Le motivazioni della Resistenza sono pienamente condivise da don Comensoli

Prestine, Frazione di Bienno (BS) – Foto: Luca Giarelli – Fonte: Wikipedia

Carlo Comensoli nasce nel 1894 a Bienno, piccolo centro camuno in cui l’unica risorsa è l’artigianato del ferro, limitato peraltro dalla difficoltà dei trasporti. Il paese dunque è povero per tradizione e così molti abitanti sono costretti a emigrare. Anche il padre di Carlo emigra in Alsazia nel 1899, ma dopo soli tre giorni dall’arrivo rimane vittima di un incidente in miniera. La morte del genitore assume un’importanza determinante nella vita di Carlo, segnandone il carattere, la sensibilità e la stessa vocazione. Questo episodio sarà un forte pungolo una volta diventato sacerdote, come lui stesso ricorda, «perché nella mia opera di apostolato avessi molto interessamento per cercare di fare qualche cosa anche per i poveri, specialmente per quelli che con una pesante valigia partivano, allora con tanta pena e tanto strazio, per recarsi in terra straniera in cerca di pane per le loro famiglie» <184.
Già dall’infanzia si mostra timido e sensibile, amante più della solitudine che della compagnia con una forte inclinazione allo studio. Decide di farsi prete dopo la quinta elementare, grazie anche alle figure determinanti della madre, Caterina, e del curato di Bienno, don Giovanni Mendeni. Entra in seminario nel 1905 e ha come professori dei sacerdoti impegnati nella vita pubblica e sociale come mons. Zammarchi e p. Bevilacqua. Il 29 giugno 1917 è ordinato sacerdote. Trascorre i suoi primi anni di ministero a Prestine, piccolo centro vicino a Bienno, e nel 1920 diventa segretario di un comitato esecutivo di azione cattolica per la Valcamonica, occupandosi dell’assistenza sociale: aiuta i reduci di guerra, collabora nella formazione di cooperative di produzione e lavoro, si occupa dell’educazione degli adulti analfabeti. Nel 1919 si era già reso promotore della costituzione di una sezione del PPI a Prestine. La sua scelta antifascista è già chiara e decisa, come ricorda nel dopoguerra: «Noi – egli scrive – abbiamo visto nel fascismo che sorgeva un nemico peggiore del socialismo, anticlericale, antisociale, che per di più faceva leva sugli elementi più compromessi col codice penale dei nostri paesi. Contro le violenze sentivamo la più viva ripugnanza, e l’olio di ricino che si faceva trangugiare a manganellate era indigesto e schifoso a tutti; ma quello che maggiormente suscitava il nostro ribrezzo era la complicità della polizia, dei Carabinieri, dell’esercito, […] il contegno della Magistratura, che assolveva rei confessi di assassinio colorati di spirito patriottico e distribuiva pene eccessive alla parte contraria» <185.
[…] Dal settembre 1943 inizia la collaborazione col movimento resistenziale: l’esito naturale della sua profonda fedeltà al Vangelo, in continuità con ciò che finora ha vissuto.
La scelta di campo è immediata, come racconta l’allora diciottenne Salva Gelfi: «L’inizio è stato l’8 settembre del ’43 proprio il giorno dell’armistizio, che stavo facendo i fiori alla Madonna, lì all’altare e, siccome ero molto vicina a don Carlo Comensoli, lui è venuto giù – sono arrivate su 10-12 persone, erano prigionieri, in casa e non sapeva dove mandarli – è venuto giù e mi ha detto: “Io avrei una commissione da farti fare, ma non bisogna parlare perché altrimenti ci uccidono: io e te e tutti i nostri…”. E io ho detto: “Cosa c’è da fare?” perché avevo diciotto anni» <187.
Quindi don Comensoli non si limita solo ad aiutare i perseguitati dal regime, ma cerca di creare una rete clandestina di collaboratori.
