A dare asilo agli ex prigionieri fu soprattutto larga parte della popolazione civile

Codevigo (PD) – Fonte: Mapio.net

Nel Padovano all’indomani dell’8 settembre 1943 le campagne e i colli pullulavano di soldati cosiddetti “inglesi” fuggiti dai campi di prigionia, spesso mescolati ai militari italiani sbandati dopo il miserando sfacelo dell’Esercito, ai disertori e ai renitenti alla leva del neonato esercito fascista. Tutti avevano bisogno di essere sfamati, rivestiti di abiti civili, nascosti in rifugi sicuri, sottratti alla insidia delle spie e alla spietata caccia delle varie milizie neo-fasciste, delle diverse polizie naziste e delle forze militari tedesche capillarmente presenti nel territorio, avendo sede a Padova diversi alti Comandi.
Dai documenti conservati presso The National Archives di Londra emerge che tra le organizzazioni del Comitato di Liberazione che si dedicarono a questa mirabile opera di salvataggio si distinse quella avviata da don Mario Zanin e sviluppata poi da Armando Romani, in cui le sorelle Martini svolsero un ruolo primario pagato con il carcere e il campo di concentramento. Fra i più attivi fu Cirillo Moronato, Partigiano combattente della Brigata Silvio Trentin, che tra settembre 1943 e febbraio 1944 ospitò, nutrì e si prese cura di diciannove ex prigionieri e compì cinque pericolosi viaggi per guidarli fino alla frontiera Svizzera, pagando di tasca propria tutte le spese. Catturato durante un’azione di
sabotaggio, fu torturato e imprigionato in un lager austriaco.
Qualche volta mescolati ai prigionieri fuggitivi che, sfidando neve e ghiaccio, tentavano di raggiungere la Svizzera vi erano anche degli Ebrei perseguitati, come testimonia il P.O.W. Escape Report del soldato sudafricano Hendrik De Vet, giunto in salvo col suo gruppo dopo due giorni di traversata invernale delle Alpi senza cibo nè riparo.
Numerosi furono i religiosi che soccorsero i prigionieri latitanti, dai Parroci di campagna e di città ai frati e monaci, tra i quali primeggiarono padre Placido Cortese dei Minori Conventuali di S. Antonio, martire della Carità di cui è in corso il processo per la beatificazione, e alcuni Benedettini dei Monasteri di S. Giustina a Padova e di Praglia.
Ma a dare asilo agli ex prigionieri fu soprattutto larga parte della popolazione civile di ogni ceto sociale, con in prima linea le famiglie più povere, incuranti del rischio di terribili rappresaglie, che comportavano sequestro dei beni, incendio della casa, feroci bastonature e torture, imprigionamento, invio nei campi di concentramento tedeschi, da cui molti non fecero ritorno, fino alla immediata impiccagione o fucilazione sul posto.
Dalle carte degli archivi britannici emerge che la principale organizzatrice dell’assistenza agli ex prigionieri sparsi nell’area di Piove di Sacco fu Maria Raimondi, che fu attiva fino al 14 marzo 1944, quando fu arrestata, insieme a quattordici membri della sua organizzazione, a causa del tradimento di una spia. Resistette a brutali torture senza rivelare i nomi dei compagni e subì poi un anno di detenzione nei lager di Mauthausen e Ravensbrück.
Nella Bassa Padovana a curare clandestinamente con grande rischio i fuggiaschi ammalati vi fu il dottor Flavio Busonera, uno tra i nove partecipanti alla prima riunione organizzativa del C.L.N., che per il suo ruolo nella Resistenza venne impiccato in centro a Padova il 17 agosto 1944, meritando la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria.
