Carabinieri nella Resistenza

Carabinieri deportati in attesa di trasferimento in treno al lager – Fonte: arteculturaoggi.com cit. infra

Descrizione
Nel periodo dell’occupazione nazista della città di Roma, che durò nove mesi dal settembre 1943 al 4 giugno 1944, due furono le deportazioni massicce di uomini: la prima di duemilacinquecento carabinieri avvenuta il 7 ottobre, la seconda di mille e ventitré cittadini romani di religione ebraica, avvenuta il 16 dello stesso mese. È innegabile il collegamento tra le due deportazioni, documentato dai telex intercorsi tra il col. Herbert Kappler delle SS e i suoi superiori a Berlino Himmler e Kaltenbrünner. Ma a firmare l’ordine per i carabinieri fu un ministro della Repubblica sociale italiana, il Maresciallo Rodolfo Graziani. A lungo questa deportazione è rimasta nell’oblio, un oblio sorprendente e ingiustificato, ma grazie alla ricerca storica e all’accesso a documenti non più secretati di archivi militari, italiani, tedeschi e alleati, da qualche anno, anche questa data, oltre quella del rastrellamento degli ebrei, è entrata nella memoria della città e in quella della nazione. Oggi, a più di settant’anni dalla Liberazione, una vicenda come quella dei carabinieri catturati a Roma e poi internati nei campi di concentramento nazisti può collocarsi, anch’essa a pieno titolo, come capitolo della storia della Resistenza italiana. Inoltre la parte più inedita della presente ricerca, che si segnala all’attenzione non solo dei lettori comuni, ma anche a quella dei lettori specialisti di storia contemporanea, riguarda la ricostruzione, passo dopo passo, del rapporto persecutorio che l’Arma dei CC. RR. subì da parte della RSI sia sul territorio nazionale – culminata in una successiva e definitiva deportazione nell’agosto 1944 -, sia nei Lager nazisti, dove i carabinieri entrarono a far parte della massa degli IMI. Prefazione Antonio Parisella. Postfazione Giancarlo Barbonetti.
Redazione, In uscita dal 29 aprile 2021. Anna Maria Casavola, Carabinieri tra Resistenza e deportazioni. 7 ottobre 1943 – 4 agosto 1944, Fnism

Non solo Salvo D’Acquisto. Seimila carabinieri furono deportati nei lager nazisti e 2700 morirono dopo l’otto settembre 1943 per opporsi al nazifascismo e aiutare ex prigionieri alleati, renitenti alla leva, ebrei. Sono le vicende di cui parla il libro “Carabinieri per la libertà. L’Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata” (Mondadori, pp. 168), del giornalista del Corriere della Sera Andrea Galli.
I carabinieri furono protagonisti delle quattro giornate di Napoli in occasione delle quali perfino i colleghi già pensionati si rimisero l’uniforme.
Per la difesa di Roma dopo l’armistizio si mobilitarono anche gli allievi della Scuola dei Carabinieri, comandati dal capitano Orlando De Tommaso, che morì combattendo alla Magliana il 9 settembre 1943.
Ancora nella Capitale, la rete clandestina del generale Filippo Caruso, collegata al Fronte Militare guidato dal colonnello Giuseppe Montezemolo, riuscì a condurre un’opera di resistenza e sabotaggio che si snodò in tutta l’Italia centrale.
Tra i più coraggiosi, c’erano il tenente colonnello Giovanni Frignani e il capitano Raffaele Aversa, protagonisti il 25 luglio dell’arresto di Mussolini, e poi arrestati e uccisi alle Fosse Ardeatine.
Tra le Marche e l’Abruzzo, il capitano Ettore Bianco e il tenente Carlo Canger organizzarono bande armate reclutando volontari di ogni estrazione.
A Milano era attiva la “banda Gerolamo”, dal nome di battaglia del maggiore Ettore Giovannini.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Uomini come il carabiniere Martino Giovanni Manzo, che il 12 settembre 1943 a Napoli resisté fino all’ultimo proiettile e rimasto inerme, catturato, fu poi ucciso con ben tredici commilitoni a Teverola. Di lui Galli scrive, citando i ricordi di una nipote: «Prima di entrare nell’Arma era stato contadino. Aveva un unico codice di comportamento: lavorare duro perché altrimenti sarebbe morto di fame. L’impegno che mise nei campi fu lo stesso con cui indossò la divisa da carabiniere. Non voleva cambiare il mondo, soltanto fare il proprio dovere».