Lui stesso spiega le ragioni della sua scelta di schieramento, raccontando anche l’iniziale svolgimento degli eventi a Cividate: «Quando è venuto l’8 settembre del ’43 tutti quelli che scappavano dai campi di concentramento, ebrei e altri, discendevano dai monti e, volere o no, passavano di lì. Passavano di lì, e dove dovevano andare? La persona più umana, pensavano, sarà il parroco. Quindi venivano da me a chiedere qualche cosa: l’alloggio, un pane, una guida che potesse loro insegnare la strada che portava in Svizzera. Erano tanti: tutti i giorni per lo meno 20-25-30. C’era per me la questione del cibo per tutte queste persone, ma devo dire che ho tribolato poco. Ho tribolato poco perché il mio popolo si toglieva il pane di bocca per portarlo a me da dare a quella povera gente. Erano buoni i miei parrocchiani. E quando vedevano degli “sbandati” venire alla casa del Parroco attraversando tutto il paese, capivano: “I va dall’arsipret!”, “vanno dal Parroco!”; e nel loro buon senso pensavano: avrà certo bisogno di qualcosa perché a soldi sappiamo come sta e roba da mangiare ce n’è poca. E venivano loro: “Se ghe ocor vergot…”. Come dire: “Se ha bisogno di qualcosa, si ricordi che ci siamo anche noi”. E loro stessi si accorgevano che qualcosa occorreva, e portavano coperte per dar da dormire a quella povera gente. C’era un salone grande nella mia vecchia casa parrocchiale: si mettevano in terra le coperte e lì, in qualche maniera, i fuggiaschi potevano dormire. Stavan lì un giorno, due giorni poi quando il gruppo era sulla trentina di persone si cercava una guida che li portasse in Svizzera. E c’è sempre andata bene; meno una volta che, per colpa di una donna fascista di Edolo, due vennero presi dai tedeschi e di loro non si seppe più nulla. Ma gli altri, si tratta di centinaia, trovarono la via sicura, non per merito mio ma per merito della mia gente. […] Ad un certo punto mi son visto oberato dalla gente che veniva: i più erano nostri soldati che scappavano dalle frontiere e dalle caserme e venivano lì. Dove dovevano andare? “Sior arsipret, cosa dice Lei, dov’è che dobbiamo andare noi? Dov’è che potremmo avere delle armi?”.
Le mamme poi venivano in gran numero perché avevano i figli sui monti che non volevano tornare a fare il soldato; c’era il proclama Graziani che minacciava guai per chi non si presentava, e queste povere mamme erano in angustie. E il Parroco dava quei consigli che credeva più cristiani e più opportuni. Quando eran tanti bisognava mandarli via e il Parroco che non era un cuor di leone, era più un don Abbondio che padre Cristoforo, era lì in fastidio» <188.
All’inizio dunque il motivo che spinge don Carlo a iniziare l’attività resistenziale è principalmente caritativo-assistenziale. A rendere più fattibile il servizio reso agli sbandati concorre la generosità dei suoi parrocchiani. Quando però le persone da aiutare diventano tante, si rende necessaria un’azione maggiormente organizzata, allora don Carlo si rivolge all’Oratorio della Pace che lo mette in contatto col tenente Romolo Ragnoli. Don Carlo ricorda l’incontro: «Lo vedo ancora a metà della mia scala oscura allora. Non mi venne neanche in mente che avevo in tasca la mezza lira da mostrare ma a quanto pare non venne in mente neanche a lui. Ci siamo salutati, siamo andati a tavola, ci siam messi a mangiare e a parlare. Eravamo così ingenui che in mezz’ora avevamo vinto la guerra, smascherato tutti, messo a posto i nostri ribelli! Infine metto la mano in tasca, ne viene fuori un pezzetto di carta (era poi la mezza lira). E Ragnoli mi dice: “L’ho qui anch’io un pezzettino”. E me lo mostra. Così nacque la Resistenza in Valle Camonica» <189.
