In poche settimane nelle alture intorno al monte Tobbio si raccolsero diverse centinaia di giovani renitenti e partigiani

La chiesetta sulla cima del Monte Tobbio (AL). Fonte: Wikipedia
Una vista dal Monte Tobbio (AL). Fonte: Wikimedia
Il Monte Tobbio (AL). Fonte: Wikimedia

[…] Gli esponenti dell’antifascismo genovese furono tra i più attivi organizzatori della Resistenza e delle formazioni partigiane anche sul versante alessandrino dell’appennino: subito dopo l’8 settembre avevano individuato nelle alture a ridosso di Genova, e in particolare nelle vallate intorno al monte Tobbio, una base per i militanti gappisti da addestrate alla lotta nelle città e un possibile teatro della guerra per bande.
L’area compresa tra la Valle Stura e la Valle Scrivia fu prescelta come centro di raccolta e addestramento delle reclute partigiane perché aveva, da un punto di vista strategico, una duplice caratteristica: da un lato era assai povera di strade interne e caratterizzata da una enorme e intricata distesa di boschi che sembravano offrire una certa sicurezza alle bande, soprattutto in una fase in cui si trattava di preparare più che di agire; dall’altra era posta alle spalle di arterie di comunicazione di rilievo strategico – la “camionale” Genova-Serravalle, su tutte, ma anche importanti nodi ferroviari – che potevano diventare l’obiettivo per azioni di disturbo e di offesa da parte delle formazioni dislocate sulle alture liguri-alessandrine.
Ben presto, però, gli organizzatori partigiani genovesi e i vecchi antifascisti si resero conto che il settore dei Tobbio, nonostante la sua collocazione periferica rispetto alle grandi vie di comunicazione, era vulnerabile nel caso di una manovra d’accerchiamento in grande stile, proprio in ragione della vicinanza delle importanti vie di comunicazione che collegavano il mare alla pianura alessandrina, come la statale dei Giovi e il passo del Turchino.
Per questo fu deciso che le bande, trascorso il periodo d’incubazione, avrebbero dovuto trasferirsi al più presto: parte di esse dovevano spostarsi a ovest verso l’Acquese, altre a est in Val Curone dove iniziavano a formarsi, nel frattempo, i primi nuclei partigiani che raccoglievano i giovani volontari dei paesi del tortonese. Questo problema era considerato talmente urgente che ne era già stata fissata la data di attuazione: la primavera dei 1944.
Mentre l’antifascismo genovese era impegnato in questa opera di organizzazione dei primi nuclei partigiani e stava elaborando un piano strategico per la loro successiva dislocazione, altri due nuclei di «ribelli» si erano aggregati spontaneamente e senza alcun appoggio di carattere politico nei giorni successivi all’armistizio e avevano posto la loro base nelle cascine intorno al monte Tobbio.
Il primo, insediato a Pian Castagna tra l’Erro e l’Orba, era composto da nove prigionieri di guerra evasi dal campo dei Giovi e da tre militari italiani; il secondo, attestato sulle falde dei monte Porale ad est della Val Lemme, era formato da otto russi, uno jugoslavo e due italiani: Tommaso Merlo (Puny) di Voltaggio, e Giuseppe Merlo di Bosio.
Il Cln (Comitato di Liberazione Nazionale) genovese decise che era necessario intrattenere rapporti di coordinamento anche con questi gruppi, e l’incarico di contattare i due nuclei partigiani venne affidato all’ingegner Agostini (Pietra o Ardesio), membro dei triumvirato insurrezionale del Partito comunista per la Liguria.
Questi primi contatti diedero presto i loro frutti e sul finire dei mese agli uomini di Pian Castagna si unirono due studenti comunisti genovesi: Walter Fillak (Gennaio, poi Martin) e Giacomo Buranello: il Partito comunista li aveva inviati in quella banda con il compito di assumerne il controllo politico e militare.
Più difficili risultarono, da subito, i rapporti con la formazione di Merlo, autodefinitasi «Banda di Voltaggio» perché composta in gran parte da giovani provenienti dal piccolo centro situato proprio al confine tra la provincia di Alessandria, cui appartiene amministrativamente e quella di Genova. Questa formazione manifestò una estrema refrattarietà a ogni tentativo d’inquadramento politico:
“Il nostro gruppo di 30-35 […] ragazzi di Voltaggio unitamente ad altri di […] comuni viciniori al comando del capitano Odino, […] Non essendo […] in sintonia con i gruppi quanto mai organizzati sia militarmente sia politicamente [dislocati] alla Benedicta, di orientamento comunista, […] non essendo con loro in sintonia si è ritirato alla cascina Roverno, una cascina nei pressi dei laghi della Lavagnina molto appartata che poteva rappresentare un punto di ricovero per i nostri. […] E non avevano armi, assolutamente, forse l’unico armato era il comandante Odino con la sua pistola di ordinanza (testimonianza di Giovanni Benasso, già sindaco di Voltaggio, fratello di un partigiano caduto)”.