Mario Avagliano, Carabinieri per la libertà, Moked, 13 dicembre 2016

L’8 settembre, in un momento di grossa confusione politico-militare e di lì a poco anche sociale, il comandante generale dell’Arma, Angelo Cerica, diramò l’ordine ai Carabinieri di rimanere ai propri posti, come anche sancito dalle Convenzioni internazionali che disponevano in ogni caso la tutela della sicurezza dei cittadini e dell’ordine pubblico; ma tale ordine al nord comportò che molti militi venissero poi forzatamente inglobati nella Guardia Nazionale Repubblicana di Salò; il loro atteggiamento, pur formalmente corretto e disciplinato, si concretizzò in una forma di resistenza passiva, oggetto di critiche da parte della struttura fascista per la chiara tolleranza verso i delitti
politici e la voluta scarsa efficienza nella ricerca dei renitenti alla leva delle Forze armate di Salò e dei lavoratori per l’organizzazione Todt. Mentre nell’Italia liberata l’Arma si riorganizzava con un proprio Comando Generale per servire l’Autorità legittima, nei territori occupati dal nazista l’Istituzione viveva uno dei suoi periodi peggiori, nello sforzo di attuare un compromesso tra il dovere di proteggere quelle popolazioni e la netta intenzione di non servire un invasore che dietro il paravento di voler salvaguardare una Repubblica che non godeva di appoggio popolare, infliggeva alla gente tormenti gravi e nel contempo inutili. Di quel periodo si può evidenziare un episodio indicativo del travaglio e, nello stesso tempo, della lucida determinazione dei militari dell’Arma: il 13 gennaio 1944, in Genova, un ufficiale tedesco rimase ucciso in uno scontro con i partigiani; un Tribunale speciale giudicò sommariamente otto persone già detenute per motivi politici e le condannò a morte. Al fine di legittimare un provvedimento altrimenti indicativo della ferocia e della capacità criminale dell’occupante, si decise che la fucilazione sarebbe stata eseguita dai carabinieri. Nella notte il comando germanico fece pervenire al tenente Avezzano Comes l’ordine di trovarsi al forte S. Martino per “un urgente servizio di ordine pubblico”. Invece, appena giunto sul posto, gli venne ingiunto di procedere, con i suoi carabinieri, alla fucilazione degli otto patrioti.
Senza esitazione, l’ufficiale oppose un netto rifiuto e fu immediatamente arrestato.
I suoi carabinieri, nel contempo, alzarono le canne dei fucili al cielo rifiutandosi di commettere un tale crimine; l’esecuzione ebbe comunque luogo, ma ad opera di elementi del regime.
Esemplare la deportazione in Germania di tutti i 3.000 carabinieri in servizio nella capitale, nella notte tra il 6 ed il 7 ottobre 1943, per ordine di Graziani e, successivamente, di altre migliaia di militari rimasti al loro posto nel nord del Paese, quando gli stessi si appalesarono inaffidabili per nazisti e fascisti.
Volutamente si tralascia di considerare la tragedia che vissero i carabinieri colti dall’armistizio nella penisola balcanica che, unitamente ai colleghi delle altre armi, subirono eccidi, violenze, rappresaglie sia da parte dei tedeschi, sia da parte delle organizzazioni partigiane locali, e solo tanti eroismi individuali illuminarono giornate così drammatiche.
Ten. Col. Giancarlo Barbonetti (Capo Ufficio Storico Arma dei Carabinieri), L’evoluzione dell’Arma nei primi decenni della Repubblica in Le Forze Armate e la nazione italiana, Atti del Convegno di Studi tenuto a Bologna nei giorni 27-28 ottobre 2004, Commissione Italiana di Storia Militare, 2005

La vicenda che riguarda i carabinieri romani ha inizio il 6 ottobre 1943, giorno in cui viene emesso l’ordine di disarmo dei carabinieri, ordine firmato da Rodolfo Graziani.