Don Comensoli è dunque tra i primi organizzatori della Resistenza camuna e assume spontaneamente, quasi fosse una conseguenza degli eventi stessi, un ruolo di riferimento insostituibile per i gruppi di Fiamme Verdi della Val Camonica. Questi, man mano che si costituiscono, iniziano a inviare comunicazioni periodiche e richieste, recapitandole nella canonica di Cividate. Più volte nella stessa si tengono riunioni di comandanti partigiani e vengono accolti, giorno e notte, partigiani in transito o feriti. Dal diario di don Carlo emerge una quantità ingente di contatti tenuti con esponenti delle formazioni partigiane, come il gen. Masini, il prof. Petrini, il prof. Sartori, p. Rinaldini, Olivelli, così la canonica diventa un vero e proprio centro di smistamento delle informazioni inerenti ai luoghi degli aviolanci alleati, alle precauzioni da adottare in vista dei rastrellamenti, alle indicazioni per mettere in salvo feriti, renitenti e ricercati, e ai modi per scoprire sospetti informatori. La rete informativa è costituita dalle staffette, per lo più giovani ragazze reclutate da don Carlo che, come consigliere spirituale delle giovani valligiane, sa bene a chi affidare un compito così delicato e pericoloso.
All’inizio del periodo resistenziale scrive: «Io prendo parte alla riunione, faccio la spola con la gente che viene in casa per tenerla a bada e che è assai incuriosita per lo strano convegno. Si discute come organizzare la Resistenza. Si prospettano difficoltà e possibilità. Domina l’ottimismo» <190.
Don Comensoli non si limita tuttavia a fare da tramite e a facilitare la comunicazione tra le formazioni partigiane ma esprime valutazioni e fornisce suggerimenti. Ad esempio il 10 giugno 1944 annota sul suo diario: «Oggi il prof. ha steso il primo ordine di sabotaggio – formula giusta» <191. Il 19 dello stesso mese: «Questa notte vogliono fare un colpo alla caserma dei Carabinieri di Esine – Lo [riferendosi a Luigi Levi Sandri, vicecomandante e commissario politico della Divisione Tito Speri delle Fiamme Verdi] spingo invece a continuare l’abbattimento dei tralicci della corrente elettrica. Lo dovrebbero fare questa notte, verso le ore 2» <192.
Il 22 luglio compone addirittura un volantino clandestino sull’attentato fallito a Hitler del 20 luglio 1944 in cui cerca di convincere i nemici a passare nelle file partigiane in nome di una fratellanza umana che non fa distinzione tra tedeschi e italiani, ma solo tra tiranni che opprimono e oppressi che cercano di liberarsi.
In data 8 agosto 1944 si legge una nota importante che getta luce sullo stato d’animo del clero locale: «Alla Congreg. Odierna: molti preti, tutti concordi nell’auspicare la disfatta tedesca» <193.
Nonostante don Carlo Comensoli sia molto impegnato nella Resistenza camuna, non bisogna dimenticare che egli non è un comandante bensì un sacerdote, e che quindi deve inserirsi nella ribellione rimanendo fedele al proprio ruolo. Egli «sapeva giocare al moderno gioco politico in tempo di pace, ma forse riteneva che in tempo di guerra una dichiarata a-politicità fosse l’unica possibilità per un prete, e forse per un cattolico, di giustificare il sostegno o la partecipazione diretta o indiretta a un’azione che comportava anche l’uso della violenza, dove una parte – il nemico – andava combattuto anche con le armi. In particolare per un prete, rappresentava sicuramente l’unica possibilità di pensarsi a disposizione di tutti. Una lotta di liberazione senza aggettivi poteva così giustificare ma nello stesso distinguere» <194.
Ha ragione dunque Rolando Anni nell’affermare che il ruolo di don Comensoli, «prima e più che di organizzatore e di informatore, era quello di garante: ciò che veniva fatto, per quanto rischioso fosse (persino la stessa ribellione armata), non solo era necessario ma giusto. Questa attività, che fu più di informazione e sostegno che di organizzazione vera e propria, se non fu molto prudente, venne tuttavia praticata per un lungo periodo con una certa sicurezza» <195.