Solo ad ottobre inoltrato Merlo ricevette formalmente da Agostini la consegna di organizzare gli uomini confluiti nella sua zona e solo alla fine dello stesso mese la «Banda di Voltaggio» ebbe il suo primo commissario politico: un militante comunista, G.B. Canepa (Marzo), entrato nella formazione insieme ad altri sei elementi genovesi.
Dopo alcune settimane dall’armistizio dell’8 settembre anche sul versante alessandrino il fronte antifascista iniziò ad organizzarsi, in primo luogo con la creazione dei Cln che avevano tra gli altri anche il compito di organizzare i giovani renitenti alla leva e i volontari che intendevano intraprendere la lotta partigiana contro nazisti e fascisti.
Nel corso del novembre 1943 i Cln di Acqui, Ovada e Novi approvarono il piano di reclutamento e di dislocazione degli uomini elaborato dagli antifacisti genovesi e si impegnarono a collaborare con l’invio di viveri, denaro e uomini. Al momento, però, l’afflusso di nuove reclute procedeva assai lentamente: il dissenso nei confronti del fascismo sembrava dare per lo più esito a forme di resistenza passiva, anche se l’ultimatum fissato dalle autorità della Rsi per il rientro dei militari ai rispettivi reparti il 10 novembre, era stato largamente disatteso, e una sorte analoga toccò ai bandi che chiamavano alle armi le classi ’23, ’24 e ’25.
I giovani chiamati alle armi, tuttavia, nell’immediato non sembravano, particolarmente preoccupati, nonostante il tono minaccioso dei bandi che prevedevano la fucilazione per i renitenti alla leva. In quelle prime settimane dell’autunno-inverno 1943 i piccoli paesi della valle Stura e della valle Orba sembravano ancora garantire ampi margini di sicurezza ai giovani renitenti che continuavano a “nascondersi” nelle loro stesse abitazioni o in casolari più o meno abbandonati sparsi nelle campagne circostanti.
“Per un certo periodo, sono stato sempre nascosto, un po’ qua un po’ là… Eh, andavo dalle famiglie, andavo da mia nonna, che era in una cascina, son stato lì tutto settembre e ottobre…
[…] Poi quando hanno messo fuori il bando che chi non si presentava bruciavano le case, ammazzavano tutti, allora siamo venuti giù a Serravalle… Eravamo in sette o otto, abbiam fatto il foglio per andare al distretto, poi dal distretto a Tortona. […] Ho dato il mio nome e ho firmato io, ero capo drappello di quei sette lì. All’indomani mattina [invece] siamo andati in montagna, siamo andati qua alla Benedicta… Che cosa andiamo a fare al distretto? Quelli che sono sotto le armi scappano a casa, noi dobbiamo andare là?
Mia mamma diceva: “Mah? Farai bene o farai male?”. Dico: “Ma gli altri vengono a casa, e io devo andare a presentarmi?”. Erano momenti un po’ critici… Non si sapeva che pesci prendere a quei tempi là, no? […] E allora siamo andati alla Benedicta. […]
Avevo vent’anni. Non avevo insomma [preparazione politica]…Piuttosto che andare a finire con quella gentaglia di tedeschi o che, abbiamo cercato di andare dove andavano i più tanti, va! Di Serravalle eravamo più di venti. Alla Benedicta eravamo mezzi sbandati, perché c’era poco ancora: non c’era armi, non c’era niente!” (testimonianza di Giuseppe Sericano)
Nonostante tra le giovani generazioni questa prima fase fosse ancora caratterizzata da un’ampia propensione per una disobbedienza ai bandi (che assumeva comunque il significato di un rifiuto della guerra fascista) dalla quale non discendeva però una scelta partigiana o di mobilitazione, alla fine dell’autunno un nuovo nucleo partigiano si aggiunse a quelli già operanti sull’Appennino ligure-alessandrino e si attestò nei pressi dei Laghi della Lavagnina: era formato da una decina di operai liguri e da alcuni «sbandati» ed era comandato da Edmondo Tosi (Achille, poi Ettore).
