La diplomazia americana decise di compattare la linea di intervento anglo-americana su una posizione di netta fermezza nei confronti della Jugoslavia, mirante a garantire il controllo occidentale su Trieste

[…] Le nostre truppe stanno arrivando, se i tedeschi ci bombardavano con i cannoni da Trieste voleva dire che i nostri si stavano avvicinando!
La stessa notte sono andato da Martin Greif che nel frattempo aveva costituito il comando della città; la mattina seguente già iniziavano i combattimenti. Nella zona della Maddalena c’erano già i primi partigiani, naturalmente impacciati, con una grande stella rossa sulla bustina, la maggior parte di loro aveva lunghi fucili italiani presi dai nostri depositi. Un gruppo di tre ha disarmato il posto di guardia della guardia civica vicino a Muggia, ha confiscato parecchi mitragliatori e un cannone anticarro. Štoka da solo in mezzo alla strada ha disarmato un maggiore tedesco e diceva che non ha mai visto una faccia più stupida di quella che ha fatto il tedesco quando gli ha messo la pistola sotto il naso.
Tuttavia non avevamo più collegamenti con il comando del IX Korpus. Non era ancora giunto l’ordine telegrafico decisivo per l’insurrezione. Eravamo lasciati a noi stessi e dovevamo decidere dal soli.
Lunedì mattina a San Giacomo è iniziata l’insurrezione operaia. Una massa di persone si era riversata nelle strade e in mezzo a loro svicolavano le autoblindo dei tedeschi. Le guidavano i tedeschi ma all’interno c’erano i questurini con le mostrine tricolori sulle maniche sulle quali c’era la scritta CLN (Comitato libero nazionale- così nel testo, n.d.r.). Le stesse persone che fino a pochi giorni prima avevano servito l’occupatore e il fascismo e che avevano impiccato negli ultimi giorni di aprile quattro ostaggi accusandoli di avere bruciato il garage di via D’Azeglio volevano ora farsi passare come monarchici per prendere il potere.
Ero preoccupato che la situazione non si capovolgesse. Ma il proletariato triestino è stato in grado di gestire la situazione. I lavoratori si impossessavano delle armi del CLN, si armavano e componevano le compagnie, invadevano le caserme e l’ospedale militare in via dell’Istria, e su questo non innalzarono la bandiera italiana col simbolo di casa Savoia ma una bandiera rossa enorme che arrivava fino a terra.
Nel corso di un attacco è stata disarmata con i soli fucili una grossa autoblindo tedesca con otto mitragliatrici, in breve il popolo ha deciso autonomamente di combattere per prendere il potere. Dappertutto era così. Non soltanto a San Giacomo dove l’insurrezione è stata spontanea, ma anche a San Giovanni già in mattinata fu occupata l’Università, disarmato un presidio tedesco ed iniziata la calata verso il centro città, circondati i tedeschi nel palazzo di giustizia e nella fortezza di San Giusto e negli altri edifici. I tedeschi erano arroccati nelle caserme di Rozzol e nella stazione radio.
Alle 4 del pomeriggio è giunta la notizia che Biani, il comandante in capo, cioè San Giovanni-centro , ha occupato il palazzo del Municipio il palazzo comunale sulla piazza principale. Venti volontari si sono barricati nel palazzo della criminale questura triestina. Aspettavamo. Non arrivavano notizie da fuori, non sapevamo cosa succedeva a Basovizza, Opicina e Barcola. Il collegamento con la città non era possibile. Il IX Korpus non comunicava nulla ma radio Londra trasmetteva gli ordini speciali del maresciallo Tito:
“L’ultimo giorno di aprile verso sera le truppe jugoslave sono entrate a Trieste dove sono in corso combattimenti nelle strade”.
Quindi le nostre truppe sono a Trieste e non soltanto le truppe del Comando città ma anche i regolari dell’esercito jugoslavo. E davvero c’erano: allora erano già ad Opicina, Barcola e San Giovanni. Il comando della città è stato trasferito a Ruzel . Sapevamo di avere il controllo della grande parte della città, che sono state disarmate tutte le organizzazioni collaborazioniste triestine e più di 2000 soldati tedeschi. Aspettavamo soltanto il comunicato dall’uno o dall’altro settore, che le nostre truppe si erano congiunte con i combattenti della IV Armata che spingeva da ovest verso la città.
Non dimenticherò mai quando ho sentito la mattina presto in via D’Angeli gridare: “Stoj, stoj!”. Ho guardato l’orologio, erano esattamente le 4 e mezzo di mattina del 1° maggio 1945. Ho aperto la finestra e visto le scure sagome dei soldati, anche se al primo momento non sono riuscito a riconoscerle. Una donna ha urlato dalla finestra: “chi siete compagni, da dove venite?”.
Hanno risposto:
“Partigiani!”.
Non sapevo cosa fare per la gioia ed ho gridato:
“Compagno, avvicinati, chi sei?”.
