Sulla Missione Rye (2)

Il mulino delle Quattroruote dove nell’estate del 1944 venne ospitato Carlo Perucci comandante della Rye – Foto del 1967 di Sergio Spiazzi, op. cit. infra

Della Rye [233] fecero invece parte l’ufficiale Carlo Perucci Eugenio (erroneamente indicato come Ferrucci nei documenti di Nemo) e come “truppa” Bruno Avigo, Riccardo Lo Russo e Gian Paolo Marocco. Di questa missione, che sarebbe partita “dal porto di Brindisi a bordo del sommergibile italiano Nichelio alla fine di novembre del 1943”, ed operò nel veronese, leggiamo quanto scrisse, piuttosto criticamente, il comunista Romano Marchi Miro, comandante della Divisione Avesani: “Pare che fosse stata sbarcata tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1943 alle foci del Po da un sommergibile italiano proveniente dall’Italia liberata. Ne facevano parte il tenente Carlo Perucci, in veste di capo missione, e due suoi collaboratori, inviati al di qua delle linee tedesche dallo stato maggiore dell’esercito italiano con il compito di raccogliere informazioni sui movimenti delle forze tedesche fasciste, e di trasmetterle al comando delle truppe alleate a mezzo delle apparecchiature ricetrasmittenti di cui erano stati dotati. Inoltre la missione Rye aveva l’incarico di fornire dati sugli obiettivi militari da colpire con gli aerei, e di coordinare gli aiuti alle forze partigiane dislocate sulle montagne e nelle valli; e forse di effettuare qualche sabotaggio, frutto più che altro di iniziative personali” [234].
La missione Rye, “dipendente dal SIM”, è criticata da Marchi, che sostiene che i suoi esponenti “hanno spesso agito in funzione disgregante del movimento armato di liberazione” ed addirittura un tale “colonnello Ricca” si era presentato alla Divisione Avesani asserendo di rappresentare la Rye e di avere il compito di “assumere il comando” della Avesani. Non se ne fece nulla e Ricca se ne andò come era venuto. Il colonnello Ricca, già capo di stato maggiore della Divisione Pasubio dal 1939 [235], era rientrato a Verona dopo l’armistizio con documenti falsi ottenuti a Trieste, allo scopo di organizzare delle formazioni armate al cui comando intendeva porre ufficiali reduci dalla Russia; dopo l’arresto dei vertici del CLN locale con i quali era in contatto, fu avvicinato da Perucci ed organizzò il Gruppo bande armate Pasubio con le formazioni Medusa ed Aquila [236]. A fine novembre 1943 quasi tutti i membri della missione Rye furono catturati dai nazisti, come narra uno dei suoi componenti, Luigi Schievano, che si salvò “per puro caso”. Furono arrestati la staffetta di Perucci, Luigi Gottardo, che morì a Mauthausen; i fratelli Corrà, morti nel lager di Flossemburg; il tenente Barbieri che fu deportato a Mauthausen ma riuscì a sopravvivere e Bruno Cappelletti, un insegnante che fungeva da collegamento tra la Rye ed i gruppi partigiani, massacrato di botte ed imprigionato a Venezia, fu “restituito alla vita in condizioni spaventose” [237].
Marocco fu invece portato a Bolzano, dove fu fucilato il 12/9/44 assieme ad altri 22 esponenti della Resistenza, tra i quali Dante Lenci, “ex ufficiale della regia marina impegnato nella missione, di matrice interamente statunitense, OSS, Croft, di carattere informativo, avente lo scopo di collegare la Resistenza toscana con il Regno del Sud” [238].
Ma la Croft era una delle missioni della Nemo e Dante Lenci è indicato come Pleuci Dante assieme al radiotelegrafista Lorenzo Iacopi (o Jacopi) nel più volte citato elenco [239]; i due furono arrestati il 18/3/44 in Versilia e “condotti in Alta Italia”, dove Lenci fu appunto fucilato mentre “Jacopi riuscirà a fuggire e tornare in Versilia” [240].
Giacomozzi parla anche di due membri della missione Rick (o Berardinelli/Rick), il veneziano Cesare Berardinelli ed il bolognese Antonio Baldanello [241] che furono inviati nella zona di Treviso assieme ai componenti della missione Rye, arrestati con Marocco l’1/12/43 e poi internati a Bolzano, dove furono fucilati [242].
Degli arresti di Berardinelli (già direttore dell’aeroporto civile di Venezia), Baldanello, Marocco e di un “sig. Torchio di Varese” parla un rapporto redatto dalla missione Orchard (della quale avrebbe fatto parte Torchio), che riporta le dichiarazioni di un anonimo interprete che prese parte all’interrogatorio di Baldanello. La fonte riferisce che i quattro erano sbarcati a metà dicembre 1943 presso la laguna di Adria “da sommergibili inglesi, inviati dall’IS dell’8^ Armata inglese” ed erano stati subito catturati dal “distaccamento di Torri” (non ne è specificata l’arma di appartenenza), soppresso il 19 dicembre, per cui i prigionieri furono passati quasi subito alle SS, che poi li condussero a Verona nella prigione del Forte San Mattia.
Nel corso degli interrogatori (poi condotti dall’interprete di fiducia delle SS, caporale Widmann) i quattro avrebbero fatto i nomi del maggiore Page e del tenente “Hard o Hart” dell’IS, e del maggiore Marchesi del SIM ed avrebbero riferito in via confidenziale alla fonte di avere fatto parte di una spedizione di undici persone (gli altri erano riusciti a salvarsi) e di avere gettato via il denaro e distrutto una parte dei codici prima di essere catturati, ma i tedeschi avevano preso gli apparecchi radio [243].
Della missione Orchard relaziona (se pure in modo piuttosto confuso) anche Gianfranco Comotti di Bergamo. Giunto sulle coste venete a bordo del sommergibile Nichelio il 30/11/43 assieme ad altri agenti (sembra di capire che si trattasse di due gruppi di due persone ed un gruppo di tre, quindi sette persone in tutto), quattro dei quali rimasero nascosti in un capanno dopo lo sbarco e catturati. Comotti si trasferì a Brescia da dove riprese a comunicare con Brindisi, mettendosi in contatto col tenente colonnello Leonardi. Saputo che i prigionieri erano stati condotti a Verona riuscì a “comunicare indirettamente” con Torchio, che gli domandò un parere sul fatto che i tedeschi gli avevano proposto di collaborare. Comotti gli disse di accettare, ed aggiunge nella relazione che Torchio gli aveva fatto arrivare, tramite un sacerdote che era stato incarcerato con lui, la notizia “che dal suo interrogatorio era sicuro che fossero stati segnalati in partenza da Brindisi”: il che può far pensare sia a delazioni in alto loco, sia ad un progetto di vertice per raggiungere contatti con il nemico [244].