Nelle settimane precedenti il Natale 1943 in tutto il settore si contavano dunque una ottantina di uomini, armati malamente e pressoché inattivi. Trenta di essi si trovavano radunati nella «Banda di Voltaggio» e stazionavano all’Albergo Grande, una cascina che in passato era servita da essiccatoio dì castagne. L’arrivo dei nuovi componenti, quasi tutti militanti comunisti mandati in montagna dalla federazione genovese, aveva acuito i termini dei conflitto tra partigiani la cui formazione era di carattere politico e quelli la cui mentalità era più legata all’esperienza maturata nell’ambiente militare.
La diatriba attraversava anche la stessa sfera dei comportamenti quotidiani: Merlo e il «Puny» scendevano di frequente alle loro case, contravvenendo quindi ad elementari comportamenti di prudenza cospirativa; viceversa i comunisti, più ligi ai dettami della teoria della guerriglia, stavano rigorosamente sul posto. Neppure l’arrivo dei nuovo commissario politico, Mori, un operaio dell’Ansaldo, servì ad amalgamare meglio le due anime presenti in banda.
Nonostante le difficoltà ora esposte, i partigiani riuscirono in qualche modo a qualificare più concretamente la loro presenza, soprattutto con colpi intimidatori contro i fascisti locali, anche se l’armamento dei gruppi continuava ad essere assolutamente inadeguato per le azioni di guerriglia:
“Come armi avevamo degli sten, alcuni moschetti e bombe a mano, quelle che ci hanno buttato gli inglesi nell’ultimo lancio… […] Armi leggere, […] armi pesanti neanche una. […] Qualche azione si è fatta, ma ancora eravamo agli inizi. […] Anche le armi non erano adatte per fare certe azioni” (testimonianza di Santo Campi “Morgan”).
Queste azioni, anche se sporadiche e di relativa importanza militare, crearono però non poche preoccupazioni soprattutto tra i fascisti locali, timorosi del potere di attrazione che la presenza partigiane nelle valli poteva esercitare su altri giovani incerti sul da farsi: si fecero perciò più insistenti le presenze di spie e delatori e le puntate dei carabinieri dell’ovadese che a dicembre iniziarono a perlustrare le vallate per individuare la dislocazione dei «ribelli».
Ciò determinò alcuni spostamenti, anche di un certo rilievo, sul fronte resistenziale: la banda di Merlo lasciò l’area dei Porale, s’inerpicò sul Tobbio e dopo qualche giorno trascorso in una costruzione abbandonata ridiscese verso Voltaggio, infine giunse alla cascina Cravara Superiore dove si sciolse.
I genovesi si diressero ai Laghi della Lavagnina; Merlo e il «Puny», insieme ai russi e ad alcuni elementi appena giunti in montagna, diedero vita a un’altra formazione: in pratica il primo embrione della futura Brigata autonoma «Alessandria».
All’inizio di gennaio il nucleo di Fillak, dopo un breve periodo di permanenza fuori settore, raggiunse anch’esso i Laghi della Lavagnina, ricongiungendosi agli uomini di Tosi e alla frazione staccatasi dalla ex «Banda di Voltaggio». Con i tre gruppi qui radunati, una quarantina di uomini in tutto, fu costituita la III Brigata Garibaldi «Liguria»: comandante venne nominato Edmondo Tosi, vicecomandante era Franco Gonzatti (Leo), commissario politico Rino Mandoli (Sergio Boerio).
In un primo momento la sede dei comando venne posta, alla cascina Brignoleto, mentre il grosso della formazione viveva sparso nei casolari intorno. L’inconsistenza dell’armamento non impedì che venisse subito compiuta un’azione contro un posto d’avvistamento aereo, situato sul monte Zuccaro. Erano azioni importanti per il morale dei giovani, e servivano anche, sottraendole ai militi fascisti, a recuperare armi per rimpolpare i piccoli arsenali delle formazioni.
Nei primi mesi del 1944 la III Brigata Garibaldi «Liguria» e la Brigata autonoma «Alessandria» aumentarono via via i loro effettivi. I nuovi bandi nazifascisti (soprattutto quello dei 18 febbraio dai toni particolarmente minacciosi e noto come «bando Graziani») indussero un numero crescente di giovani a salire in montagna. I piccoli nuclei si dilatarono quasi improvvisamente e in poche settimane nelle alture intorno al monte Tobbio si raccolsero diverse centinaia di giovani renitenti e partigiani […]
Daniele Borioli e Roberto Botta, I caduti della Benedicta, Isral, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Alessandria “Carlo Gilardenghi”