Da lontano mi ha gridato:
“Siamo i combattenti del battaglione d’assalto della XXX Divisione”.
Quando mi fu vicino mi riconobbe, un tempo era stato combattente della brigata Gradnik.
“Bene, compagno”, disse, “abbiamo il compito di unirci a voi. Date la notizia che siamo giunti in città dalla vostra postazione radio. Non posso fermarmi più a lungo, devo proseguire. I tedeschi ci sparano dalle caserme”.
Alla donna che gli aveva chiesto nuovamente chi e quanti fossero, rispose: “Siamo i combattenti della XXX Divisione, dietro di noi stanno arrivando il IX Korpus e la IV Armata jugoslava, dietro di noi c’è la nuova Jugoslavia”.
Vinko Šumrada (Radoš), A Trieste, La Nuova Alabarda

Nella primavera del 1945 l’esercito jugoslavo riuscì ad arrivare in Istria, a Trieste e a Gorizia, nella speranza di porre gli Alleati di fronte al fatto compiuto dell’annessione di città e terre rivendicate come slave data la
presenza plurisecolare di comunità slovene e croate. Nelle ultime fasi della guerra, Tito concentrò il suo sforzo militare sulla Venezia Giulia, lasciando Lubiana e Zagabria in mani tedesche pur di raggiungere il Tagliamento, e riuscì a giungere fino a Romans, nella Bassa Friulana. Trieste, Gorizia, Fiume e tutta l’Istria furono così occupate dai partigiani slavi, che disarmarono la brigata Triestina, formata da partigiani locali che avevano combattuto contro il comune nemico nazista, ed intimarono alle brigate Garibaldi del Friuli di non avvicinarsi alle aree occupate dai titini. Il primo maggio 1945 i partigiani di Tito riuscirono dopo un’affannosa marcia forzata ad entrare a Gorizia e a Trieste prima delle truppe alleate. Il “fatto compiuto”, l’insediamento jugoslavo a Trieste, si sviluppava pertanto in una direzione opposta rispetto agli accordi stipulati in precedenza tra Tito ed il generale britannico Alexander. Il 2 marzo 1945 a Belgrado i due rappresentanti governativi avevano accordato la possibilità di un insediamento dell’amministrazione americana nell’«area necessaria a mantenere il controllo delle linee di comunicazione stradali e ferroviarie
con l’Austria», comprendente Trieste e Pola. Anche in caso di presenza degli alleati, Tito chiedeva che venisse comunque mantenuta la propria amministrazione civile sul territorio. Nonostante gli accordi, dunque, nel maggio dello stesso anno Trieste era in mano alle truppe jugoslave.
Stefano Toracca, Questione di Trieste nel dopoguerra. 1943-1954, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2018/2019

Da subito, in contemporanea con gli scontri contro i tedeschi, iniziarono [in Trieste] anche gli incidenti tra partigiani e CVL.
Ricordiamo innanzitutto le dichiarazioni di Antonio Fonda Savio, comandante di piazza del CVL che asseriva: ““nostro compito era quello di aprire la via agli Alleati, ci siamo astenuti di sparare sugli Slavi per non peggiorare la nostra posizione politica rispetto agli Alleati”” <97, affermazioni che appaiono molto gravi se messe in confronto con la testimonianza di Giacomo Juraga (allora comandante della Guardia civica) che così racconta: “”il giorno 29 aprile 1945 per la prima volta mi sono accorto che qualcosa non andava in quanto, recandomi al presidio di via Ginnastica, mentre transitavo per via Mazzini, scorsi un camion con componenti della X Mas e mi accingevo con la mia scorta di 16 uomini ad aprire il fuoco, quando il ten. col. in congedo Fonda Savio, che si trovava insieme con noi, componente il Comitato di Liberazione, interruppe l’’azione dicendo che non si doveva sparare sugli italiani”” <98.
Passiamo a ricordare l’’incidente di Roiano, quando, come dice lo stesso Maserati “gli insorti del CVL per difendere un gruppo di guardie di Finanza aprono il fuoco sui soldati di Tito”. Accadde che i comandanti di un battaglione di finanzieri di stanza a Roiano si fossero accordati con la Brigata partigiana Kosovel, scesa dal Carso ed arrivata in città nella zona di Roiano appunto, affinché tenessero sotto tiro i tedeschi che si trovavano a presidiare la stazione centrale ed il porto vecchio. Ma nel corso dei combattimenti ad un certo punto i tedeschi penetrarono alle spalle della Kosovelova Brigada proprio dal punto in cui avrebbero dovuto essere tenuti sotto controllo dalla Guardia di Finanza. I partigiani lo interpretarono come un tradimento da parte dell’’Arma e per questo motivo disarmarono le guardie di Finanza e ne arrestarono diverse. In tale occasione avvenne anche che un membro del CLN si trovò a sparare contro i partigiani, ma non fu né ucciso né arrestato per questo motivo <99. La brigata del CVL che operava a Roiano era la “Foschiatti”, comandata da Rovelli.