[…] Le varie operazioni di salvataggio via mare tentate dagli Alleati con l’impiego di sommergibili, motosiluranti e perfino motopescherecci, basati nell’Italia Meridionale liberata, ebbe scarso successo a causa della stretta sorveglianza delle coste, della difficoltà di rintracciare gli ex prigionieri dispersi alla macchia e spesso diffidenti per il fondato timore di cadere nelle trappole nemiche, di raggrupparli e farli tempestivamente affluire di nascosto alle spiagge e alle foci dei fiumi, dalle proibitive condizioni del mare e dalle nebbie che spesso in quel tardo autunno del 1943 ostacolavano gli appuntamenti notturni prestabiliti per l’imbarco. A uno dei primi audaci tentativi di salvataggio prese parte padre Domenico Artero, che la notte del 3 novembre 1943 sbarcò alla foce dell’Adige da una motosilurante salpata da Termoli per tentare di raccogliere quei prigionieri che non lo avevano seguito nella fuga a piedi verso Sud all’indomani dell’8 settembre. Padre Artero riuscì, tra grandi difficoltà, a radunare un migliaio di prigionieri e a nasconderli non lontano dalla costa con la speranza di metterli in salvo in pochi giorni facendo con la motosilurante la spola con l’isola di Lussinpiccolo, ma l’occupazione tedesca dell’isola impedì l’attuazione del piano.
Alcuni tra i prigionieri alla macchia non fecero ritorno in Patria. Tra questi Thomas H. Gay, fante del 24° battaglione neozelandese, vittima di un grave crimine di guerra.
Dopo che per diciassette mesi era riuscito a conservare la libertà grazie alla protezione di alcune famiglie di Fogolana, Gay fu ucciso il 20 febbraio 1945 da un milite fascista appena tredicenne, figlio del comandante del distaccamento di Codevigo della Brigata Nera, che gli sparò col mitra mentre disarmato e a mani alzate usciva dal suo nascondiglio in un barcone attraccato pochi metri a monte del ponte sul canale Novissimo Scaricatore a Fogolana.
[…] Non lontano da Fogolana vi furono altri casi, documentati dalla United Nations War Crimes Commission (U.N.W.C.C.) di uccisioni di prigionieri fuggiaschi.
Il 2 Novembre 1944 a Campolongo Maggiore una pattuglia del distaccamento di Piove di Sacco della 18a Brigata Nera “Begon” uccise i soldati Jack le Roux, Sudafricano, ed Eric Goodwyn, inglese, che avevano trovato rifugio presso una vecchia vedova di Campolongo. La Cronaca Parrocchiale narra che le «bande nere» freddarono sul posto «due soldati, innocui, anzi molto cordiali e rispettosi», nonostante «dessero segni di volersi arrendere».
Nella dettagliata documentazione raccolta dalla U.N.W.C.C. nell’immediato dopoguerra compaiono i nomi dei Brigatisti Neri che diversi testimoni avevano visto partecipare alle azioni in cui erano stati uccisi i prigionieri sopra citati. Tre di tali militi, dei graduati, risultavano essere già stati sommariamente giustiziati dai Partigiani. I loro nomi compaiono tra quelli delle oltre cento vittime della strage avvenuta a Codevigo nei giorni della Liberazione. Il Comandante del distaccamento di Codevigo della Brigata Nera, condannato a trent’anni di reclusione dalla Corte Straordinaria d’Assise, fu scarcerato dopo sei anni. Il giovanissimo uccisore del soldato Gay rimase per anni in latitanza.
A nuocere ai prigionieri fuggiaschi vi furono anche dei delatori spinti da odio ideologico o cupidigia per le ricompense spettanti agli informatori che fornivano indicazioni atte alla cattura di ex prigionieri. I delatori non mancarono nemmeno a Codevigo, dove nella Cronistoria della Parrocchia don Zavattiero registrò che «il giorno 30 aprile 1945 la signorina […] di Codevigo venne uccisa insieme col fratello […] perché dicevano che avesse fatto la spia ai prigionieri inglesi».
Alcuni tra gli ex prigionieri si unirono alle varie unità combattenti della Resistenza e insieme ai Partigiani combatterono e talvolta morirono.
Uno dei casi più noti è quello della “Churchill Company”, un reparto della Brigata Garibaldina “Gramsci” formato da una dozzina di ex prigionieri britannici ai quali era affidata la responsabilità di difendere con un posto di blocco la via di accesso alle Vette Feltrine dove operava quella celebre unità Partigiana formata e guidata dal leggendario “Comandante Bruno”, nome di battaglia dell’ing. Paride Brunetti, anch’egli tra i partecipanti alla prima riunione organizzativa del C.L.N.