Successivamente Comotti prese contatto con gruppi di Bergamo e con “la stazione del Capitano Di Leone a Milano”; fu arrestato “in seguito alla delazione di una spia” il 28/2/44, ma all’interrogatorio “da parte tedesca” assistette “per fortuna” il maggiore dei Carabinieri del SID Onnis [245], che lo fece mettere a sua disposizione “col pretesto di più dettagliati interrogatori sull’organizzazione del servizio informazioni nell’Italia meridionale”, impedendone così il trasferimento a Verona, dove Comotti rischiava la fucilazione; fu condannato diverso tempo dopo dal Tribunale speciale a sei anni di reclusione “soltanto per avere accettato un incarico informativo” [246].
In “Argo 16” troviamo un marconigramma inviato dal Comando del SIM il 2/5/45 alla missione Rye III “operante nel Veneto”, nel quale si chiedevano informazioni sul colonnello Duca, e la risposta di un altro agente della Nemo, il capitano Giuseppe Annese Ercole, liberato per “insufficienza di prove”, dove si legge che Duca era stato fucilato perché organizzatore “di un vasto movimento clandestino con sede in Roma” [247]. Annese risulta nel più volte citato elenco agente della missione Turf in Veneto assieme a Benedetto Coen. C’è poi una “Relazione del sottotenente Clementi Vitaliano alias Italo per la missione effettuata dal 25/1/44 al 1/5/45” [248], con un elenco di prigionieri detenuti dai nazifascisti a San Leonardo [249]. Si tratta di Cesare Berardinelli, che Clementi asserisce essere stato fucilato assieme al radiotelegrafista Marocco ed “un certo Baldo” poco dopo che lui lasciò il San Leonardo [250].
Nella busta 149 troviamo anche documentazione relativa ad una missione Dick (che non risulta, né risultano i suoi componenti negli elenchi delle missioni della Nemo), attiva nei primi mesi del 1945, i cui membri Rasmo Venturini, Bruno Espedito e Antonio Sabbadini operarono a nord di Verona (sede a Desenzano) per cercare collegamenti con ufficiali nazisti allo scopo di “costituire cellule informative in Austria”. Questa missione ebbe collegamenti con la Rye di Allievo ma non con Professore (non abbiamo identificato i due) [n.d.r.: Professore era Carlo Perucci].
[NOTE]
[233] AUSSME, b. 149, Fascicolo 682.
[234] http://www.usitmedia.com/editoriali/polArticles.cfm?doctype_code=Editor%20Article&doc_id=345 Paola Milli, “Nel lager di Bolzano”.
[235] Nel 1940 fu inviato al confine orientale, nella zona di Fiume e Klana; nel 1941 la Divisione occupò la città di Sebenico in Dalmazia; poi andò sul fronte russo. Dopo il 25/7/43 assunse il comando di un reggimento della Guardia alla frontiera (GAF) a Selz (presso Monfalcone), e dopo l’8 settembre a Trieste ottenne documenti falsi per sfuggire ai tedeschi. Negli anni ’50 Ricca entrò nel PCI ma ne uscì tempo dopo “su posizioni di sinistra” (scheda INSMLI a cura di Andrea Torre, in http://beniculturali.ilc.cnr.it )
[236] L’Aquila era stata organizzata dalla triestina Rita Rosani, con la quale Ricca ebbe una relazione; fu catturata durante un rastrellamento presso Negrar ed uccisa da un sottufficiale repubblichino il 17/9/44.
[237] In www.tarmassia.it.
[238] P. Milli, “Nel lager di Bolzano”, art. cit..
[239] AUSSME, b. 50, n. 46409-46408.
[240] http://www.anpiginolombardiversilia.it/cronologia_res.htm.
[241] Berardinelli però non risulta nei documenti di Nemo.
[242] C. Giacomozzi, “Un eccidio a Bolzano”, art. cit..
[243] AUSSME, b. 149, n. 124608.
[244] Abbiamo già accennato alla possibile “non casualità” di questi arresti.
[245] Anacleto Onnis, (si trova a volte come Omnis), già a capo del controspionaggio della RSI a Bergamo come risulta dal n. 2 (25/8/44) del Bollettino di controspionaggio curato dal servizio informativo di Boeri (F. Fucci, op. cit., p. 296).
[246] AUSSME, b. 149, n. 124612.
[247] Giovanni Duca, il primo capo della Sezione Calderini, che al momento dell’armistizio comandava l’Accademia militare di Modena, fu incaricato dal comando supremo del Regno del Sud di organizzare una resistenza militare; arrestato nel corso di una missione, fu incarcerato a Verona ed ucciso sotto tortura nell’agosto del 1944.
[248] Sottotenente di fanteria dopo l’8/9/43, Clementi risulta avere fatto parte della missione Grain della Nemo. “Militò in provincia di Padova presso il comando della div. Padova. Venne ricoverato a Verona dal gennaio al settembre 1994. Riconosciuto partigiano dall’1/9/44 all’1/5/45”, nel “Dizionario Biografico Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919-1945)”, a cura di A. Albertazzi, L. Arbizzani, N. S. Onofri.
[249] Il Forte San Leonardo di Verona fu usato come luogo di detenzione ed esecuzione dai nazifascisti
[250] “Argo 16”, p. 1.622 e seguenti.

Claudia Cernigoi, Alla ricerca di Nemo. Una spy- story non solo italiana su La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo, supplemento al n. 303, Trieste, 2013

Per ordine del Capo della Provincia [di Lucca] Mario Piazzasi, i Fascisti effettuarono una serie di arresti: di persone legate in vario modo alla Resistenza: l’11 febbraio fu catturato il seravezzino Leone Leoni, il 18 i membri della missione radio Croft, sbarcata nel novembre a Castiglioncello <13, il 23 Ireneo Ulivi a Capriglia <14, il 25 fu la volta dei componenti della cellula di Forte dei Marmi del Fronte della Gioventù.