Un altro episodio, più grave, riguarda il gruppo di guardie di finanza della caserma di Campo Marzio che, a causa di ordini sbagliati (non erano state informate dai loro superiori che la formazione era stata messa a disposizione del CLN triestino), invece di combattere a fianco della IV Armata jugoslava scesa in città, spararono contro di essa assieme ai militari germanici, che erano accasermati nello stesso edificio. Di conseguenza un’’ottantina di finanzieri furono arrestati ed internati nei campi di prigionia (secondo un documento citato, ma non reso pubblico, da Giorgio Rustia <100, 77 di questi sarebbero stati uccisi a Roditti presso Divaccia, a pochi chilometri da Trieste). Però ricordiamo che era compito della brigata “Timavo” (per la precisione del battaglione agli ordini del tenente colonnello Domenico Lucente <101) prendere il controllo della caserma di Campo Marzio, quindi possiamo anche domandarci quale responsabilità ebbero in questi incidenti i dirigenti del CVL, che evidentemente non avevano informato esattamente i finanzieri in merito agli accordi presi.
A proposito di questo episodio, dobbiamo anche citare quanto scrive Spazzali, e cioè che la sera del 30 aprile “quando a Trieste non erano ancora entrate le truppe jugoslave”, Vasco Guardiani, che si trovava nella Curia per parlare col Vescovo, vide passare i finanzieri “prelevati dalla caserma di Campo Marzio, scortati da operai dei Cantieri navali” <102.
Ricordiamo infine ciò che accadde alla caserma di via Rossetti, che il 30 aprile era stata presa sotto controllo dalla brigata “Garibaldi” di Giustizia e Libertà. Il giorno dopo, l’’ex guardia civica Matteo De Nittis (che era stato inquadrato all’’interno della brigata), agendo di propria iniziativa sparò contro i partigiani jugoslavi che risposero al fuoco uccidendo De Nittis. Va precisato che questo incidente, per quanto enfatizzato dagli storici come dimostrazione dell’’“intolleranza titina”, fu frutto del gesto isolato di De Nittis che fu infatti l’’unica vittima dello scontro: dopo la sparatoria i partigiani occuparono la caserma senza altri incidenti e senza operare rappresaglie od arresti.
In conseguenza di questi incidenti il CLN decide di ritirare (siamo al 1° maggio) i propri reparti dalla lotta e “poste al sicuro le armi, gli uomini rientrano alle loro case” <103. Dai vari “diari” delle brigate appare che tutte si sciolsero il 2 maggio, quando la città era ben lungi dall’’essere liberata dai nazifascisti.
[NOTE
97 Da una relazione raccolta da Ercole Miani e conservata presso l’’archivio IRSMLT.
98 Relazione di G. Juraga, sul “Lavoratore” del 2/8/45.
99 Testimonianza di un ufficiale del IX Korpus, aggregato alla Kosovelova Brigada, raccolta da Samo Pahor.
100 Rustia è rappresentante dell’’Associazione Congiunti e Deportati in Jugoslavia ed Infoibati, e sull’’argomento ha scritto una lettera pubblicata su “Trieste Oggi” il 25/4/01.
101 Da “I cattolici triestini…”, cit..
102 R. Spazzali, “…l’’Italia chiamò”, cit.. Ricordiamo che, stando ai “diari”, nei cantieri si sarebbero “insinuati” membri delle brigate “Venezia Giulia” e “Frausin”.
103 E. Maserati, “L’’occupazione jugoslava di Trieste”, cit.
Claudia Cernigoi, Luci ed ombre del CLN triestino, La Nuova Alabarda

Le convulse settimane che portarono allo scadere del mese di aprile videro forti attriti tra la diplomazia inglese e quella americana, <13 con la seconda impegnata a portare avanti una linea dura contro il principio della demarcazione e della spartizione territoriale, emerso dai contatti tra Tito e Alexander, insistendo sulla necessità di impostare un governo militare alleato su tutta la Venezia Giulia. Il principale timore manifestato da Washington era rivolto alla situazione politica italiana, che, di fronte alla perdita imposta delle proprie posizioni nella regione, difficilmente avrebbe potuto avviarsi ad una progressiva stabilizzazione. <14
L’impasse diplomatico finì per incidere notevolmente su quella che Geoffrey Cox, capo del servizio informazioni della 2^ divisione neozelandese, definì come la “Corsa per Trieste”, <15 lasciando Alexander senza ordini precisi, mentre le truppe jugoslave incedevano senza sosta verso la città di Trieste.