Secondo un telescritto di Kesselring al Comando supremo tedesco, trentaquattro furono gli ex prigionieri “inglesi” uccisi nel grande rastrellamento subito dalle formazioni Partigiane sul Monte Grappa tra il 21 e il 27 settembre 1944. Tre di loro, due soldati Sudafricani e uno Indiano, furono fucilati senza processo da un plotone del 63° Battaglione M (Mussolini) della Legione Tagliamento, dopo essere stati catturati a Campo Solagna nel combattimento in cui perse la vita il comandante della Brigata Italia Libera Campocroce, Lodovico Todesco, un altro dei partecipanti alla prima riunione del C.L.N., al quale venne conferita la Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria. Poche settimane prima suo cugino, Mario Todesco, anch’egli presente a quella riunione, era stato trucidato dai fascisti in pieno centro a Padova la notte tra il 28 e il 29 giugno 1944, dopo che si era dedicato all’evacuazione via mare di ex prigionieri e a far giungere altri al sicuro in Svizzera, grazie anche a un gruppo di fidati ferrovieri da lui organizzati. Gruppi di Patrioti, valendosi anche di contrabbandieri e della complicità di qualche guardia di frontiera, guidavano i fuggiaschi per le difficili vie dell’alto lago di Como e nel superamento dei sorvegliatissimi sbarramenti di confine.
Alle 23.30 del 28 aprile 1945 le campane e le sirene di tutta la città annunciarono che l’VIII Armata britannica aveva fatto ingresso a Padova, trovandola già in mano ai Patrioti, insorti il giorno precedente, che l’avevano liberata con accaniti combattimenti costati centinaia di morti e feriti. In testa procedevano i mezzi della 2a Divisione Neozelandese, che dopo una travolgente avanzata nella pianura Veneta, si erano aperti la strada per la città con un breve ma intenso cannoneggiamento. Il passaggio delle truppe vittoriose fu salutato dalla popolazione esultante. Proprio mentre sostava a Padova in piazza Cavour per un breve riposo, il reparto neozelandese d’avanguardia ricevette l’ordine di procedere verso Trieste alla massima velocità: era cominciata la “race for Trieste” tra Angloamericani e Jugoslavi, che puntavano a occupare per primi la città.
Fu davvero singolare il modo con cui il soldato neozelandese Bill Black, del 25° Battaglione, si ricongiunse con i suoi vecchi commilitoni. Dopo aver combattuto assieme ai Partigiani della Divisione Garibaldi “Nino Nannetti”, Black, con un altro compagno inglese, scese da un’altura che dominava la pianura e si mise in mezzo alla strada sbracciandosi per fermare una colonna di autocarri Neozelandesi che sfrecciavano diretti a Trieste. L’autista dell’autocarro di testa non sapeva se frenare o sparare a quei due strani individui barbuti, con divise logore e sporche e muniti di armi tedesche, che gli si erano all’improvviso parati davanti al cofano, ma presto riconobbe in Bill un compaesano che proveniva dalla stessa cittadina, Napier. Allora quelli sul camion chiesero: «Dove diavolo siete stati finora voi bastardi?» e Bill rispose: «Ad aspettare vostre notizie per quattro anni!»
Furono alcune centinaia i prigionieri del Padovano aiutati a porsi in salvo. Le storie di oltre cento di loro, ricche di indicazioni sui luoghi in cui avevano trovato rifugio, sugli itinerari percorsi verso la salvezza e dei nomi delle persone che li avevano aiutati, sono documentate dai Prisoner Of War Report redatti all’arrivo di ciascun prigioniero in Svizzera e conservati a Londra presso The National Archives. Classificati per decenni come segreti, essi sono ora disponibili per la consultazione.
Si può stimare che almeno un migliaio siano state le famiglie di Padova e provincia la cui opera di salvataggio, autonoma o in collegamento con le organizzazioni della Resistenza, è documentata presso The National Archives di Washington. In quegli archivi sono conservati ben ottantacinquemila fascicoli, uno per ogni capofamiglia, contenenti i risultati di una scrupolosa attività di ricerca svolta regione per regione subito dopo la fine delle ostilità dagli ufficiali della Allied Screening Commission (A.S.C.), incaricati di rintracciare e ricompensare gli Italiani che avevano fornito assistenza ai prigionieri.