[NOTE]
13 – Ne faceva parte anche il seravezzino Lorenzo Jacopi, radiotelegrafista della Marina, che, dopo lo sbarco si portò nel suo paese natale per assicurare i collegamenti tra i patrioti locali ed il comando alleato. I membri della missione furono catturati nel febbraio-marzo del 1944 e fucilati. Solo lo Jacopi, tradotto in carcere a Verona, riuscì fortunosamente ad evadere ed a tornare in Versilia, dove riprese la lotta partigiana.
14 – L’Ulivi ha lasciato una testimonianza della sua detenzione nelle carceri fasciste, nel volume “Tortura. 86 legione Fascista Repubblicana Lucca”, Tecnografica, Lucca, 1945.
(a cura di) Giovanni Cipollini e Pino Meneghini, Dalla Versilia a Sarzana. La morte di Gino Lombardi e Piero Consani Comandanti partigiani, Comune di Seravezza (LU) – ANPI “sez.”Gino Lombardi”, Comune di Sarzana – ANPI SARZANA
60° Anniversario della Liberazione 25 aprile 1945 – 25 aprile 2005

Partecipò [Carlo Perucci] alla Resistenza (nomi di battaglia “Professore” all’inizio, poi “Eugenio” e, più raramente, “Mario”) a far tempo dal 26 novembre 1943, data della partenza del sommergibile Nichelio dalla base di Brindisi; nella notte dell’approdo alle foci del Po gli uomini della Missione Militare Rye e delle altre due missioni sbarcate in quell’occasione furono arrestati: alla cattura sfuggirono solo Perucci e il suo aiutante Bruno Avigo, che si erano allontanati. Senza radio né altri collegamenti, la situazione si presentava alquanto difficile. Tuttavia, la missione affidata al veronese era di carattere puramente informativo; egli si occupò d’individuare e segnalare al colonnello che comandava la Resistenza, le bande di patrioti che si erano venute formando in Lessinia, sul Baldo e in alcune zone del Trentino.
In maniera del tutto autonoma – non coordinata, quindi, con i comandi della Resistenza – Perucci diede vita ad un esercito di liberazione nazionale sostenendo che tale attività era diretta dal comando supremo di Brindisi. Inoltre – e anche in questo vi sono state diverse identità di vedute – egli proponeva una linea “attendista” che consisteva nell’organizzare i resistenti “a domicilio”, nell’evitare azioni di guerriglia e nell’attendere il momento dell’insurrezione finale allorquando gli alleati avessero dichiarato giunto il momento. La posizione “attendista”, era la condotta della Missione Rye e della divisione Avesani – guidata da Romano Marchi (v. in Bibliografia) – sostanzialmente diversa dall’altro Comitato di liberazione.
Infatti, i due Cln (Comitati di liberazione nazionale) che erano nati nella provincia di Verona, in linea con quanto si veniva facendo in tutta l’alta Italia, vedevano nella lotta partigiana l’unica arma che permetteva, da un lato, di mostrare al mondo che una parte di italiani si erano schierati attivamente contro il fascismo e, dall’altra, di compiere una serie di azioni che, lungi dall’impensierire il nemico, ne minavano però la sicurezza e contribuivano a sgomberare la strada all’avanzata alleata. L’antinazismo e l’antifascismo di Perucci apparvero sempre molto chiari, mentre sulla sua figura pesò sempre la sua non espressa idea antimonarchica.
La questione si concluse con l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri Ivanoe Bonomi che riuscì a mettere d’accordo quanto si era venuto facendo nel Veronese e quanto avevano concluso i Comitati di liberazione. Si giunse, così, al dicembre 1944-gennaio 1945: ma Perucci non era ancora riuscito a consegnare tutte le informazioni richieste […]
Giancarlo Volpato, Perucci Carlo, Il Condominio News, 26 marzo 2015

Insegnante: A quel che si sa, non furono altrettanto solidali e costruttivi i rapporti della RYE con l’«Avesani». Puoi spiegarcene le ragioni?
Miro: Anche questo capitolo viene trattato abbastanza diffusamente nel mio libro, dove sostengo a chiare lettere che i capi della RYE non sempre hanno operato per il rafforzamento della resistenza veneta, ma anzi spesso in funzione disgregante, cercando di neutralizzare le forze della sinistra, le più combattive (segnatamente quelle comuniste), e di orientare le altre verso forme di lotta non troppo avanzate.
Espressione di un antifascismo moderato e conservatore, la RYE è entrata nella Resistenza con organizzazioni proprie, ma anche con una sua propria visione della lotta resistenziale.
Tutto ciò è facilmente rintracciabile in certi comportamenti che taluni esponenti della RYE sono andati assumendo, a cominciare dallo stesso Perucci, intervenuto a sostegno del già screditato Marozin contro la grave condanna pronunciata nei suoi confronti dal CLN di Vicenza, per arrivare via via alle campagne denigratorie e ai ripetuti tentativi volti a esautorare l’«Avesani» e a parla alle dipendenze dei vari «Fiorello» (1) e Ricca. Anche se, come abbiamo saputo, il col. Ricca si è poi prodigato altrove nella lotta di liberazione, le circostanze citate sono la prova, difficilmente contestabile, di operazioni obiettivamene antiunitarie condotte dalla RYE all’interno della resistenza veronese.
Insegnante: Quale fu il raggio d’azione dell’«Avesani»?
Miro: È andato progressivamente estendendosi fino a comprendere tutta la parte occidentale e nord-occidentale della nostra provincia per un totale di 32 comuni.
Insegnante: E come venne organizzandosi?
Miro: Il distaccamento, divenuto battaglione, era articolato in pattuglie composte al massimo di 11 garibaldini. Il collegamento tra le varie pattuglie, e tra queste e il comando della formazione, veniva assicurato dalle «staffette», prevalentemente donne, scelte tra le nostre partigiane che meglio conoscevano il terreno e l’ambiente: compagne straordinarie per intrepidezza e intelligenza.