Nello stesso si invitava che tutti i carabinieri reali fossero disarmati; i militari dell’Arma avrebbero dovuto restare disarmati nei rispettivi posti, infine gli ufficiali avrebbero dovuto restare nei rispettivi alloggiamenti. Per quest’ultimi in caso di disobbedienza sono minacciati l’esecuzione sommaria e l’arresto delle rispettive famiglie. L’ordine di esecuzione a tutti i comandi CC è del generale Delfini. Questi, per l’esecuzione rigorosa di quanto stabilito, si richiama al senso di responsabilità e di dignità militare degli ufficiali tutti. La consegna ai tedeschi fu preceduta dalla spoliazione delle armi, che per un militare è la cosa più disonorevole, e per mano dei loro stessi ufficiali e dei militi della PAI (Polizia Africa Italiana), cioè di altri italiani, oltre che dei paracadutisti tedeschi e delle Camicie Nere dei battaglioni Mussolini, che circondarono gli edifici delle caserme. Un vero e proprio tradimento, e così fu percepito dalle vittime, anche se occorre dire che il generale Delfini, in assenza del comandante generale, si era trovato per caso a svolgere quella funzione e ad affrontare quella imprevedibile situazione. <3
La tragedia che colpisce l’arma dei Carabinieri romani ha inizio il 7 ottobre 1943 cioè il giorno successivo all’ordine precedentemente ricordato. La tragedia dei carabinieri romani è la tragedia degli IMI (Internati Militari Italiani), degli ebrei, dei deportati politici, dei cittadini comuni che in un batter d’occhio si trovano coinvolti nell’infernale sistema concentrazionario nazista. Così il maresciallo Sabatini racconta la cattura e il successivo viaggio verso la Germania:
«[…] Alla Legione Allievi in via Legnano, dove sono portati tutti i militi catturati ad eccezione di alcuni rilasciati per motivi rimasti sconosciuti, vengono chiusi nel maneggio coperto. In questo maneggio, non manca di annotare il maresciallo Sabatini, c’è un enorme formicolio di uomini vocianti e pigiati, vestiti delle più svariate combinazioni delle numerose tenute dei carabinieri e c’erano anche molti militari in abito civile. Verso mezzogiorno i marescialli sono chiamati fuori per consumare il rancio. Prima del rancio il capitano Carlo Teseo viene liberato, ha la comunicazione delle SS in discreta lingua italiana. Meraviglia da parte di tutti e grida di “vigliacco” da parte di qualcuno. Consumato il pasto, i marescialli e gli altri sottoufficiali vengono rinchiusi nei locali del cinema della legione, verso le 22 e 30 caricati su autocarri tedeschi, scortati da motociclisti, sono trasportati alla stazione ferroviaria di Roma Ostiense o Roma Trastevere, dove vengono fatti salire su vagoni merci in cui erano state stese tre balle di paglia. Non tutti riescono a salire agevolmente e quelli che si trovano in difficoltà – la maggioranza dei marescialli perché in età avanzata – sono brutalmente spinti dai tedeschi di scorta che emettono urla incomprensibili. A carico avvenuto gli sportelli vengono chiusi e sprangati all’esterno sotto la vigilanza delle sentinelle tedesche. Gli ufficiali subiscono lo stesso trattamento, chiusi nel circolo sottoufficiali e dopo aver consumato la loro razione non diversa da quella dei sottoufficiali, si accalcano insieme ai carabinieri e agli allievi e lavano, forse per la prima volta con le loro mani, la propria gavetta alla fontanella. Agli ufficiali vengono distribuiti uno zaino e un succinto corredo, poi seguono la sorte comune […]». <4
Il viaggio dei carabinieri romani è il viaggio degli ebrei del ghetto di Roma, di quelli toscani e non. È il viaggio dei deportati politici, dei partigiani, di tanti cittadini comuni destinati al sistema concentrazionario nazista.
È il viaggio della disperazione verso la tragedia, è il viaggio in cui si manifestano quegli elementi che conducono e condurranno alla spersonalizzazione di ogni singolo individuo destinato alla crudeltà dei campi di concentramento e di sterminio.