Di quei fascicoli, undicimilacinquecento riguardavano il Triveneto. E’ significativo che tra i quattro casi indicati come esempio nel rapporto finale della A.S.C., accanto a quello della famiglia Cervi di Reggio Emilia, sia illustrato il caso di Primo Curami, un proprietario terriero di Carmignano di Brenta (Padova), che per aver aiutato molti prigionieri perdette tutti i suoi beni, fu arrestato con la moglie e uno dei suoi contadini e deportato a Dachau e poi a Buchenwald.
Centinaia dei fascicoli redatti della A.S.C. sono contrassegnati dalla lettera ”D”, che indica coloro che avevano dato la vita per la loro opera di carità.
Le ricompense in denaro distribuite dagli ufficiali della A.S.C., svalutate dalla fortissima inflazione, furono spesso rifiutate dai destinatari, che ritenevano naturali e non monetizzabili i gesti umanitari che avevano fatto.
Per gli Italiani che si erano particolarmente distinti per dedizione e coraggio erano state proposte, come è documentato dalle Recommendation for Award – Helper in Italy, redatte minuziosamente dagli ufficiali della A.S.C., centinaia di onorificenze di vario grado fino all’Order of the British Empire (Civil). Tali raccomandazioni, come letteralmente si trova annotato su di esse, furono poste in «cold storage» dalle Autorità britanniche per sopravvenute ragioni di convenienza politica e su di esse fu posto per decenni il segreto.
Nessun Italiano ricette mai le medaglie e i titoli onorifici per i quali era stato raccomandato, nè mai venne a conoscere l’esistenza di tali proposte. Così solo pochi “topi d’archivio” hanno potuto leggere quelle carte ingiallite e provare ammirazione per il valore di tanti civili italiani che emerge dalle motivazioni di quelle Recommendation, e insieme provare tristezza e temere che quelle storie «scritte sull’acqua» siano destinate a perdersi con la morte di coloro che ne erano stati protagonisti e per i quali quelle vicende erano state «the time of their life», come disse il prof. Roger Absalom, un valente storico che fu tra i pochi ad appassionarsi per queste storie.
Adolfo Zamboni, Sette uomini sotto le stelle. Sulle tracce di un prigioniero di guerra neozelandese alla macchia nella Bassa Padovana nel 1943, Padova, 25 aprile 2014, qui ripreso da Università degli Studi di Padova

Il 31 agosto del 1944 Tilman ed i suoi uomini furono paracadutati sull’altipiano di Asiago. Aveva inizio l’operazione “Beriwind”, una delle molteplici missioni alleate di supporto alle forze partigiane.
[…] L’8 settembre dopo estenuanti marce forzate, cercando di non incappare nella rete dei controlli tedeschi, Tilman ed i suoi uomini erano pronti a guadare il Piave. Ma quando le staffette partigiane li informarono di un massiccio
rastrellamento tedesco nella zona, decisero di dirigersi verso le Vette Feltrine, ove si trovavano le principali basi della Brigata partigiana “Gramsci”.
Vi erano insediati circa 300 partigiani ed un distaccamento di undici inglesi che si erano autonominati “Churchill Company”. Gli inglesi erano ex prigionieri di guerra evasi dai campi di prigionia italiani dopo l’8 settembre del 1943. Comandante la Brigata “Gramsci” era Paride Brunetti “Bruno” ex Ufficiale dell’Esercito Italiano e reduce dalla Campagna di Russia. La Brigata “Gramsci”, a seguito di continue azioni di sabotaggio ai danni della guarnigione SS accasermata in Feltre, il 29 settembre subì la reazione tedesca che si concretizzò con un blocco degli accessi alla Vette Feltrine, violenti bombardamenti di artiglieria seguiti dai rastrellamenti della fanteria. Tilman consigliò al Comandante “Bruno” di abbandonare le posizioni ed evitare uno scontro che fin dai primi momenti si era dimostrato impari. Le sue osservazioni rimasero inascoltate. Ancorché le perdite inferte dai tedeschi fossero lievi, la “Gramsci” si disperse e cessò di esistere.
Antonio Melis, Harold William Tilman. Un maggiore inglese tra le Dolomiti, Informazioni della Difesa, 5/2010