Bocci e Pepe attraversano il fronte

Giovanni Sanguineti “Bocci” – Fonte: Elena Bono, art. cit. infra

[…] Ma tornando indietro, al nostro Bocci: nel 1935, militare di leva nel 1° Regg.to alpini, Btg Pieve di Teco, fu inviato (il 4 aprile) a combattere in Abissinia. Rientrato in Italia il 12 aprile 1937 e posto in congedo illimitato, venne successivamente richiamato più volte per istruzione e alternativamente ricollocato in congedo. Il 6 febbraio 1941, per l’ennesima volta, fu di nuovo richiamato e aggregato al 2° Regg. Alpini. In seguito, il 23 febbraio 1942, imbarcato sul piroscafo Rosandra, fu inviato a Spalato, in territorio di guerra, dove arrivò il 27, quattro giorni dopo. E qui, il 15 aprile 1942 ricevette i gradi di sergente maggiore.
Da Spalato, attraverso Fiume, in data 27 maggio 1942, rientrava in Italia. Ed esattamente a Borgo S. Dalmazzo (CN), presso la 1a Cp. d’Istruzione, quale istruttore di truppa. E qui rimane almeno fino al 24 novembre 1942 (ultima registrazione effettuata sul Foglio Matricolare prima degli eventi dell’Armistizio dell’8 settembre 1943). Poi, sul suo F.M. personale, appaiono alcune variazioni di servizio per arrivare sino alla data del 10 febbraio 1943, quando il Sanguineti, in stessa data, risulta trasferito al Btg. Monte Schiovatore (XXIX Btg. espl. – 725 cp) di stanza a Giussici (Jugoslavia).
Alla data dell’8 di Settembre 1943, sempre sul suo F.M., è annotato come “Sbandato in seguito ad eventi sopravvenuti all’Armistizio”. E in data 25 Aprile 1945, dopo un lungo intervallo di tempo ,appare quest’altra registrazione: “Considerato in servizio dal 9/9/43 al 5/4/45” e in stessa data: “Collocato in congedo illimitato” presso il Distretto di Genova.
Quindi Giovanni (Bocci) all’8 Settembre 1943 verrà colto dagli eventi del fatidico giorno dell’Armistizio tra Italia e Alleati (armistizio che però era stato già firmato il 3 settembre ma mantenuto segreto fino all’8) in pieno territorio jugoslavo. Ed egli, come migliaia di altri soldati italiani, per non essere catturato dai tedeschi e spedito nei lager nazisti, abbandona il suo reparto e la divisa, e se ne torna dritto a casa sua, a Cavi di Lavagna, in Liguria, dove giungerà il giorno 14 mattina.
E qui, ripresi subito i contatti col suo vecchio gruppo di compagni antifascisti, inizia con loro una febbrile raccolta di armi e munizioni abbandonate dai militari italiani in fuga, che disperatamente stavano chiedendo in giro abiti civili, per sottrarsi alla caccia dell’esercito germanico che li voleva arrestare (in quanto divenuti ormai nemici) per inviarli a morire di stenti nei campi di concentramento tedeschi.
Precedentemente, però, in Jugoslavia, nel 1941, a far parte dello stesso reparto alpini di Sanguineti, arrivò anche il sestrese Eraldo Fico, il futuro Virgola. E tra i due, che già in parte si conoscevano – e accomunati anche dalle loro convinzioni antifasciste e idee comunisteggianti – nacque tra loro una forte amicizia che ne fece, oltre che gli iniziatori, due tra i personaggi di maggiore spicco della lotta partigiana nel Tigullio orientale.
Della Coduri, di cui Virgola fu poi il comandante, Bocci non fu solo Capo di Stato Maggiore, ma il principale e più preparato e coraggioso organizzatore, specialmente nei compiti più gravosi e difficili. Per esempio, subito dopo l’armistizio, l’occultamento degli ex prigionieri britannici e dei disertori della Wehrmacht, che in seguito venivano accompagnati da lui stesso al gruppo di Gordon Lett. Ed anche, dall’inizio, mobilitando pure l’intera sua famiglia, provvide al completo vettovagliamento della piccola formazione partigiana che s’era andata via via componendo sul Monte Capenardo, condusse rischiose azioni di sabotaggio e di controspionaggio contro il nemico, ideò piani finalizzati alla diserzione dei militari della R.S.I., soprattutto alpini, e altre cose ancora.