3 A.M. Casavola, 7 ottobre 1943. La deportazione dei Carabinieri romani nei Lager nazisti, Roma, Studium, 2008, p. 11.
4 Ibidem, pp. 33-34.
Filippo Mazzoni, 7 Ottobre 1943: la deportazione dei carabinieri romani, Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Pistoia

Tra le disposizioni che il Comando Tedesco impone alla Legione Territoriale Carabinieri di Roma, immediatamente dopo l’armistizio, vi fu quello che determinò la sua subordinazione al comando delle forze di polizia della CAR (Città Aperta di Roma), affidato al generale di divisione Maraffa, comandante generale della Polizia dell’Africa Italiana.
L’Arma dei Carabinieri perse così, nella Capitale, ogni sua prerogativa, assumendo un ruolo del tutto subordinato e di natura puramente esecutiva, in questo modo la P.A.I. diventò l’effettivo organo di polizia preminente della Città. Nonostante che, in un primo tempo, i vari reparti della Legione non fossero disciolti, quelli maggiormente legati per servizio alla figura del Re cambiarono nome e mansioni. Dal settembre al 6 ottobre 1943, i Carabinieri svolsero la loro normale attività, cercando di limitare i soprusi dei tedeschi, che spadroneggiavano in città ai danni della popolazione.
Gli ufficiali rimasti in carica, sospettando che la loro progressiva marginalizzazione fosse la premessa per ben più tristi scenari e subodorando il potenziale pericolo, cercarono comunque di evitare i rastrellamenti di operai e giovani da parte dei tedeschi e della Polizia Africa Italiana.
Fino alla seconda metà di settembre, i militari dell’Arma, svolgendo ancora il compito di controllo del territorio, eseguirono un accurato accertamento dell’entità dei reparti tedeschi dislocati a Roma, segnalando ogni loro movimento al generale Maraffa, allo scopo di inviare più informazioni possibili agli Alleati, nella speranza di un eventuale avio sbarco di paracadutisti.
Il generale Maraffa venne arrestato e deportato dai tedeschi, i quali lo sostituirono con il generale di brigata Presti. Quest’ultimo, al fine di evitare di condividere la sorte del suo predecessore, si mostrò sempre più arrendevole verso i tedeschi, i quali riuscirono così a coinvolgere le forze di polizia in una sempre maggiore attività di collaborazione.
Dalla fine di settembre a ottobre, furono molte le diserzioni da parte dei militari dell’Arma, che, non volendo essere uno strumento repressivo contro i romani, abbandonarono i propri reparti, portando con sé le armi.
I tedeschi capirono quanto stava accadendo tra le fila dell’Arma solo dopo aver constatato che pochissimi carabinieri si presentavano a svolgere il servizio richiesto presso i loro locali comandi militari. Storicamente destinati a un controllo capillare del territorio, i carabinieri vennero visti, fin da subito come una potenziale risorsa, ma a seguito del loro atteggiamento di ostilità verso i nazifascisti ed essendo da sempre fedeli alla casa reale italiana,
furono percepiti come un problema per la gestione militare cittadina. Per i fascisti, motivo supplementare di odio verso l’ex Arma reale era che venisse vista come la carceriera del Duce al Gran Sasso <49 e ritenuta responsabile dell’omicidio del colonnello Ettore Muti, gerarca ed ex legionario di Fiume, morto durante l’irruzione nella sua villa di Fregene <50.
È possibile ipotizzare che questi furono fra i motivi principali che portarono al famoso ordine di Graziani <51, eseguito dal generale Casimiro Delfini, il 6 ottobre 1943, finalizzato al provvedimento di disarmo e consequenziale “trasferimento al Nord per i militari” <52.
In buona sostanza, il 7 ottobre 1943, tutti i carabinieri avrebbero dovuto rimanere consegnati nelle rispettive caserme o stazioni della Città Aperta, ad aspettare di essere disarmati e successivamente inviati alle caserme centrali, sotto il controllo della 2. Fallschirmjäger–Division, impiegata nella Capitale anche in operazioni di polizia <53.
Dopo che oltre 2500 Carabinieri vennero deportati nei campi di prigionia in Germania, molte delle caserme dipendenti furono occupate dalla PAI, alcune di queste furono saccheggiate dai tedeschi e dai fascisti, i quali asportarono
senza controlli di sorta e a loro piacimento tutto ciò che ritennero per loro utile.