Il 1º maggio il IX Korpus sloveno e la IV armata jugoslava entravano a Trieste, seguiti il giorno dopo dall’arrivo delle truppe neozelandesi del generale Bernard Freyberg, il quale nei giorni precedenti si era mosso nel tentativo di non lasciare a Tito il merito esclusivo di aver liberato la Venezia Giulia. <16 Debellate le ultime sacche di resistenza organizzate dai tedeschi nel tentativo di arrendersi agli Alleati per non cadere in mano jugoslava, restava il problema di una situazione di overlapping <17 sulla città di Trieste, ossia di sovrapposizione di aree di competenza diverse, dovuta alla compresenza delle truppe alleate e di quelle jugoslave, che impedì ad Alexander di istituire il governo militare alleato a est dell’Isonzo, così come paventato precedentemente nei colloqui con Tito.
Mentre le autorità jugoslave attivavano nella Venezia Giulia i meccanismi di “bonifica politica” e di controllo territoriale, <18 ritenuti funzionali all’idea che chiunque avesse occupato militarmente un territorio avrebbe poi avuto il pieno diritto di instaurarvi il proprio sistema politico e sociale, e mentre si consumavano i quaranta giorni di occupazione della città da parte delle truppe di Tito, le diplomazie si misero alacremente al lavoro per tentare di individuare una soluzione. Gli inglesi, nel difficile tentativo di armonizzare le proprie posizioni con quelle statunitensi, avviarono contatti con Tito per cercare di ricondurre la discussione sui binari tracciati dalla linea di demarcazione, trovando però nel generale jugoslavo l’irremovibile intenzione di voler continuare ad esercitare legittimamente il proprio controllo politico sull’area da lui occupata militarmente. Davanti agli insuccessi britannici la diplomazia americana, nel frattempo attraversata dall’avvicendamento di presidenze tra il defunto Roosevelt e Truman, decise di compattare la linea di intervento anglo-americana su una posizione di netta fermezza nei confronti della Jugoslavia, mirante a garantire il controllo occidentale su Trieste.
Così nella seconda metà di maggio, a seguito di una nota di Belgrado volta a ribadire il diritto jugoslavo di occupazione della Venezia Giulia fino all’Isonzo, Alexander dispose l’apprestamento di nuovi contingenti militari a est dell’Isonzo, con lo scopo di lanciare il messaggio della disponibilità angloamericana allo scontro con le truppe jugoslave, qualora si fosse reso necessario, ribadendo la fermezza delle proprie posizioni. A quel punto il 21 maggio il governo jugoslavo emetteva una nota in cui veniva accettata l’amministrazione alleata ad ovest della cosiddetta linea Morgan, che avrebbe diviso la Venezia Giulia in due grandi aree: la Zona A, comprendente Trieste, Gorizia, il tarvisiano e la città di Pola, e la Zona B, che inglobava gran parte della Venezia Giulia con quasi tutta l’Istria, Fiume e le isole del Quarnaro, situazione poi sancita definitivamente il 9 giugno del 1945 con l’accordo di Belgrado. <19 Tale mutamento nell’atteggiamento jugoslavo era intercorso principalmente per il mancato sostegno in ambito diplomatico ai piani di Tito da parte dell’URSS. La potenza sovietica di fatto rendeva manifesta, con il suo silenzio sulla
questione, la propria intenzione di non fare della Venezia Giulia un proprio argomento di trattativa, <20 cogliendo parzialmente di sorpresa le stesse diplomazie occidentali, convinte che Tito fosse mosso integralmente come una pedina dalla mano sovietica, ignorando le dialettiche già in atto tra i due leader comunisti. L’accordo di Belgrado e il successivo ripiegamento delle truppe jugoslave a est della linea Morgan di fatto non sancirono la chiusura della trattativa fra anglo-americani e jugoslavi, ma stabiliva la base di partenza per il raggiungimento di futuri accordi di natura operativa.
[NOTE]
13 Giampaolo Valdevit, Simmetrie e regole del gioco: Inghilterra, Stati Uniti, Jugoslavia e la crisi di maggio 1945, in «La crisi di Trieste. Una revisione storiografica» a cura di Giampaolo Valdevit, Quaderni di Qualestoria n. 9, IRSML-FVG, Trieste, 1995, pp. 7-37.
14 Raoul Pupo, Fra Italia e Jugoslavia. Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Del Bianco, Udine, 1989, pp. 30-32. Sullo scontro tra diplomazia britannica e statunitense vedere anche G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 79-88, A.G. De Robertis, Le grandi potenze, cit., pp. 217-271.