Questo ruolo per un sacerdote non è semplice da sostenere e, sebbene il suo sostegno alle Fiamme Verdi continui fino alla Liberazione, non mancano i momenti di scoraggiamento e di crisi, annotati tutti nel suo diario. Nel gennaio ’44 la Resistenza bresciana è colpita da numerosi arresti, il 24 gennaio arriva in canonica il prof. Signorini che porta brutte notizie ed «è in dubbio se non conviene lasciar cadere tutto – gli occhi tedeschi e fascisti sono puntati alla Valle […]. Lo consiglio ad avvicinare tutti i capisettore esporre con prudenza la situazione – consigliare per ora un’opera silenziosa di conforto, appoggio, unione di aderenti fidati. Poi l’evoluzione degli avvenimenti e la primavera offriranno molte possibilità» <196.
Anche il mese successivo, alla notizia che non ci saranno lanci da parte degli Alleati, il 22 febbraio don Carlo scrive: «Capisco di essere stato ingenuo – restiamo male tutti e due – si fanno propositi di lasciar cadere tutto» <197.
Il 24 febbraio «con Luigi Minia inizia discorsi che abbassano il morale e portano all’agonia la speranza – però essa è ancora in cuore» <198.
L’inverno rappresenta il periodo più duro per il movimento partigiano, in cui solo i più motivati resistono. Don Comensoli, pur sconfortato, nutre ancora un po’ di speranza che però sembra destinata a morire l’1 marzo 1944, quando arriva una direttiva da Milano: «Cessare tutto – da Londra non verrà più nulla. Faccio capire che è meglio così – la guerra guerreggiata è troppo lontana – qui un aiuto non si avrebbe che sporadico e non si potrebbe resistere a lungo – conviene alimentare l’idea, conservare gruppi modesti, fedeli e silenziosi in attesa di tempi migliori» <199.
In questa annotazione si legge tutto lo scoraggiamento di don Carlo e la tragicità del suo ruolo di prete, che si è dedicato alla ribellione, ha messo a disposizione la sua canonica compromettendosi in maniera importante, ma non sembra essere quello il terreno ideale in cui svolgere il suo ministero. «E se fossimo abbandonati a noi stessi?» <200 si chiede il 9 marzo 1944.
La Resistenza però non muore, non può vivere solo come idea, ma deve avere un risvolto concreto per poter giungere al successo e così si continuano le attività.
In questo contesto è chiaro che una delle questioni più problematiche per un prete è l’impiego e la legittimazione della violenza. Il ruolo di don Comensoli, come anche di tutti gli altri sacerdoti aventi a che fare con i gruppi partigiani, è quello di ridurre il più possibile la violenza, di moralizzare l’azione ribellistica e di far sì che la nobiltà dei fini non venga macchiata dalla brutalità dei mezzi. Propagandare la ribellione non per odio ma per amore e far sì che si concretizzi nell’azione è forse la difficoltà più grande che devono affrontare i sacerdoti. Nonostante la violenza venga legittimata nel Manifesto della Resistenza cattolica, tuttavia essa rimane una faccenda non del tutto risolta, che ogni volta interroga problematicamente i sacerdoti.
Il 3 agosto 1944 don Comensoli annota: «Leggo la corrispondenza d’un capitano condannato – mi fa pietà – io certo non l’avrei condannato, e comprendo ancor di più come è brutta la violenza anche se sembra legittima. La vita appartiene a Dio» <201. Il parroco di Cividate quindi non se la sente di aderire totalmente al giudizio che rende legittima la violenza, ma lascia aperto uno spazio al dubbio. Per don Carlo essa «sembra legittima», oltre non si spinge perché l’unica cosa che sa con certezza, e sembrerebbe contrastare con la pretesa legittimità di emettere una condanna a morte, è che la vita appartiene a Dio e che la violenza è sempre riprovevole.