Fu il caso della stazione di Centocelle, comandata dal maresciallo maggiore Antonio Azzaretto e di quella di Torpignattara, comandata dal maresciallo maggiore Salvatore Forte, della quale venne pure incendiato il carteggio d’ufficio e che, fino alla liberazione di Roma, fu occupata da sfollati <54.
Tra i molti carabinieri che non caddero nel tranello del 7 ottobre, ci furono quelli della Compagnia Esterna 2ª, fra i quali erano compresi i militari della tenenza Appia, che aveva, tra le stazioni di sua competenza, quelle di Cinecittà, Quadraro, Torpignattara e Centocelle <55.
Nelle relazioni che i marescialli redassero al termine del conflitto, emerge con dovuta perizia l’atteggiamento tenuto durante i nove mesi di occupazione e le modalità con cui i carabinieri entrarono a far parte dell’organizzazione clandestina dell’Arma <56. Nonostante che la maggior parte delle stazioni urbane e periferiche venissero chiuse e in parte affidate alla PAI, la quale concorse ai servizi di polizia e di ordine pubblico coi commissariati di PS, dopo la creazione della Repubblica Sociale Italiana, alcuni comandi in periferia furono ricostituiti e affidati ai carabinieri che scelsero di aderirvi attraverso la Guardia Nazionale Repubblicana. Il caso delle destinazioni d’uso delle caserme del Quadraro e di Centocelle ebbe un’importanza notevole durante i nove mesi d’occupazione nazifascista, poiché, mentre la prima venne occupata nell’ottobre 1943 da un comando della PAI, la seconda fu ricostituita nel mese di dicembre, assumendo la denominazione di presidio della GNR <57.
Il tenente Romeo Rodriguez Pereira, uno dei martiri delle Fosse Ardeatine, comandante della tenenza Appia venne deportato, come molti altri, il 7 ottobre, ma riuscì a scappare e tornare a Roma. Nella Capitale, costituì una banda, alla quale fecero capo proprio i carabinieri delle disciolte stazioni di Cinecittà, del Quadraro, di Torpignattara e di Centocelle. Tali squadre rientrarono nel Fronte Clandestino di Resistenza dei Carabinieri, formazione meglio nota come
Banda Caruso, dal nome dal generale Filippo Caruso. L’organizzazione clandestina dei Carabinieri si articolava principalmente in due formazioni: il raggruppamento territoriale, che organizzava e svolgeva attività informativa sui movimenti dei nemici; il raggruppamento mobile, costituito da piccole squadre con il compito di eseguire azioni di disturbo o di guerriglia <58.
In seguito all’arresto del tenente Pereira, avvenuto il 10 dicembre 1943, i marescialli delle stazioni passarono sotto il comando del tenente Mario Castellani, che gestì ben 9 squadre, fra le quali vanno menzionate: la 1ª, operante a Centocelle, del maresciallo maggiore Antonio Azzaretto; la 3ª, attiva a Cinecittà, del maresciallo maggiore Vito Di Leo; la 5ª, dislocata a Torpignattara, del maresciallo maggiore Salvatore Forte; la 6ª, con base al Quadraro, del maresciallo maggiore Sebastiano Floridia <59. Come se non bastasse, i vecchi marescialli delle stazioni non solo conoscevano bene il territorio, nel quale avevano lavorato per molti anni, ma anche tutti i fascisti e i reali sentimenti della maggioranza della popolazione locale, sapendo, così, di chi potersi fidare e da chi fosse meglio guardarsi. Per i nazifascisti, i carabinieri partigiani diventarono, quindi, una pericolosa minaccia, che doveva essere sradicata il più velocemente possibile. A Centocelle, però, il maresciallo Azzaretto e il maresciallo Forte poterono contare anche sulla locale parrocchia di San Felice da Cantalice e quindi sull’appoggio della società civile per nascondersi o ricevere sostegno logistico.
“[…] Di ciò può testimoniare il Reverendissimo Parroco di quella Chiesa, dove il sottoscritto più volte partecipò anche alle varie riunioni segrete tenute dagli esponenti del Partito Democratico Cristiano <60.”