Persona alla mano (“un amicone!” lo definisce Riccio nei suoi scritti) ma altrettanto scaltro e risoluto, fu anche autore competente di rilievi e disegni delle difese costiere liguri fatti pervenire poi al Comando Alleato di Firenze. E nel dicembre 1944, con l’aiuto del maggiore inglese Gordon Lett, poté varcare il Fronte meridionale tedesco per raggiungere il Comando Alleato; e successivamente, a Roma, raggiunse la Direzione del P.C.I. e del C.L.N. per fornir loro notizie certe e dettagliate sulla consistenza numerica e l’organizzazione delle formazioni partigiane della VI Zona e dettagliate informazioni sulla lotta partigiana nel nord Italia. E nel contempo si prodigò a chiedere urgenti aiuti economici e lanci di armi, munizioni, e viveri a lunga conservazione, e vestiario invernale per la Coduri, che ne aveva avuto sempre urgentissimo bisogno.
Di temperamento schivo e riservato, ma bisognoso di avere sempre una certa autonomia e libertà di movimento, quando fu il momento di scegliere il comandante del suo gruppo (che anche Bisagno gli aveva anzitempo caldeggiato), respinse la nomina che i suoi compagni gli stavano proponendo e indicò lui stesso Virgola come persona più adatta a svolgere tale compito, preferendo essergli accanto, a condividerne i rischi, come suo Capo di Stato Maggiore. Finita la guerra tornò a occuparsi del suo lavoro e della sua famiglia, che amò sempre in modo totale ed esclusivo, rimanendo talvolta appartato dai tanti clamori d’una Resistenza fatta, sovente, più di cerimonie inutili e di chiacchiere, che di fatti concreti. Amava in modo particolare ornarsi della “sua” medaglia da garibaldino, che portava sempre appesa al collo e mostrava con orgoglio: unico riconoscimento avuto dalla Resistenza, sia ligure che in campo nazionale.
[…] Mi piace anche come ne parla Paolo Castagnino “Saetta” nel suo libro “Il cammino della Libertà”, pp.148/152, De Ferrari, 2005, Genova; Aldo Vallerio “Riccio” nel suo libro “Ne è valsa la pena?”, pp. 582/84 (ed. ANPI di Sestri Levante, 1983); e Bruno Pellizzetti, “Scoglio” nel suo libro “Dalla montagna vedevamo il mare”, pp. 15/28, ed. Editrice Nuovi Autori, Milano,1995. Dei quali ne voglio riportare tre significativi stralci [n.d.r.: riprodotto con questo articolo, solo uno]:
“Il cammino della Libertà” di P. Castagnino, “Saetta”
“Bocci e Pepe attraversano il fronte”
<<All’inizio di dicembre viene presa un’importante decisione in seno al Comando della Coduri. Innanzitutto si decide, perché i lanci richiesti (e promessi) tardano ad arrivare (mentre altre formazioni delle zone vicine sono già state rifornite di armi e di equipaggiamento), di inviare oltre il fronte, presso il Comando Alleato, il Capo di Stato Maggiore Bocci che, insieme a Mario Pepe ufficiale del Comando, andrà a sostenere le buone ragioni della Coduri, alla luce dei risultati che la brigata, comandata da Virgola, ha ottenuto nella lotta contro i tedeschi e fascisti: Scoglio (Bruno Pellizzetti) sostituirà Bocci nell’incarico durante il periodo della sua assenza. Il compagno di viaggio di Bocci, Mario Alfonso Pepe, è nato a Villaguay, nella Repubblica Argentina, il 13 novembre 1922. Fin dall’infanzia risiedeva in Chiavari dove frequentava le scuole elementari, il ginnasio e il liceo per poi iscriversi all’università di Genova alla facoltà di Medicina.