15 Geoffrey Cox, La corsa per Trieste, LEG, Gorizia, 2005.
16 Raoul Pupo, Trieste ’45, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 136-172.
17 G. Valdevit, Il dilemma di Trieste, cit., pp. 31-51.
18 Per approfondimenti sulle articolate questioni intercorse nei quaranta giorni di occupazione vedere R. Pupo, Trieste ’45, cit., pp.193-202, 228-258, B.C. Novak, Trieste 1941-1954, cit., pp. 161-193, N. Troha, Chi avrà Trieste?, cit., pp. 27-87. Più in generale sul tema delle foibe si rimanda solo ad alcuni volumi di riferimento in grado di toccare i vari aspetti che animano l’acceso dibattito ancora in corso sulla questione: Giampaolo Valdevit (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945, Marsilio, Venezia, 1997, Raoul Pupo, Roberto Spazzali, Foibe, Mondadori, Milano, 2003, P. Pallante, La tragedia delle foibe, Editori Riuniti, Roma, 2006, Claudia Cernigoi, Operazione Foibe. Tra storia e mito, KappaVu, Udine, 2006, AA.VV, Foibe: revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica, Atti del convegno “Foibe: la verità. Contro il revisionismo storico” 9 febbraio 2008 Sesto San Giovanni (MI), KappaVu, Udine, 2008, Jože Pirjevec, Foibe, Einaudi, Torino, 2009, Elio Apih, Le foibe giuliane, a cura di R. Spazzali, M. Cattaruzza, O. Moscarda Oblak, LEG, Gorizia, 2010, Scotti Giacomo, Foibe e fobie. Istria 1943. Come e perché vennero giustiziati fascisti e
innocenti nel settembre dell’insurrezione popolare, Numero speciale de “Il Ponte della Lombardia”, n° 2, Febbraio/Marzo 1997, ID., Dossier Foibe, Manni, San Cesario di Lecce, 2005.
19 G. Valdevit, La questione di Trieste, cit., pp. 92-102.
20 Giampaolo Valdevit, Simmetrie e regole del gioco, cit., Leonid Gibjanskij, L’Unione Sovietica, la Jugoslavia e Trieste, in «La crisi di Trieste», cit., pp. 39-78, A.G. De Robertis, Le grandi potenze, cit., p. 289.
Irene Bolzon, Fedeli alla Linea. Il CLN dell’Istria, il governo italiano e la Zona B del TLT tra assistenza, informative e propaganda. 1946-1966, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Udine, Anno Accademico 2013-2014

La questione di Trieste prende definitivamente corpo in corrispondenza ai quaranta giorni di occupazione jugoslava del capoluogo giuliano. Il fatto compiuto posto in essere dagli jugoslavi contraddice gli accordi stipulati tra Tito ed il Generale Alexander a Belgrado il 2 marzo 1945, secondo cui gli anglo-americani avrebbero amministrato Trieste e Pola <1 in quanto comunicanti con l’Austria. Tito giustifica però l’occupazione con “un’imprevista resistenza tedesca che ha reso necessarie siffatte misure” <2, senza invece esplicitare le vere ragioni della sua azione militare: le velleità annessionistiche <3 di parte slovena sul Litorale Sloveno, la Val Canale, la Slavia Veneta, e di parte croata su Zara, Fiume e tutta l’Istria <4.
Mentre le truppe della IV armata e del IX Korpus jugoslavi il 1° maggio del 1945 penetrano Trieste, i comunisti giuliani si rifiutano di sottoscrivere il documento programmatico del CLN <5 che richiama l’italianità della Venezia Giulia anche rispetto alla Carta atlantica. Anzi, in contrapposizione a questa richiamano, in modo evidentemente provocatorio, la «collaborazione fraterna fra italiani e slavi», quando in realtà sventolare la bandiera italiana è ormai proibito.
Il 2 maggio Trieste è raggiunta anche dai fanti della Seconda Divisione neozelandese del Generale Bernard Freyberg <6 in raccordo con i lancieri inglesi. Anziché scalzare gli jugoslavi, nella “corsa per Trieste” <7 gli alleati si limitano a prendere in custodia la guarnigione tedesca. Non ricevono infatti altri ordini che questo <8.
Gli uomini di Tito, vale a dire le milizie comuniste, i tribunali del popolo e la polizia segreta, si dedicano a massacri e spoliazioni anche sotto gli occhi delle truppe alleate <9. Si svolge una seconda ondata di infoibamenti, su scala maggiore rispetto a quella del settembre del ’43 in Istria. Il CLN viene così costretto alla clandestinità sia nel capoluogo giuliano che in Istria. Solo a Trieste, fra il 1° maggio e il 12 giugno, scompaiono oltre tremila persone <10.
Di fronte a questo quadro, neppure Stalin, che pure ha concesso a Tito il via libera durante i primi mesi di aprile, si schiera apertamente dalla sua parte <11. A Trieste, Istria e Fiume i comunisti jugoslavi riescono comunque a legare a sé una componente significativa della popolazione italiana. Manifestazioni in favore della Jugoslavia con striscioni e cartelli in lingua italiana rappresentano un’efficace arma diplomatica. Tuttavia, una parte non irrilevante di sloveni e croati o mistilingui non comunisti preferirebbero il mantenimento del nesso statuale italiano <12.
Gli americani, da parte loro, reagiscono attraverso l’impulso del Dipartimento di Stato, che fin dal 4 maggio 1945 informa il neo-presidente Truman delle violazioni di parte jugoslava. Ma non solo. Egli precisa testualmente: “nell’eventualità di una protratta occupazione della Venezia Giulia da parte delle truppe di Tito, dovremmo essere pronti a utilizzare truppe americane in funzioni di ordine pubblico in Italia” <13.