La pattuglia era guidata da un comandante militare e da un commissario politico: quest’ultimo, investito di responsabilità militari (affiancava infatti il comandante), doveva anche provvedere alla formazione umana e politica degli uomini, nonché ai rapporti con la popolazione. In pratica, però, soltanto in qualche pattuglia era possibile svolgere attività politica anche solo mediante la lettura e il commento collettivi della stampa del CLN e dei partiti antifascisti. Divenuto il Baldo ben presto insufficiente a contenere il numero dei partigiani in continuo aumento, l’ampliamento della zona operativa ha comportato il problema dell’unificazione delle forze partigiane, già operanti in quel settore della provincia, e il loro inquadramento nell’«Avesani». Mentre si andava promuovendo la costituzione di numerosi CLN locali, a Brenzone, Bardolino, Peschiera, Caprino, ecc., perché, attraverso i partiti politici in essi rappresentati, fosse possibile raggiungere la più vasta partecipazione popolare alla lotta di liberazione, avveniva da parte dell’«Avesani» l’assorbimento dell’«Aquila», formazione partigiana dipendente dalla RYE fino al settembre ’44, e l’assorbimento del gruppo facente capo a «Leandro» e a «Lio», che diventerà il battaglione «Rossetti». Quasi contemporaneamente si provvedeva alla costituzione di un nuovo battaglione, il «Dusi», nella zona del basso lago.
Insomma, durante l’inverno ’44-’45, senza interrompere la lotta, ci siamo dedicati a migliorare il nostro apparato organizzativo creando anche nuove pattuglie mobili, nuove SAP territoriali (Squadre d’Azione Patriottica) e allargando la cerchia dei nostri collaboratori, uomini e donne.
1 Il ten. Orazio Fagotto (v. G. Cappelletti, I cattolici e la resistenza nel Veronese, ed. Taucias Gareida, Giazza-Verona, 1981, p. 119).
Natale Brogi, Un protagonista della Resistenza. Romano Marchi (“Miro”), Intervista a Romano Marchi “Miro”, vice-comandante della divisione «Avesani», realizzata nell’ambito di un progetto didattico della scuola media di Negrar, Centro di Documentazione per la Storia della Valpolicella, 2018

Relativamente alle modalità di composizione dei vari teams (le singole missioni) è illuminante un brano del comandante della missione Rye Perucci, il quale esaminò in prima persona il marconista che avrebbe dovuto far parte della sua missione. Gli venne presentato “Gaetano”, che però Perucci rifiutò perché egli fin dal primo colloquio dichiarò apertamente di non credere più a nessun ideale, specie patriottico, e di accettare la missione solo perché bisognoso di sistemare economicamente la sua famiglia. Quindi il maggiore Marchesi del SIM fornì a Perucci un secondo candidato, Gian Paolo Marocco, del quale Perucci dice che era un fanciullone non troppo cosciente di quello che intraprendeva, ma ben disposto a piegarsi alle esigenze che gli feci presenti, e che si rimetteva a me in tutto e per tutto. Tecnicamente egli appariva sicuro di sé, e mi venne confermato capace.
Questo passo fornisce una rara indicazione relativa al pagamento degli agenti partecipanti alle missioni militari, aspetto importante ma poco presente nelle fonti e che non è possibile né descrivere né quantificare.
Carla Giacomozzi, 23. Un eccidio a Bolzano, Quaderni di Storia Cittadina, Volume 4, Città di Bolzano / Assessorato alla Cultura, alla Convivenza, all’Ambiente e alle Pari Opportunità, Ufficio Servizi Museali e Storico-Artistici, Archivio Storico, 2011

Corrà Flavio – Di Salizzole (Verona); iscritto a Scienze MM. FF. NN. Partigiano informatore
militare del Battaglione “Lupo” (Missione militare R.Y.E.), già S. Tenente.
n. 7 aprile 1917 – m. 1 aprile 1945
Luogo della morte: «Deportato nel campo di concentramento di Flossemburg e ivi deceduto» 296. Una relazione del 5 dicembre 1945 firmata dal Tenente Agostino Barbieri, Comandante del Battaglione “Lupo”, aggiunge: «Il partigiano S.Ten. FLAVIO CORRA’ noto per i suoi sentimenti sempre avversi al passato regime, fu il primo ad aderire nella nostra zona al movimento partigiano. Infatti dopo essere fuggito dai tedeschi l’8 settembre diede il suo valido appoggio per la formazione di un Comitato di Liberazione clandestino e l’organizzazione dei gruppi armati. Ma poiché la natura del terreno non poteva offrire occasione per impegnarsi contro il nemico e necessitava all’organizzazione di un servizio informazioni militari, fu deciso dalle Superiori Autorità di organizzare nel nostro paese un centro di raccolta informazioni militari. Il Tenente Flavio Corrà si mise subito all’opera. […]. Per merito di questa attività le vie di comunicazione erano paralizzate, i mezzi di trasporto [nemici] colpiti, il campo di aviazione compreso nella zona di controllo, sempre sotto la minaccia degli aerei alleati, batterie e contraeree colpite, depositi incendiati e
distrutti. […] Oltre al servizio informazioni venne l’ordine di eseguire atti di sabotaggio. Uomini decisi a tutto dovevano formare la squadra sabotatori. Flavio e il Fratello Gedeone furono volontari. Ma quando si stava per iniziare questa nuova attività, e precisamente la notte del 22 novembre, reparti delle brigata nera e della gendarmeria tedesca operarono il nostro arresto. Dopo 15 giorni di detenzione nelle carceri fasciste e tedesche di Verona, dopo di aver subito percosse e maltrattamenti di ogni genere, fummo inviati a Bolzano e poi nei campi di eliminazione in Germania. I Fratelli Corrà a Flossemburg, dove la fame, le fatiche, le privazioni di ogni genere, le percosse, misero fine alla loro vita […]» 297.
Riconoscimenti militari: nessuno.
Riconoscimenti dell’Università: Laurea h.c. 11 giugno 1947.
296 Università degli Studi di Padova, Celebrazione del XX° anniversario della Resistenza universitaria alla presenza del Presidente della Repubblica (Aula Magna 8 Febbraio 1964), p. 43.
297 Archivio del Novecento dell’Università degli Studi di Padova, Fascicoli personali degli studenti, Facoltà di Scienze matematiche, Fisiche e Naturali, mat. 141/28, «Corrà Flavio».