Dotato di un eccezionale fisico atletico si distingueva in diverse disci­pline sportive; subito dopo l’8 settembre prendeva contatto con i primi organizzatori della Resistenza nel chiavarese. Egli ricorda: “Chiamato alle armi come studente universitario e inviato a Bolzaneto, fui smobilitato qualche mese dopo perché iscritto al 5° anno della Facoltà di Medi­cina. Dopo aver svolto attività cospirativa in città, al principio di marzo del 1944 mi recai a Torriglia con Bruno Solari di Chiavari (in epoca successiva Bruno sarà il primo comandante, per breve periodo, della formazione che diventerà la Divi­sione Coduri), dove fui presentato a Bisagno che mi assegnò all’ospedale partigia­no. Più tardi, recatomi a Colle di Valletti dove era sfollata mia madre, feci conoscenza con il Comandante Virgola, mi fece un’ottima impressione, tanto che de­cisi di restare nella sua formazione. Con Virgola, alla fine di ottobre, partecipai agli incontri con gli ufficiali della Monterosa a Torsa di Maissana, presenti, tra gli altri, Leone, Bocci, il colonnello Turchi, Don Luigi Canessa, Don G.B. Bobbio, nel tentativo di convincere questi ufficiali a venire con i loro reparti con noi. In un incontro con il maggiore Gordon Lett, comandante del reparto Allea­to a Zeri, esposi un mio piano che pensavo potesse evitare la presumibile distru­zione delle nostre zone da parte dei bombardamenti alleati il giorno dell’attacco definitivo. Il Maggiore Lett mi chiese di mettere per iscritto d progetto, cosa che subito feci, facendoglielo pervenire. Il comandante Virgola intanto disponeva per la nostra partenza e con Bocci ci accingemmo all’avventuroso viaggio. Si aggiunsero alla comitiva due paraca­dutisti inglesi, fuggiti da un campo di prigionia, e un pilota americano, Anderson, precipitato con il suo Tunderbolt in territorio controllato dai partigiani. Il mag­giore Lett ci diede una lettera da consegnare al Comando Alleato. Ci fermammo prima al comando di Ricchetto, dove conobbi un colonnello italiano (promosso generale al termine delle ostilità), che ci informò dei rastrellamenti tedeschi e fascisti nella zona (eravamo nei primi giorni del dicembre 1944), e del verdetto di un tribunale partigiano, che aveva condannato a morte un partigiano per essere entrato nella casa di un contadino dove, con la minaccia delle armi, aveva rubato dei salumi. Continuammo poi verso la linea Gotica, incontrammo una sola volta una pattuglia tedesca, che fortunatamente batté in ritirata non appena ci avvistò. Eravamo armati di sole due pistole, Bocci ed io, e non avremmo potuto opporre nessuna resistenza. Dopo alcuni giorni senza cibo e con molto freddo giungemmo alla linea del fronte che sovrastava dall’interno Serravezza. Era il pomeriggio del 14 dicembre e decidemmo di tentare l’attraversamento del fronte con la luce del giorno. Lo facemmo separatamente, a una distanza di una trentina di secondi l’uno dall’al­tro. Il terreno era coperto abbondantemente di neve e non era facile spostarsi. I tedeschi aprirono il fuoco dalle loro postazioni di mitragliatrici, ma erano abba­stanza lontani e fortunatamente ci mancarono. Ci riunimmo in fondo alla valle e nel buio della notte già iniziata ci avviam­mo verso gli alleati. Raggiunto un gruppo di casupole, vedemmo trapelare un po’ di luce da una fessura di una porta, ci avvicinammo e un uomo impaurito ci informò che le truppe americane erano lungo il sentiero che avevamo appena percorso, in una casa colonica. Tornammo indietro, entrammo nel cortile della casa indicata e trovammo forze americane della 92° Divisione Buffalo, al comando di un capitano. Ci rifocillarono, ci medicarono e potemmo dormire comodamente. La mattina successiva fummo scortati a Viareggio e consegnati alla Poli­ta Militare Alleata. Salutammo i due paracadutisti inglesi e il pilota Anderson che ci lasciavano e dormimmo nel posto di polizia. Il mattino seguente, dopo aver consegnato la lettera del maggiore Lett, fummo trasferiti a Firenze e condotti al campo di concentramento installato nell’aeroporto. Ci diedero una coperta, due razioni in scatola e ci dissero di aspettare. Nel campo c’erano molti partigiani che si trovavano lì da mesi, faceva freddo e il locale era basso. Poche ore dopo fummo chiamati e consegnati ad un ufficiale inglese della Special Force che ci portò in un magazzino ad equipaggiarci con divisa militare inglese completa e biancheria intima, poi ci accompagnò al co­lando del 15° Distaccamento della Special Force, in una bella villa, soddisfacente sotto tutti i punti di vista.