È proprio Padre Urbano da Paliano a produrre un documento prezioso che avvalora quanto descritto dal maresciallo Forte e di cui si riporta la trascrizione.
“Si conferma in pieno quanto sopra. Il Maresciallo Maggiore Forte Salvatore ha effettivamente preso parte alle riunioni del fronte clandestino che si tennero nei locali di questa Parrocchia alla presenza del sottoscritto” <61.
Nella relazione, che descrive il contributo dell’arma di Centocelle durante la dominazione tedesca, viene più volte sottolineato in che modo la violenza e l’odio fascista si scagliasse contro la figura dei carabinieri, le loro case e, persino, a volte, contro le loro famiglie.
“[…] Il maresciallo Azzaretto Antonio, abitante con la famiglia provvisoriamente in via dei Pioppi di Centocelle, venne spesso ricercato dai nazifascisti e non trovatolo per rappresaglia gli vennero asportate due macchine da scrivere ed indumenti vari personali. Inoltre i componenti la di lui famiglia vennero minacciati, armi alla mano, dai nazifascisti. Anche l’appuntato Gobbi che abitava in via del Fosso di Centocelle n. 35, era ricercato e la sua abitazione messa a soqquadro con rotture di diversi oggetti”. <62.
[NOTE]
49 Arrigo Petacco e Sergio Zavoli, Dal Gran Consiglio al Gran Sasso – una storia da rifare, Rizzoli, Milano 1973.
50 Anna Maria Casavola, 7 ottobre 1943. La deportazione dei carabinieri romani nei lager nazisti, Edizioni Studium, Roma 2009.
51 Ufficio Storico dell’Arma dei Carabinieri (da ora in poi USACC), 261.10(1), n. 269 di prot. in data 6 ottobre 1943, Disposizioni del maresciallo Graziani circa il disarmo dei CC in Roma.
52 USACC, 125.14, Legione Territoriale Carabinieri di Roma – Gruppi Roma e Interno. Vicende della legione e comandi dipendenti dopo l’8 settembre 1943 (Relazione del Te. Col. Perinetti Carlo, Cap. Fienga Angelo, T. Col. Pecorelli Aniello), pp. 2 e ss.; USACC, 1270.1, Memoria del Gen. Filippo Caruso consegnata nel trentennale della liberazione sul contributo dell’Arma dei CC alla Resistenza e alla ricostruzione, USACC, 261.8, n. 1/1 del prot. riservato in data 6 ottobre 1943, Disarmo dei CC della Città Aperta di Roma, gen. Casimiro Delfini.
53 Per le fonti tedesche cfr. l’elenco analitico compilato dal dr. Carlo Gentile, col gruppo di ricerca dell’Università di Pisa, relativo alle operazioni anti-partigiane, rappresaglie e stragi compiute in Italia dai reparti tedeschi, sulla base della documentazione conservata presso gli archivi tedeschi in Le stragi nazifasciste in Toscana. Guida archivistica alla memoria. Gli archivi tedeschi, Carocci, Milano 2005, p. 45.
54 USACC, 1472.30, Compagnia Roma Esterna Seconda, Fondo Caruso Filippo, Guerra mondiale 2^ (Occupazione tedesca), stazioni, folio 18 Stazione di Centocelle in data 20 marzo 1948 e folio 21 Stazione di Torpignattara in data 25 marzo 1948.
55 USACC, 125.14, Legione Territoriale Carabinieri di Roma – Gruppi Roma e Interno. Vicende della legione e comandi dipendenti dopo l’8 settembre 1943 (Relazione del Ten. Col. Perinetti Carlo, Cap. Fienga Angelo, Ten. Col. Pecorelli Aniello) – Legione Roma, p. 2
56 USACC, 1472.30, Compagnia Roma Esterna Seconda, Fondo Caruso Filippo, Guerra mondiale 2^ (Occupazione tedesca), stazioni, folio 18 Stazione di Centocelle in data 20 marzo 1948.
57 USACC, 125.14, Legione Territoriale Carabinieri di Roma – Gruppi Roma e Interno. Vicende della legione e comandi dipendenti dopo l’8 settembre 1943 – Relazione del cap. Angelo Fienga, p. 12.