Al di là delle apparenze la linea rimane attendista, tanto da chiedere ad Alexander di usare la forza “solo in caso di legittima difesa” <14.
Consapevole di dover abbandonare Trieste per conservare il resto del bottino <15, il 21 maggio Tito si rende disponibile, con una nota del governo jugoslavo, a firmare l’accordo sulla Linea Morgan <16, che divide la Venezia Giulia in due grossi tronconi: la Zona A, con Trieste, Gorizia, Tarvisio e Pola, e la Zona B, con buona parte della Venezia Giulia, quasi tutta l’Istria, Fiume e il Quarnaro.
Alla luce degli accordi di Belgrado del 9 giugno 1945, l’Esercito jugoslavo è costretto a ritirarsi oltre tale linea divisoria delle zone di occupazione delle potenze occupanti. Si irrobustiscono le strutture clandestine jugoslave e la stessa amministrazione alleata viene infiltrata dall’intelligence jugoslava.
Mentre la diplomazia italiana abbandona la rivendicazione del riconoscimento del confine di Rapallo in favore di una più “realistica” Linea Wilson come tracciato alternativo rispetto a quello proposto dalla Jugoslavia <17, sul confine orientale si costituiscono formazioni paramilitari di tutti i principali schieramenti: osovani <18, fascisti e partigiani comunisti <19.
La Venezia Giulia, ovvero il grande oggetto del contendere, secondo gli Stati Uniti va completamente occupata attraverso un governo militare alleato, mentre per la Gran Bretagna la soluzione più efficace e utile è quella della demarcazione e spartizione territoriale emersa durante gli incontri tra Alexander e Tito <20.
È con l’Ordine Generale n. 11, del governatore Bowman, datato 10 agosto 1945 e recitante “Il governo militare alleato è l’unico governo […] ed è l’unica autorità che abbia il potere di emanare ordini e decreti e procedere alle nomine in uffici pubblici od altri” che viene segnato l’inizio dell’Allied Military Government; l’Ordine infatti contiene tutte le disposizioni e norme di legge per i nuovi Consigli Comunali e Provinciali di Trieste, Gorizia e della città di Pola, compresi nella Zona A della Venezia Giulia, dove partiti, associazioni economiche, sociali e gruppi nazionali devono essere rappresentati in termini paritari, secondo i criteri dei CLN italiani. Con tale Ordine vengono sciolti i Comitati Esecutivi Distrettuali e Comunali Antifascisti Italo-Sloveni (organi di democrazia popolare o progressiva) instaurati ai primi di maggio dall’Amministrazione Militare Jugoslava <21.
L’area occupata dagli anglo-americani, nominata Zona A, viene divisa in due parti. La prima composta dalla Provincia di Trieste, la seconda da quella di Gorizia.
Un discorso a parte è il Comune di Pola, enclave circondata dal territorio sotto controllo jugoslavo, che svolge anche funzioni di Provincia. Per ogni area è assegnato un Presidente e un Consiglio, tutti nominati dal GMA. Formula, questa, mutuata anche per i Presidenti comunali e i relativi Consigli e adottata ben due mesi dopo […]
[NOTE]
1 Pola comunica con l’Austria attraverso il traghetto che raggiunge Trieste.
2 G. COX, The Race for Trieste cit., p. 31.
3 Rispetto al celebre discorso di Tito a Lissa datato 14 settembre 1944, dov’egli rivendica apertamente la liberazione jugoslava dell’Istria, del Litorale sloveno e della Carinzia, gli storici concordano nel considerarlo come il primo atto successivo all’accordo con Subašic nel giugno 1944 e la conseguente uscita dal CLN giuliano dei comunisti italiani. Le due circostanze sono infatti intimamente connesse.
4 B. C. NOVAK, Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano, 1973, p. 123. N. TROHA, La liberazione di Trieste e la questione del confine. La politica del movimento di liberazione sloveno nei confronti dell’appartenenza statuale di Trieste: settembre 1944-maggio 1945, in «QualeStoria», n. 1, giugno 2006, IRSML-FVG, Trieste, pp. 47-66.
5 O.d.g. del CLN della Venezia Giulia del 9 dicembre 1944, trasmesso con Appunto Coppino a De Gasperi, DDI, X, II, pp. 40-42.
6 R. PUPO, Trieste ’45, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 136-172.
7 G. COX, The Race for Trieste cit. Vedi anche la traduzione italiana G. Cox, La corsa per Trieste, LEG, Gorizia, 1985. Sir Geoffrey Cox è capo dei servizi di Intelligence della Seconda divisione neozelandese nonché uno dei pochi ufficiali inglesi a schierarsi immediatamente in favore della causa italiana.