È un dilemma che però non blocca il suo impegno nella Resistenza, le cui motivazioni sono pienamente condivise da don Comensoli, tanto che non ha dubbi nell’indirizzare i giovani verso le formazioni partigiane. Ad esempio, il 10 agosto 1944 scrive che «nel mio brolo tra i gambi di granoturco vi è un giovane nascosto – viene da Genova a piedi – era con altri 13 appartenenti alla Divisione Monterosa rientrata dalla Germania – della sua batteria ne sono fuggiti 70 – del battaglione Intra 300 sono passati ai ribelli col loro capitano – lo manderò coi ribelli» <202.
Il 6 settembre viene avvisato del fatto che la polizia fascista ha scoperto che il Comando delle Fiamme Verdi si trova nella canonica di Cividate, e così è costretto a fuggire fino al 21 settembre.
Il 2 ottobre don Carlo scrive al vescovo di Brescia, riferendo della situazione drammatica in cui versa la popolazione, soggetta alle violenze nazifasciste, e chiedendo un intervento di mediazione.
Il miglioramento avviene dal momento in cui si intavolano trattative coi tedeschi per delimitare una zona franca. Questi accordi, come illustrato precedentemente, non sono ben visti dai partigiani comunisti.
Intanto è in arrivo un altro inverno e con questo «aumenta sempre di più la crisi spirituale e materiale – si sente di ribelli che si presentano – l’inverno è un grande spauracchio per tutti – […] ci vorrebbe qualcosa che risollevasse il morale» <203.
Invece a metà novembre si consuma uno dei drammi più gravi della Resistenza camuna: l’assassinio del partigiano Raffaele Menici, sul quale scoppia un caso e si scatenano polemiche che durano ancora oggi <204.
Don Carlo Comensoli, sulla base delle notizie ricevute, è assolutamente indignato e il 23 novembre 1944 scrive: «Vengo questa sera a sapere della vile e nefanda azione compiuta da alcune F.V. di Corteno – Hanno illuso il colonn Menici che lo conducevano in Svizzera – verso l’Aprica il colonn che era accompagnato da due ribelli ebbe la strada sbarrata ad arte da un camioncino mentre alle spalle sopragg. una macchina tedesca – da questa si precip. sul colonnello alcuni soldati che lo colpivano con una scarica di mitraglia – il colonn gridò al tradimento si gettò fuori la strada e cadde – un tedesco gli fu sopra e lo freddò.
Si è così consegnato uno dei nostri che ha lottato contro i tedeschi, che fu agli inizi un animatore del nostro movimento – lo si è a tradimento consegnato al nemico, ai carnefici, mentre famiglia e parentela parte morti e parte dispersi per aver servito la causa partigiana.
La notizia mi ha indisposto al massimo.
La bandiera è stata macchiata. Una causa servita da simile gente non può certo essere santa, né trionfare. Ho scritto subito al prof. la mia indignazione che è senza misura – Se non si prendono gli opportuni e giusti provvedimenti – se non si dà una doverosa soddisfazione al pubblico indignato – alla parentela che verrà a sapere – a chi aiuta le F.V. pensando di aiutare i difensori del diritto – io non voglio più avere nulla a che fare.
Intanto questa sera non posso togliermi dalla vista il Colonn che vedo lì seduto in un canto del piccolo sofà che mi parla e mi dice tutta la sua speranza di liberare la valle dall’obbrobrio della violenza fascista.
Vedo e rimpiango – pregherò per lui -.
Alla staffetta che mi ha portato la notizia ho detto che non venga più da me a nome di quel gruppo» <205.