Giacomo Graziuso, Gioventù e Università italiana tra fascismo e Resistenza: l’attribuzione delle lauree Honoris Causa nell’Archivio del Novecento dell’Università di Padova [1926 – 1956], Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Storia, Corso di Laurea in Scienze Storiche, Anno Accademico 2013/2014

Il mulino e la pila di Formighè dove era stato catturato l’8 dicembre 1944 “Gigione” – Foto del 2005 di Sergio Spiazzi, op. cit. infra

[…] Nella sua relazione il “professore” [Carlo Perucci], mentre parlava di un’altra riunione del 9 settembre 1944, ai Finetti di Tregnago, elencando le persone partecipanti scrive:
“…assisteva anche il patriota Provolo Everardo, che mi ospitava a casa sua nei pressi di S. Martino B.A.”.
Dopo la guerra, il 18 agosto 1945, arrivò dallo Stato Maggiore del Regio Esercito, Ufficio “I” – Gruppo Speciale Missione Militare RYE, una dichiarazione, a firma del capo della missione, il capitano <56 Carlo Perucci, nella quale si metteva in risalto l’importanza della figura del Provolo nella missione segreta.
Per i continui bombardamenti subiti dal paese, la gente credette di individuare nella figura di Everardo la causa di tanto accanimento. Egli infatti con la sua radio riusciva a trasmettere informazioni per conto della Rye agli alleati, indicando obiettivi strategici. Non sappiamo se fosse stato veramente Everardo, sfuggito il 23 ottobre 1944 ad una retata delle Brigate Nere, a trasmettere le coordinate per il bombardamento dello stabilimento Pozzani del 30 gennaio 1945. Il Perucci nella sua relazione ci informa che a Marcellise, agli inizi del 1945, si trovava un marconista “Coen Benedetto (“Leone”), dipendente dalla Missione”, esperto in radio trasmissioni. Quindi era molto probabile che fosse stato “Leone” a trasmettere le coordinate agli alleati e non Everardo Provolo, che si trovava nascosto con la moglie in un casolare ai confini con Lavagno, senza la radio trasmittente, sequestrata dall’U.P.I.. Qualcuno racconta che il casolare fosse Ca’ del Gal.
Qualcuno racconta che le trasmissioni radio continuarono anche dopo la retata del 23 ottobre al mulino delle Quattroruote (che venne rovistato da cima a fondo alla ricerca della radio trasmittente), ma non sappiamo da chi, visto che il Perucci era stato ospite nell’estate del ’44, solo per due mesi, di Everardo Provolo. La gente era convinta che un concittadino avesse comunicato erroneamente agli alleati che il cotonificio Pozzani fabbricasse armi invece che garze mediche, oppure che costui si fosse sbagliato nel trasmettere le coordinate della stazione di Porta Vescovo.
Il 30 gennaio 1945 fu una giornata terribile, le bombe distrussero lo stabilimento Pozzani, provocando 2 morti ed 8 feriti.
Finita la guerra, il comandante della missione militare Rye, Carlo Perucci trasmise questa dichiarazione, antefatto del “…brevetto croce al merito di guerra”, che arrivò nel 1951 <57.
“DICHIARAZIONE
Si dichiara che il Sig. PROVOLO Everardo di Adolfo ha organizzato fin dal maggio 1944 una compagnia di patrioti nel Comune di S. Martino B.A. (Verona), la quale ha partecipato ai combattimenti per la liberazione.
Inoltre egli ha ospitato per oltre due mesi nella propria casa il Capo di questa Missione, fornendogli informatori e staffette di grande valore, e prestandosi personalmente per missioni presso le formazioni partigiane della montagna.
Nella sua casa si sono anche svolte trasmissioni radio clandestine.
Individuato su delazione, il sig. Provolo il 23 ottobre 1944 sfuggì miracolosamente all’arresto quando già gli agenti dell’U.P.I. erano penetrati nella sua casa, che venne saccheggiata.
Dovette così rimanere alla macchia fino ai giorni della liberazione, interrompendo la sua attività industriale.
Per l’essenziale e multiforme contributo dato a questa Missione il sig. Provolo è stato proposto per una ricompensa al V. M. (Valore Militare). –
Lo si ritiene pertanto meritevole di ogni agevolazione che gli permetta di risarcirsi del notevole danno patito, rimasto senza indennizzo.
(RYE) IL CAPO DELLA MISSIONE
(F/to Cap. Carlo Perucci) <58
Questa dichiarazione, trasmessa dal Perucci, confermava che Everardo oltre ad aver ospitato il comandante della missione e messo a disposizione la radio trasmittente, aveva suggerito alcune persone di fiducia per la missione Rye.
Una delle persone che partecipò alla missione Rye, come staffetta, fu Luigi Gottardi “Gigione”, che lavorava alla Pila di Formighè, poco lontano dal molino delle Quattroruote, sul fiume Fibbio, nel territorio di San Martino Buon Albergo (vedi scheda n. 5 dei deportati politici sanmartinesi).
Nell’estate del 1944 “Gigione” divenne una pedina fondamentale per la trattativa tra il comandante Carlo Perucci della missione Rye (che per questo contatto prese il nome in codice “Eugenio”) e il Marozin.
La staffetta “Gigione” insieme a “Mercurio” (prof. Bruno Cappelletti) si adoperò in modo eroico per portare avanti la causa della missione Rye, sia prima (24 agosto ai Cracchi di Bolca) che successivamente (17 settembre in contrada Gaiotte) e al rastrellamento del 12 settembre 1944 (dove cercò di avvisare i patrioti in Lessinia), che segnò la fine dell’avventura veronese del Marozin.
Il 15 settembre “Gigione” presentava ad “Eugenio” una relazione sul rastrellamento, effettuato dalle milizie nazi-fasciste, contro la Divisione Patrioti Pasubio stanziata sui Lessini. Lo scritto, anche se dialettale, ci permette di capire la grave situazione: “Loro stessi mi dicono che assolutamente non si può muoversi dal fatto che due giorni prima il rastrellamento Vero ha licenziato circa mille uomini disarmati e ne a [sic] tenuto 500 dei più vecchi che erano armati, ora questi si trovano in piccoli grupi [sic] lontani anche quattro ore l’uno dall’altro, e di continuo attacati [sic] dai tedeschi. In quanto poi a comitati o missioni, anche avessero a rimettersi la vitta [sic], non è il caso di avvicinarsi per non essere corisposti [sic] nel modo più brutale, perché delle persone che sono fugite [sic] dal rastrellamento e avvicinate alla mia presenza dicono che se non fossimo stati noi a tradirli, da soli si avrebero [sic] bene armati” <59.