8 N. TROHA, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati, IRSML-FVG, Trieste, 2009, pp. 27-87.
9 Ibidem.
10 A. DULLES, The Secret Surrender, Harper and Row, New York, 1966, pp. 73 e ss.
11 S. PONS, L’impossibile egemonia: l’URSS, il PCI e le origini della guerra fredda, 1943-1948, Carocci, Roma, 1999, pp. 175-177.
12 P. Lendvai, Eagles in Cobwebs: Nationalism and Communism in the Balkans, Doubleday, Garden City, New York, 1969, p. 105.
13 National Archives and Records Administration, Washington D.C., 740.0011 E/5-445, Memorandum for the President, Secret, 4 maggio 1945, a firma Grew.
14 Ibidem.
15 National Archives and Records Administration, Washington D.C., AC, 10000, 136-142, Daily Summary of Developments, Top Secret, 10 maggio 1945.
16 Stettinius Papers, University of Virginia Library, collection 2723, box 735, Memorandum for the President, Top Secret, 19 giugno 1945, a firma Grew.
17 Pupo spiega che “il puntare nel 1945 sull’accettazione della linea Wilson significava presupporre, per lo meno a livello d’intenti, la conservazione dell’Italia di una funzione non velleitariamente egemone, ma nemmeno esclusivamente di secondo piano, nell’area mediterranea e balcanica”. R. PUPO, La rifondazione della politica estera italiana, cit., p. 104.
18 I. BUTTIGNON, Pai nestris fogolârs: le formazioni “patriottiche” nel Friuli del secondo dopoguerra, in M. EMANUELLI e A. ZANNINI (a cura di), La ricostruzione della società friulana 1945-1955, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Udine, 2018, pp. 278-295.
19 M. PACOR, Confine orientale. Questione nazionale e resistenza nel Friuli-Venezia Giulia, Feltrinelli, Milano, 1964, p. 57.
20 Washington teme per l’Italia. Se questa perderà posizioni in quell’area – sostengono gli americani – farà fatica a stabilizzarsi. G. VALDEVIT, Simmetrie e regole del gioco: Inghilterra, Stati Uniti, Jugoslavia e la crisi di maggio 1945, in La crisi di Trieste. Una revisione storiografica a cura di Giampaolo Valdevit, Quaderni di Qualestoria n. 9, IRSML-FVG, Trieste, 1995, pp. 7-37.
21 «88th Gets Trieste Occupation Mission», in “The Blue Devil”, Vol. 1, No. 13. 14 settembre 1945. p. 1.
Ivan Buttignon, Laicità alabardata. Il Circolo della Cultura e delle Arti di Trieste ai tempi del Governo anglo-americano, Centro di ricerche storiche Rovigno, Quaderni XXXI, 2020

La questione delle foibe e l’esodo giuliano-dalmata hanno a loro volta costituito aspetti imprescindibili del dibattito sul confine dell’alto Adriatico e su Trieste. Un primo momento di completo oscuramento della vicenda a livello sia nazionale che locale, seguito da un largo utilizzo strumentale della “memoria offesa” delle popolazioni coinvolte, hanno connotato in maniera ideologica anche le narrazioni degli anni Ottanta, quando finalmente è stato possibile dare ampia visibilità alla vicenda. Solo a partire dagli anni Novanta il lavoro interpretativo ha dato i suoi primi frutti rigorosi e non più connotati da un’aspra contrapposizione, esito anche delle nuove collaborazioni tra storici italiani e sloveni <62.
La prima fase storiografica prese avvio prima ancora che la vertenza politica fosse conclusa, ad opera di soggetti coinvolti e orientati a influire sulla risoluzione della stessa. Si pensi al volume di Diego De Castro del 1952 <63, protagonista della complessa vicenda in qualità di rappresentante diplomatico del Governo italiano e consigliere politico del Governo Militare Alleato della Venezia Giulia, o agli scritti di Manlio Cecovini, leader storico del movimento autonomista noto come “Lista per Trieste” <64.
Nell’immediato secondo dopoguerra ebbero inoltre un ritorno di fiamma i maggiori nomi della storiografia nazionalista, tra cui Attilio Tamaro <65, che definiva la storia della città in senso esclusivamente italiano, e di quella antifascista, che attraverso le opere di Ernesto Sestan <66 e Carlo Schiffrer <67 riprese e sviluppò i motivi espressi dal teorico austro-marxista Angelo Vivante <68. Si trattava, per tutti i casi citati, e sia pure con sensibilità e accenti diversi, di storiografia che non nascondeva caratteri di militanza, più o meno palese <69.
Protagonista della seconda fase di studi, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, fu l’importante contributo di due storici stranieri, il francese Jean Baptiste Duroselle <70 e il serbo Bogdan C. Novak <71. Entrambi costituirono per lungo tempo un punto di riferimento storiografico sull’argomento grazie alle loro approfondite indagini di storia diplomatica concernenti l’amministrazione anglo-americana e jugoslava nei territori giuliani. A detta di Raoul Pupo, essi rimasero tuttavia ingabbiati dietro lo sguardo interpretativo della «questione delle responsabilità» <72 , vale a dire dell’osservazione incentrata su due unici protagonisti, Italia e Jugoslavia, al fine di attribuire un giudizio alla vicenda diplomatica e reperire il «colpevole» dell’impossibilità di trattative dirette tra i due paesi.