Il giorno seguente facemmo conoscenza del maggiore Mac Intosh, che ci interrogo e in seguito ci chiese di preparare una mappa della zona del Tigullio con postazioni tedesche, possibilità di utilizzare strade ed altre notizie. Mise a nostra «posizione abbondante materiale fotografico ottenuto dagli aerei alleati e planimetrie della nostra zona, alcune delle quali redatte dallo stesso Bocci, un esperto in materia, inviate per mezzo della Missione Alleata e riconoscibili da una sigla che abitualmente metteva in un angolo.
Ci trasferirono da Firenze a Roma con un’autoambulanza militare e fummo alloggiati in una villa di via Nomentana, comando della Special Force. Fummo poi interrogati al S.I.M. da tre ufficiali italiani su postazioni, forze e movimenti tedeschi e fascisti nella nostra zona, come anche sull’organizzazione e importan­za delle formazioni partigiane; fu anche convocato il conte Gualino, proprieta­rio dei Castelli di Sestri Levante, il quale tentò in ogni modo di convincere gli ufficiali italiani, Bocci e me, che quello che si vedeva in certe fotografie aeree erano pollai e depositi di attrezzi e non importanti opere realizzate dai tedeschi. Temeva evidentemente un bombardamento alleato che potesse danneggiare le sue proprietà.
Gli ufficiali del S.I.M. rintracciarono l’indirizzo di mio fratello, ufficiale medico nell’esercito italiano; dopo aver salutato l’amico Bocci, con il quale sono rimasto legato da fraterna amicizia, mi recai a Crotone dove finalmente incontrai mio fratello. Dopo un breve periodo di riposo arrivai a Chiavari, mi presen­tai al Comandante Virgola e potei ritornare agli studi per la laurea lasciando l’uniforme. In seguito, mi furono rilasciati tutti i documenti e il certificato di Alexander” […]>>
[…] A questo punto, dopo la doverosa segnalazione dei due interessanti documenti dello stesso Bocci, ivi presenti nel Fasc. 3 – Doc. 7 e 7bis dell’Archivio della Coduri, preferisco chiudere queste poche note – anche se ci sarebbero molte altre cose interessanti da dire sul suo conto con queste sei simpatiche strofe composte da Giomin di Baren (n. 1884 e zio della sig.ra Rosa Sivori, in dialetto sig.ra Rositta, moglie di Bocci) il quale abitava a Barassi in cima a una salita dove spesso vedeva in distanza la nipote e il suo fidanzatino salire in scià muntà:
Lazù, in fundu a muntà,
ghe a Rositta
cu figgiu du campanà,
ma nu ghè da faghe casciu:
perché i l’han ancun
u sbruggio au nasu.
Traduzione: laggiù, in fondo alla salita/ c’è la Rositta / con il figlio del campanaro, / ma non c’è da farci caso / perché hanno ancora / il moccio al naso.
[…] [C’é un] Il cippo, dello scultore lavagnese Francesco Dallorso, dedicato a “Bocci”, eretto nei giardini di Cavi Borgo in Lavagna.
La targa, con dedica di Elena Bono recita: Sanguineti Giovanni “Bocci”, Capo di Stato Maggiore, (Cavi 3.3.1914/23.2.1995).
Dopo l’8 Settembre ’43 fondò coraggiosamente con pochissimi altri la Formazione “Coduri” sopportando la fame e gli stenti, affrontando gli agguati e le insidie con quieta fermezza di capo senza chiedere mai ricompense di sorta. Forse si stupirebbe di un busto di Bronzo da Eroe in questi luoghi dove ritornata la Pace giocava con gli amici lunghe e tranquille partite a bocce, all’ombra di un pergolato.
Elena Bono, Fascicolo n. 30 – Doc. 1: Ritratto di Giovanni Sanguineti, “Bocci”, netpoetry