Il giudizio di condanna da parte di don Comensoli è durissimo. Nonostante il suo orientamento, comunemente condiviso dal clero, sia anticomunista, riconosce al tenente colonnello Menici di aver condiviso la lotta contro il nazifascismo, seppur da una posizione politica diversa. Infatti lo spirito che anima le Fiamme Verdi deve essere quello di lasciare da parte le discussioni politiche per concentrarsi sull’obiettivo principale: vincere tedeschi e fascisti. Ma, come si è visto, non sempre questo programma viene seguito da tutti i partigiani e i comandanti e soprattutto i preti a volte faticano a tenere le redini delle formazioni ribelli. Per don Comensoli la questione morale è di primaria importanza, perché la causa della Resistenza, se non portata avanti da persone di un certo tipo, non può trionfare e anzi verrebbe macchiata e perderebbe pure la sua positiva qualifica. Partigiani non buoni rischiano dunque di rendere non buona e di inficiare i princìpi della Resistenza.
Nonostante le minacce di abbandono, l’impegno di don Comensoli però continua.
Il 30 novembre incontra p. Rinaldini e insieme decidono di predisporre un numero speciale de il ribelle e di organizzare la messa natalizia per un buon numero di partigiani in alta quota. L’iniziativa è finalizzata a riaccendere il morale dei ribelli che non si arrendono a dispetto del proclama Alexander, che invita a smobilitare le formazioni partigiane durante l’inverno. Nei giorni precedenti il Natale si preparano dunque pacchi da donare a ogni partigiano sulle montagne, contenenti dolci, un po’ di tabacco, un’immagine religiosa. La notte di Natale, vicino a Lozio, don Comensoli celebra la messa per una quarantina di partigiani. L’isolamento viene così spezzato, anche un semplice opuscolo dimostra ai giovani in montagna che non sono stati dimenticati. Don Carlo si spende per far capire loro che non sono soli. Una domanda serpeggia tra i ribelli: «perché restiamo? E il commissario politico della Divisione FF.VV. “Tito Speri” rispondeva, facendosi portavoce di tutti: “È perché la nostra ribellione conserva il suo significato e prepara il lievito di domani, che noi restiamo. […] È un contributo di valore inestimabile, un’offerta indispensabile alla rinascita della Patria Italiana, al rinnovamento dell’umana società”.
Parole che, nella loro ingenua espressione, andavano al fondo delle coscienze individuali e permettevano di ritrovare, se mai lo si era perso, il senso stesso della scelta della ribellione» <206.
Don Carlo Comensoli non si occupa solo dei partigiani e neanche esclusivamente dei propri parrocchiani di Cividate, ma cerca di allargare sempre di più il raggio delle sue azioni di bene. È tra i collaboratori che danno vita al foglio clandestino Valcamonica Ribelle. Infatti il ribelle, che propone degli articoli profondamente filosofici e politici, viene avvertito come troppo intellettualistico e lontano dalla sensibilità degli abitanti della valle. Inoltre la diffusione è resa sempre più difficile perché il trasporto da Milano diventa troppo rischioso. Così agli inizi del 1945 il Comando di divisione pensa di sostituire il ribelle con un giornale locale. La tipografia improvvisata viene sistemata nella villa “Giustina” che domina il paese di Cividate, una casa lasciata dai proprietari in custodia a don Comensoli. Il 16 febbraio 1945 esce il primo numero in cui vengono illustrati gli scopi del nuovo foglio
[…] Don Comensoli collabora attivamente alla stesura degli articoli, ma nel frattempo lo spionaggio fascista si mette in moto. Nella casa di un sacerdote vengono ritrovate alcune copie del giornale. Messo alle strette, rivela i nomi di don Comensoli e del giovane che gli porta regolarmente le copie. Così quest’ultimo viene arrestato e sotto tortura fa anch’egli il nome di don Comensoli. I fascisti erano già certi che il centro della Resistenza fosse nella canonica di Cividate, ma non avevano le prove. Con questa invece possono procedere all’arresto del sacerdote, il 25 marzo 1945. Anche per don Carlo inizia quindi l’esperienza del dolore e della paura, che però affronta con forza e decisione.