Dovette cambiar aria per un po’ anche il Perucci, che se ne andò nel vicentino.
Il Perucci, nella sua relazione, finale sottolineava il momento di crisi della missione Rye con queste frasi: “Dall’ottobre ‘44 al gennaio ’45 si è avuta in tutta l’Alta Italia una serrata azione poliziesca nazifascista per sfruttare la disgregazione delle bande ottenuta con la sistematica azione di rastrellamento iniziata nel settembre. La provincia Veronese, satura quanto altre mai di Brigate nere ritiratesi dalle regioni già liberate, e centro delle SS tedesche, ha offerto larga messe di vittime. Va qui messo in rilievo che l’esistenza della Missione è stata salvata dall’eroico contegno di due collaboratori che hanno dato un contributo veramente essenziale nel campo delle bande, cui si dedicarono con nobilissima passione: il Ten. Bruno Cappelletti (“Mercurio”), Ufficiale di collegamento con la “Pasubio”, e il patriota Luigi Gottardi (“Gigione”), staffetta.”.
Ed è proprio nell’autunno del ’44 che cominciarono le retate a San Martino Buon Albergo e le conseguenti deportazioni nei campi di concentramento e di sterminio, sia per gli antifascisti che per i cattolici e i comunisti.
Il primo ad essere portato via fu, nell’estate del 1944, il sessantaduenne Luigi Manzoni. Fu portato prima a Verona per gli interrogatori, poi al Lager di transito di Bolzano ed infine al campo di sterminio di Flossembürg, dove morì, dopo tremendi soprusi, come milioni di altri innocenti (vedi la scheda n. 6 dei deportati politici sanmartinesi).
Il secondo ad essere catturato, il 10 di ottobre del 1944, fu Gino Dal Bosco con il nome di battaglia “Luigi”, iscritto al PCI clandestino ed al secondo CLN (vedi la scheda n. 2 dei deportati politici sanmartinesi). Gino, per un incidente di lavoro, portava una protesi all’arto inferiore destro.
Vicino all’antica farmacia del dott. Bruno Nicolis, in via XX Settembre, un’automobile si avvicinò a Gino, scesero due uomini vestiti con abiti borghesi, lo trascinarono dentro l’automobile e lo portarono a Verona, al carcere del Teatro Romano e poi nei sotterranei dell’INA per gli interrogatori, sotto tortura. Visto che non riuscivano a ricavare nulla, lo spedirono al Lager di Bolzano. Si racconta che fu un delatore di San Martino a far catturare Gino.
Ma la retata più eclatante avvenne la notte del 13 ottobre 1944. Ricorda una testimone: “…prelevarono (N.d.A.: Alessandro Marchesini scheda n. 7 dei deportati politici sanmartinesi) anche Bruno Gonzato (scheda n. 4) il figlio della maestra (N.d.A.: Alide Milani), Piero Finetto (scheda n. 3), Aldo Zanini (scheda n. 10) un professore di Mambrotta tutti comunisti e un giovane di leva Guido Caburlon (scheda n. 1). Sospettavano che facessero parte di una rete partigiana dotata di una radio trasmittente. Una precisione di obiettivi così accurata ci fece capire che erano stati vittime di un delatore.”<60.
I cinque vennero trasferiti prima a Verona al palazzo dell’INA, dove subirono gli interrogatori, e poi il 21 ottobre 1944, al Durchgangslager di Bolzano 61, probabilmente insieme a Gino Dal Bosco.
Si presume, dalla matricola assegnata al Lager di Bolzano, che avessero fatto il viaggio da Verona a Bolzano insieme. A Marchesini (32 anni) diedero la matricola n. 5267, a Gonzato (18 anni) il n. 5268, a Finetto il n. 5277 e a Zanini (24 anni) il n. 5278. Alla fine riuscirono a tornate a casa tutti e quattro.
Invece Marcello Caburlon (18 anni) e Gino Dal Bosco (30 anni) furono trasferiti a Mauthausen, con un convoglio partito da Bolzano il 20 novembre 1944 insieme a poco meno di 300 persone. A Mauthausen venne assegnata la matricola n. 110214 a Marcello Caburlon e n. 110454 a Gino Dal Bosco. Marcello morì sotto il peso delle pietre della cava e Gino, incredibilmente, riuscì a tornare, addirittura con la sua protesi recuperata, il giorno della liberazione, in un deposito, presso il Lager di Mauthausen.
Insieme a Gino Dal Bosco ed a Marcello Caburlon, venne trasferito da Bolzano a Mauthausen, sullo stesso convoglio del 20 novembre 1944 Zanoni Augusto (scheda n. 11) di Marcellise, di 48 anni. Morì a Gusen 3 giorni prima della fine della guerra.
Il 17 ottobre 1944 venne deportata una ragazza di 21 anni che abitava a Ca’ dell’Aglio “…sotto accusa di aver dato alloggio e del cibo a due soldati francesi prigionieri dei tedeschi trovatisi qui di stanza e peregrinando per varie parti della Germania rimase deportata per tutto ottobre del detto anno, dopo di che il 2 novembre riuscì a ritornare in famiglia accompagnata dal sig. B.A..” <62.
Nello stesso periodo arrivò in comune un biglietto, scritto dall’ufficiale ispettore dell’ufficio politico della G.N.R. di Verona, che avvertiva: “B.M. di S. Martino Buon Albergo Borgo della Vittoria…Tiene una condotta politica decisamente antinazionale. Da licenziare immediatamente.” <63.
Le azioni dei cosiddetti “ribelli”, nell’ottobre del 1944, si fecero sempre più insistenti e dirompenti, tanto che la Prefettura Repubblicana di Verona, spedì ai podestà del veronese due circolari. La prima avvisava della possibilità di chiedere il risarcimento dei danni subiti da azioni “di bande irregolari…nei limiti e con le possibilità stabilite dalle vigenti disposizioni sul risarcimento dei danni di guerra…”, l’altra metteva in allerta i comuni sulla reale possibilità di “Distruzione di registri di popolazione da parte dei ribelli” e quindi ordinava di adottare misure di “…vigilanza notturna delle sedi municipali.” <64.
