieme. La bufera spingeva la neve fin sotto la porta. La Elda dormiva accanto al fuoco, un po’ in disparte. Noi partigiani dall’altra parte. “Bolla” non voleva storie. Il 1° febbraio del 1945, sette giorni prima della strage, ci fu il processo. Assolta».
Ma intanto un’altra voce si aggiunge sui sospetti di connivenza con il fascismo. L’ordine arriva dal Pci di Udine, ma viene incaricato Toffanin, uomo feroce, ossessionato dalla presenza dei traditori. Ha una settantina di uomini. Arriva alle malghe e quando vede Elda Turchetti, dirà in questi anni in molte interviste, non ha dubbi sul tradimento di quelli della Osoppo.
Spara, uccide, e fa prigionieri altri 16 partigiani, che ucciderà, dopo processi sommari, nel corso dei dieci giorni successivi. Li troverà Moretti, a giugno, a guerra finita, sepolti sotto gli alberi di Bosco Romagno. Tra loro c’è anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido, il partigiano “Ermes”. C’è scritto sul cippo di pietra: «Caduti pai nestris fogolars».
Moretti ora è stanco. Stanco di raccontare lo scannatoio e le bugie, la crudeltà e l’ingiustizia. Porzus è una ferita ancora aperta da queste parti.
Per anni si è identificato il comunismo con la lingua slovena delle popolazioni del Friuli orientale. Per anni un’organizzazione segreta che portava lo stesso nome (Osoppo) delle brigate verdi, alle dirette dipendenze dell’esercito italiano, ha operato per cercare di snazionalizzare la comunità slovena del Friuli, perseguitando sacerdoti e insegnanti. Forse pensavano di vendicare Porzus combattendo una personale guerra fredda sul confine orientale, fomentando un altro odio, questa volta verso gli sloveni.
Ora anche su questa storia con coraggio si fa luce e per la prima volta in Friuli un libro (Gli anni bui della Slavia) racconta le attività delle organizzazioni segrete. È dedicato «ai sacerdoti della Slavia friulana che hanno lottato e sofferto per la dignità della gente». Il vecchio monsignore, che anni fa aveva approvato l’esistenza di queste formazioni in funzione di propaganda anticomunista, oggi parla di «gravi e ripetuti errori»: «Noi combattemmo in montagna per la libertà e la patria, non per il nazionalismo italiano o sloveno che sia».
E oggi, dopo tanti anni, scendendo da Porzus va a trovare Giuseppe Bernardi, partigiano garibaldino, sindaco di Cividale, uno che stava dall’altra parte, ma che è convinto che quelli che sono morti siano degli eroi. E gli racconta il sogno. Quello di salire, un giorno prima di morire, alle malghe di Porzus a benedire una lapide con questa insegna: «I fatti di sangue qui compiuti ci ammoniscono che vanno rispettate in ogni comunità di qualunque popolo e la patria e la nazionalità». Oggi le malghe di Porzus sono un monumento, non ancora un ammonimento.
Alberto Bobbio, Parla monsignor Aldo Moretti, medaglia d’oro al valor militare (da Famiglia Cristiana), resistenzaitaliana.it