All’inizio viene portato dal maggiore Spadini, comandante della GNR dislocata in Val Camonica, che inizialmente si rapporta gentilmente al sacerdote; poi invece, anche per l’abile difesa di don Carlo, perde la pazienza e inizia a sbraitare. Siccome non riesce a incastrarlo, fa entrare nella stanza un giovane studente, col volto tumefatto, amico di don Carlo, e gli intima di confessare davanti al prete ciò che ha già confessato precedentemente. Allora don Carlo salta in piedi e si mette a gridare che non avrebbe accettato una confessione estorta sotto tortura. Il prete si infervora e viene ricomposto con un pugno assestatogli da un sergente, ma dopo un attimo si riprende e si mette a urlare ancora più forte contro Spadini, lamentando il trattamento a cui l’hanno sottoposto, lui che è un prete.
Don Comensoli è molto abile e ammette solo ciò che non può più essere verosimilmente negato.
è…] Anche don Comensoli non vuole diventare un martire, ma cerca in tutti i modi di salvare la sua posizione per salvare pure quella di tante altre persone. Preferisce quindi attenersi al versetto evangelico che recita: «Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» <209. Quindi nega il coinvolgimento nella diffusione di Valcamonica Ribelle e nell’organizzazione delle Fiamme Verdi. In un secondo momento, posto davanti a nuove accuse, ammette solo quanto gli è impossibile negare e cerca di non coinvolgere nessuno: «Dopo l’otto settembre 1943 nel marasma politico e morale che sembrava sommergere tutto, di fronte al pericolo di uno sbandamento completo della gioventù che minacciava di diventare vittima dei comunisti che si affrettavano a formare organizzazioni partigiane, manifestai una certa compiacenza per il movimento delle Fiamme Verdi il cui spirito mi sembrava più vicino all’idea di Patria e di Dio. […] La mia simpatia a favore delle Fiamme Verdi non è mai trascesa sul campo organizzativo e di assistenza materiale e neppure di propaganda personale, tanto che la mia parrocchia, fra tutte le circonvicine, è quella che ne conta di meno» <210.
Ma non tutti hanno la stessa forza e la stessa generosità di don Comensoli, come lui stesso constata. In un biglietto inviato dal carcere alla sorella scrive: «Quello che mi amareggia di più è il veder come altri, per salvare se stesso, abbia calpestato ogni dovere di amicizia. Stai certa però che tuo fratello non farà così e a costo di sacrificarsi non sarà di danno ad alcuno; fallo sapere a chi può averne interesse. […] Questa prova per me ci voleva perché incominciavo a essere un po’ tiepido nella pietà, a essere un po’ distratto; invece, solo nella stanza e in silenzio, mi diletto a parlare col Signore e ne ricavo grande gioia» <211.
[…] La sera del 25 aprile don Comensoli viene liberato e quando torna a Cividate viene nominato sindaco ad interim per acclamazione popolare.
Si conclude così l’impegno resistenziale di don Comensoli che qualche anno dopo, con eccessiva umiltà, dirà di aver fatto ben poco per la Resistenza perché «non avevo neanche in mente di fare la Resistenza, non avevo in mente di organizzare niente; me ne mancava anche la capacità: non sono un militare, un Annibale o un Giulio Cesare. Questo fu il compito di Ragnoli, il vero artefice della Resistenza in Valle Camonica» <214. Ma è lo stesso Ragnoli ad ammettere che senza il contributo di don Comensoli, soprattutto nella creazione della rete informativa, la Resistenza delle Fiamme Verdi non avrebbe potuto reggere in Val Camonica […]
[NOTE]
184 Marilena Dorini, Don Carlo Comensoli: profilo biografico, in A.a.V.v., Brescia cattolica contro il fascismo, a cura di Franco Molinari e Marilena Dorini, cit., p.164.