Le milizie fasciste e naziste organizzarono retate sempre più vicine tra loro e sempre più repressive nei confronti dei gruppi di irregolari, di patrioti e di partigiani, anche perché, sotto tortura, qualcuno cominciò a parlare.
Dopo le retate del 10 e del 13 ottobre, l’Ufficio Politico Investigativo (U.P.I.), aveva individuato, su delazione, il detentore della radio trasmittente (Everardo Provolo) che si collegava clandestinamente con radio Londra per trasmettere informazioni segrete agli alleati.
Il 23 ottobre, gli agenti dell’U.P.I. arrivando alle Quattroruote, penetrarono nel mulino, lo saccheggiarono, ma non trovarono Everardo Provolo che, nel frattempo si era nascosto.
Si racconta che Everardo, messi al sicuro i figli presso la corte delle Quattroruote, rimase nascosto, con la moglie, sotto il ponte, nell’acqua gelida, per tutto il tempo della retata, fino a quando i fascisti non se ne furono andati. Poi i due, accovacciati nell’acqua del fiume, lo percorsero nel senso della corrente per risalire la sponda, probabilmente verso il Maglio, per poi nascondersi non lontano, presso alcuni casolari al confine con il comune di Lavagno, dove rimasero fino alla fine della guerra.
Invece non andò bene a Luigi Gottardi, che prese il nome in codice da partigiano di “Gigione” o “Giggione”. Il Gottardi venne catturato dagli agenti in borghese dell’U.P.I., la mattina dell’8 dicembre 1944, poi venne portato a Verona, dove fu atrocemente torturato. Il Gottardi sotto impensabili torture, anche con scosse elettriche, non parlò, salvando in questo modo Carlo Perucci, il comandante della missione Rye.
Luigi venne trasferito da Verona, prima a Bolzano, poi a Mauthausen, con un convoglio partito il 1° febbraio 1945. Fu l’ultimo a partire da Bolzano, in quanto la linea ferroviaria, che subì numerosi bombardamenti, non fu più in grado di funzionare.
Insieme allo sfortunato Luigi Gottardi, su quell’ultimo treno, partì anche Marino Turri. Originario di Marcellise, Marino venne arrestato a Prunetto (CN), il 17 dicembre 1944, nove giorni dopo “Gigione”. I due si trovarono, senza saperlo, nel Lager di Bolzano e poi in quello di Mauthausen. Luigi aveva la matricola n. 126228 e Marino la matricola n. 126471. Su quel convoglio presero posto oltre 500 deportati.
Marino riuscì a tornare, Luigi no. Il fisico di “Gigione”, che aveva sopportato decine e decine di chilometri di marcia per raggiungere le località impervie della Lessinia, come staffetta della Rye, nelle condizioni disumane del Lager, non riuscì a superare la malattia e la morte. Lasciò la moglie e due giovani creature.
Il gruppo dei resistenti di San Martino, nell’autunno del 1944, venne in gran parte decimato, ma non del tutto, se nei primi mesi del 1945 venne indicato in paese, funzionante, un nuovo CLN, composto da una ventina di persone. Gianfranco De Bosio scrisse sulla missione Rye: “…ma (il) Perucci, con criteri badogliani appunto, diffidava in realtà dei Comitati di Liberazione Nazionale e operava in funzione anticomunista, propugnando un movimento cattolico, detto dei Liberi Lavoratori, ostile alla DC. La missione Rye, quindi favorendo i contrasti all’interno dell’organizzazione clandestina, provocò gravi danni alle attività partigiane nella provincia.” <65. Dello stesso tenore è il pensiero di Miro (Romano Marchi), esponente della divisione partigiana Avesani, che a proposito della Rye scrive: “quelli che contano sono i fatti e questi, purtroppo dicono chiaramente che gli esponenti della RYE hanno spesso agito in funzione disgregante del movimento armato di liberazione…” <66. Il prof. Carlo Perucci, finita la guerra, collaborò con il giornale dei “Liberi Lavoratori” (movimento integralista del popolo italiano) intitolato “Civiltà” dove raccontò in 15 puntate la vicenda della Rye. Negli anni ’50 si trasferì a Roma dove si impegnò nei sindacati della scuola e collaborò alla riforma della scuola media unificata, con la pubblicazione di alcuni testi di didattica. Insegnò come docente di pedagogia anche all’università di Verona. Morì precocemente a 61 anni, il 17 ottobre 1975. A lui è intitolata la Scuola Media Carlo Perucci di Marzana (Vr), nata nel 1978 come scuola diocesana e ospitata presso l’Istituto Sorelle della Sacra Famiglia. […] “Eugenio” <78 era il nome in codice coniato, nell’agosto del 1944, da Carlo Perucci, comandante della missione militare Rye (RYE o R.Y.E.), per tenere i contatti con la “Pasubio” del Marozin “Vero”. Luigi Gottardi, detto “Gigione” era diventato, dal luglio del 1944, uno dei due uomini di scorta del capitano Perucci. Lo stesso Perucci ricordava il Gottardi nella sua “Relazione sull’attività organizzativa svolta dalla Missione Rye”, <79 in questo modo: “Mi provvidi comunque di due uomini di scorta (di cui uno fu l’indimenticabile Luigi Gottardi – “Giggione” – che divenne poi la mia fidatissima staffetta personale, fino al suo arresto ed internamento in Germania”.
[…] Finita la guerra nella sua relazione, il Perucci elogia i suoi due collaboratori “Mercurio” (il Prof. Tenente Bruno Cappelletti) e “Gigione”, che con il loro comportamento eroico avevano salvato la missione: “Va qui messo in rilievo che l’esistenza della Missione è stata salvata dall’eroico contegno di due collaboratori che hanno dato un contributo veramente essenziale nel campo delle bande, cui si dedicarono con nobilissima passione: il Ten. Bruno Cappelletti (“Mercurio”), Ufficiale di collegamento con la “Pasubio”, e il patriota Luigi Gottardi (“Gigione”), staffetta. Ambedue hanno sopportato le più aspre torture, con le quali si tentò di strappar loro l’identità personale di “Eugenio”, che ormai i molti arresti dei partigiani e favoreggiatori e le indagini combinate delle varie polizie avevano individuato come il Capo della Missione e il vertice dell’organizzazione bande veronesi, e perciò ricercato accanitamente. Molti altri patrioti sono stati bastonati a sangue perché rivelassero il mio nome, a loro ignoto; ma Cappelletti e il Gottardi lo conoscevano bene, erano già condannati dalle imputazioni personali che non potevano negare, e tuttavia, anziché accettare le promesse d’indulgenza a proprio vantaggio, e benché spinti a dire il nome da altri compagni di carcere e di torture, seppero tacere, ben conoscendo le gravissime conseguenze che la scoperta della mia identità, notissima nell’ambiente Veronese, avrebbe avuto sul vasto lavoro della Missione, a cui si erano consacrati con tanto entusiasmo. Il Gottardi, l’ottimo “Gigione”, padre quarantenne di due bimbi, industriale provvisto di mezzi si era dal luglio messo a totale disposizione, da quando scortandomi per primo presso il Marozin, aveva capito l’importanza dell’opera risanatrice e disciplinatrice della Missione presso quella importante banda, di cui egli aveva conosciuto i poco lodevoli retroscena.