L’irrisolta questione dei confini veniva inoltre addebitata alla subordinazione della politica italiana alle direttive anticomuniste statunitensi.
Dissodato il terreno, negli anni Settanta e Ottanta sono state pubblicate numerose e importanti opere: hanno scritto della questione Elio Apih, Giulio Sapelli, Giampaolo Valdevit, lo stesso Diego De Castro, Massimo de Leonardis, Raoul Pupo <73. La questione giuliana è stata ricollocata in un più ampio contesto interpretativo, spostando lo sguardo sul suo significato quale elemento delle relazioni tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica, nella cornice più generale della guerra fredda. L’interesse ripartì da un approccio ancora politicamente impegnato, ma lontano dal criterio militante che aveva caratterizzato le fasi storiografiche precedenti. Al dibattito contribuirono anche altri studiosi non locali quali John Campbell <74 o Roberto Rabe <75, sia per via della dimensione internazionale del problema quale nodo della politica estera italiana del dopoguerra e tema minore della guerra fredda, sia grazie alla disponibilità di nuove fonti italiane, inglesi e statunitensi, che, una volta incrociate, misero in luce il valore della questione giuliana nelle strategie di politica estera di ciascun protagonista e permisero di rivolgere nuove domande al campo di ricerca.
[NOTE]
62 M. Kacin-Wohinz, J. Pirjevec (a cura di), Storia degli sloveni in Italia 1866-1998, Marsilio, Venezia, 1998; M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera, cit.; R. Pupo, R. Spazzali (a cura di), Foibe, Mondadori, Milano, 2003; R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano, 2005; M. Verginella, Il confine degli altri, cit.; J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino, 2009; E. Ivetic, Un confine nel mediterraneo, cit.; Accati L., Cogoy R. (a cura di), Il perturbante nelle foibe: uno studio di psicopatologia della ricezione storica, QuiEdit, Verona, 2010.
63 Cfr. D. De Castro, Il problema di Trieste, cit.
64 M. Cecovini, L’autogoverno della Venezia Giulia, Progetto di statuto, Zigiotti, Trieste, 1946; Id., Essere e divenire dello Statuto del Territorio libero di Trieste, in «Il Ponte», 1948.
65 A. Tamaro, Storia di Trieste, Alberto Stock, Roma, 1294.
66 E. Sestan, Venezia Giulia. Lineamenti di una storia etnica e culturale, cit.
67 Cfr. C. Schiffrer, Antifascista a Trieste. Scritti editi e inediti 1944-1955, a cura di E. Apih, Del Bianco Editore, Udine, 1966.
68 A. Vivante, Irredentismo adriatico, Libreria della Voce, Firenze, 1912.
69 R. Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale, cit., p. 140 e G. Valdevit, Trieste, cit., p. 160. A questo proposito torna utile anche la pubblicazione dei diari di Paolo Emilio Taviani, ministro della Difesa dal 1953 al 1958, P. E. Taviani, I giorni di Trieste. Diario 1953-1954, Il Mulino, Bologna, 1998. Cito, dal diario del 4 settembre 1953, p. 29: «Trieste per l’Italia è un simbolo. Per due generazioni «Trento e Trieste» sono stati l’equivalente di Patria. Si possono anche dare giudizi negativi di questo stato di fatto: sentimentalismo, eccessivo nazionalismo, sciovinismo, romanticismo… Lo stato di fatto resta».
70 J. B. Duroselle, Le conflit de Trieste 1943-1954, Editions de l’Institut de sociologie de l’Université libre de Bruxelles, Bruxelles, 1966.
71 B. C. Novak, Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano, 1973.
72 R. Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale, cit., p. 145.
73 D. De Castro, La questione di Trieste, cit.; G. Valdevit, La questione di Trieste 1941-1954. Politica internazionale e contesto locale, Franco Angeli, Milano, 1986; E. Apih, Trieste, cit.; R. Pupo, Fra Italia e Jugoslavia – Saggi sulla questione di Trieste (1945-1954), Del Bianco Editore, Udine, 1989; G. Sapelli, Trieste italiana. Mito e destino economico, cit.; M. De Leonardis, La diplomazia atlantica e la soluzione del problema di Trieste (1952-1954), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992.
74 J. Campbell, Successful negotiation: Trieste 1954, Princeton University Press, Princeton N. J., 1976.
75 R. Rabel, Between east and west. Trieste, the United States and the cold war, 1941-1954, Duke University Press, Durham-London, 1988.
Vanessa Maggi, La città italianissima. Usi e immagini di Trieste nel dibattito politico del dopoguerra (1945-1954), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Anno Accademico 2018-2019