185 Ivi, p. 166.
187 Maurilio Lovatti, Testimoni di libertà, cit., p. 136.
188 Testimonianza di don Carlo Comensoli in Il contributo del clero bresciano all’antifascismo e alla Resistenza, cit., pp. 101-102.
189 Ivi, p.103.
190 Franco Molinari, Riccardo Conti, Don Comensoli e la Resistenza, in Brescia cattolica contro il fascismo, cit., p.173.
191 Rolando Anni, Inge Botteri (a cura di), Il diario originale e inedito di Carlo Comensoli (18 ottobre 1943 – 24 marzo 1945), Annali – Anno III, 2007, Università Cattolica del Sacro Cuore, Archivio Storico della Resistenza bresciana e dell’età contemporanea, Brescia 2007, p. 86.
192 Ivi, p. 89.
193 Ivi, p. 99.
194 Ivi, p. 53.
195 Rolando Anni, I cattolici e la resistenza in Valle Camonica: il ruolo di don Carlo Comensoli, in Atti del convegno in ricordo di don Carlo Comensoli, Cividate 20 settembre 1997, Quaderni della Fondazione Comunitas, Breno 1998, p. 75.
196 Rolando Anni, Inge Botteri (a cura di), Il diario originale e inedito di Carlo Comensoli, cit., p. 64.
197 Ivi, p. 68.
198 Ibidem.
199 Ivi, p. 69.
200 Ivi, p. 70.
201 Ivi, p.98.
202 Ivi, p. 99.
203 Ivi, p. 111.
204 Raffaele Menici (Temù 13/12/1893 – Aprica 17/11/1944) partecipa alla Prima guerra Mondiale come ufficiale degli Alpini. Dopo la guerra lavora in banca fino al 1940, quando viene mobilitato e inviato sul fronte greco-albanese. Fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre ’43, riesce a fuggire e a ritornare a casa. Partecipa ai primi incontri nella canonica di Cividate per la costituzione di formazioni delle Fiamme Verdi in Val Camonica. In un primo momento accetta di diventare comandante di questo gruppo, ma poi si allontana per motivi ideologici e aderisce alle formazioni garibaldine. Durante le trattative per definire le zone franche tra tedeschi e Fiamme Verdi, osteggiate dai garibaldini, viene fatto prigioniero dalle Fiamme Verdi, giudicato traditore e condannato alla pena di morte, poi commutata in esilio in Svizzera. Durante il trasferimento però, sulla strada per Aprica, viene ucciso dai tedeschi. Sui fatti che precedono il suo arresto, il processo e soprattutto la sua uccisione si rimanda a Mimmo Franzinelli, Un dramma partigiano, in Studi bresciani. Quaderni della Fondazione Micheletti, n. 8, Fondazione Micheletti, Brescia 1995.
Mimmo Franzinelli, Un complotto per eliminarlo. Ecco le prove, lettera a Bresciaoggi, 9/9/1995.
Ermes Gatti, Difendo le Fiamme Verdi, ed. Toroselle, Pian Camuno 2002.
Rolando Anni, Dizionario della Resistenza bresciana, vol. A-M, pp. 239-241.
205 Rolando Anni, Inge Botteri (a cura di), Il diario originale e inedito di Carlo Comensoli, cit., pp.113-114.
206 Rolando Anni, I cattolici e la resistenza in Valle Camonica: il ruolo di don Carlo Comensoli, cit, pp. 78-79.
209 Mt 10,16.
210 Rolando Anni, I cattolici e la resistenza in Valle Camonica: il ruolo di don Carlo Comensoli, cit., p. 82.
211 Rolando Anni, I cattolici e la resistenza in Valle Camonica: il ruolo di don Carlo Comensoli, cit., p. 83.
214 Testimonianza di don Carlo Comensoli in Il contributo del clero bresciano all’antifascismo e alla Resistenza, cit., p.103.
Filippo Danieli, Fedeli e ribelli. Paradigmi di Resistenza cristiana al nazifascismo, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trento, Anno Accademico 2018/2019