A tale scopo egli aveva spedito famiglia e bestiame in montagna (N.d.A.: Roverè Veronese), aveva chiuso la sua azienda, e tutto ciò per accettare l’umile gravoso lavoro di staffetta per il quale egli percorse anche 80 Km. al giorno sotto ogni intemperie. Per l’importante contributo dato anche al campo informativo ho proposto questo autentico eroe che non è ancora rientrato dall’internamento in Germania 81, per la medaglia d’argento al V.M. al Gruppo Speciale.”.
[…] 12) Zanoni Augusto di Abramo e Bugnotto Giovanna, nato a Marcellise (Vr) il 6 febbraio 1896.
Operaio specializzato, venne arrestato e deportato prima al Lager Bolzano e poi, il 20 novembre 1944, da Bolzano al Lager di Mauthausen.
L’ultima residenza anagrafica risulta, dai documenti ritrovati, a Verona (ufficio Quinto-San Michele).
Deceduto a Mauthausen – Gusen (Austria) il 22 aprile 1945, quattro giorni prima della fine della guerra.
54 Il 27 aprile 1951 venne trasmesso al partigiano Combattente Provolo Everardo di Adolfo il brevetto croce al merito di guerra.
55 M. ZANGARINI, Storia della resistenza veronese, pag. 157, Verona, 2012. Da altre fonti: il sott.uff. Ernesto Quattrina (nome di battaglia “Colombo”) fondò il gruppo “Valpolicella” che divenne successivamente “Banda Armata Aquila” formata anche da diversi partigiani già alpini. Il comando del gruppo venne assunto nel maggio del ’44 dal col. Umberto Ricca. Nella primavera del 1944 il gruppo passò sotto il controllo della missione Rye. Il col. Ricca era ricercato dai nazi-fascisti insieme alla sua collaboratrice, la maestrina ebrea Rita Rosani. Rita venne uccisa il 17 settembre 1944 in uno scontro a fuoco sul Monte Comun a Negrar, tra i partigiani dell’”Aquila” e i nazi-fascisti.
56 Il Perucci, ufficiale di complemento, iniziò la sua avventura con il grado di tenente ed arrivò, dopo la guerra ad essere promosso capitano.
57 ASCSMBa, Categoria B, Busta 171, CAT VIII.
58 ASCSMBa, Categoria B, Busta 160.
59 M. ZANGARINI, Storia della resistenza veronese, pag. 269, Verona, 20
60 A.SOLATI, op. cit., pag. 63.
61 Il Polizeiliche Durchgangslager di Bolzano, di Via Resia, era un lager di transito. Venne costruito agli inizi del 1944 in sostituzione di quello di Fossoli (Carpi-Modena), oramai non più sicuro per il crollo della “linea Gustav”. Arrivarono, durante il suo funzionamento, ben 11.000 persone: oppositori politici, deportati di guerra e perseguitati dal sistema di terrore hitleriano. I prigionieri erano utilizzati come forza lavoro nelle officine del lager, nei campi esterni ed in quelli satelliti. Da qui passarono numerosi perseguitati che finirono nei KZ (lager di concentramento e di sterminio) di: Mauthausen, Auschwitz, Dachau, Flossembürg e Ravensbrück. A Bolzano i prigionieri venivano schedati e portavano cucito sulla casacca il numero di matricola e un contrassegno triangolare che indicava la categoria. Il triangolo rosso indicava l’internato politico, il triangolo rosa l’internato casuale da rastrellamento, il triangolo azzurro indicava il prigioniero di guerra, il triangolo verde indicava l’ostaggio e il triangolo giallo l’ebreo. In altri Lager il triangolo rosa indicava gli omosessuali e il triangolo verde i delinquenti comuni. Inoltre abbiamo il triangolo nero che indicava gli asociali, il triangolo viola i Testimoni di Geova e il triangolo bruno gli zingari.
62 ASCSMBa, Categoria B, Busta 160, CAT VI.
63 ASCSMBa, Categoria C, Busta 40.
64 ASCSMBa, Categoria B, Busta 158.
78 “Eugenio” era il nome in codice di Carlo Perucci, comandante della missione militare RYE, preso da lui nell’agosto 1944, all’interno della neonata “Divisione Pasubio”, che sostituiva la “Vicenza”, capeggiata da Giuseppe Marozin, con nome di battaglia “Vero”, che si era accordato sulla strategia da attuare con il Perucci. Il prof. Bruno Cappelletti con il nome in codice “Mercurio” faceva da tramite tra il Marozin ed il Perucci, mentre Luigi Gottardi “Gigione” faceva da staffetta. Carlo Perucci si faceva chiamate anche “il professore” o il sig. Zanetti. Vedi il capitolo riguardante la missione Rye.
79 La relazione è riportata da Maurizio Zangarini nel volume: “Storia della Resistenza veronese” al punto 3, pagg. 441-500, dell’”Appendice”.
81 Quando il Perucci scrisse questa relazione (18 luglio 1945), Luigi Gottardi era già morto nel campo di sterminio di Mauthausen – Gusen, 15 giorni prima della fine della guerra. Il Perucci non poteva saperlo in quanto solo nel 1947 la C.R.I. comunicò la sua morte.
Sergio Spiazzi, La missione Rye, i resistenti, i patrioti e i deportati politici, in San Martino Buon Albergo. La Seconda Guerra Mondiale, dall’Impero alla Repubblica, San Martino Buon Albergo, pp. 61-77