58 Filippo Caruso, L’Arma dei Carabinieri in Roma durante l’occupazione tedesca, (8 settembre 1943-4 giugno 1944), Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1949.
59 USACC, n. 580, Ten. Castellani Mario – Croce V.M. (1955 – 2 -205).
60 USACC, 1496.29, Fondo Caruso Filippo, Guerra Mondiale 2ª (Occupazione Tedesca), domanda tendente ad essere compreso nell’elenco dei militari “Attivi” della lotta contro i Nazi-Fascisti nel periodo 8 settembre – 4 giugno 1944 del maresciallo maggiore a piedi effettivo Forte Salvatore.
61 USACC, 1496.29, Fondo Caruso Filippo, Guerra Mondiale 2ª (Occupazione Tedesca), domanda tendente ad essere compreso nell’elenco dei militari “Attivi” della lotta contro i Nazi – Fascisti nel periodo 8 settembre – 4 giugno 1944 del maresciallo maggiore a piedi effettivo Forte Salvatore, dichiarazione autografa del parroco Padre Urbano da Paliano in data 14 maggio 1945.
62 USACC, 1472.30, Compagnia Roma Esterna Seconda, Fondo Caruso Filippo, Guerra mondiale 2ª (Occupazione tedesca), stazioni, folio 18 Stazione di Centocelle in data 20 marzo 1948.
Riccardo Sansone, Relazione per il conferimento della medaglia al merito civile al quartiere romano di Centocelle, ANPI, Sezione “Giordano Sangalli”, Roma, 2017

Il tenente colonnello Manfredi Talamo

Va innanzi tutto ricordato che subito dopo l’armistizio, in data 12 settembre 1943, venne costituito a Bari il “Comando Carabinieri dell’Italia Meridionale” cui succedette, in data 15 novembre successivo, il “Comando dell’Arma dei Carabinieri dell’Italia Liberata” dal quale dipendevano le Legioni di Bari, Cagliari, Catanzaro e Napoli.
La ricostituzione in Roma del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri ebbe luogo ufficialmente in data 20 luglio 1944. Dall’8 settembre 1943 all’aprile 1945 l’Arma dei Carabinieri visse uno dei periodi più difficili e al tempo stesso esaltanti della sua lunga storia. Sebbene duramente provata su ogni fronte da quasi tre anni di guerra, trasse dalle sue antiche virtù militari l’energia organizzativa e la coesione morale per cimentarsi nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione, confermando così la secolare sua fedeltà alle Istituzioni dello Stato. Non più rigidamente inquadrati nei reparti dell’ordinamento di guerra, ma raccolti, come per una nuova mobilitazione spirituale e guerriera, in nuclei e formazioni clandestine, a volte di consistenza massiccia, a volte di esigua entità, i Carabinieri diedero un impulso rilevante alla lotta contro le forze nazi-fasciste. Nel corso di questa lotta essi furono decisivamente sostenuti dall’apparato dei comandi territoriali dell’Arma, dalle Stazioni alle più alte Unità, trasformate in altrettanti centri di appoggio, che operarono rischiosamente anche a vantaggio dell’eroica iniziativa dei singoli.
Nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione i Carabinieri riaffermarono quotidianamente spirito di abnegazione ed illimitata dedizione al dovere, fornendo un altissimo, generoso tributo di sangue.
Questa loro lunga lotta ebbe inizio l’8 settembre 1943 – il giorno stesso dell’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani – con l’impiego del II Battaglione Allievi Carabinieri, poi rimpiazzato dal Gruppo Squadroni Carabinieri “Pastrengo”, a sostengo delle altre truppe schierate per difendere la Capitale dall’attacco concentrico di due Divisioni tedesche all’alba del giorno successivo. Queste furono costrette a ripiegare. Contemporaneamente i Carabinieri si batterono in Balcania unendosi con alcune Sezioni mobilitate e con altri reparti dell’Arma alle truppe dell’Esercito (94 Carabinieri sopravvissuti su 500 dopo diciotto mesi di lotta); ripresero la lotta nella Capitale dopo la violazione da parte tedesca dell’accordo che aveva dichiarato Roma “città aperta” organizzandosi nel “Fronte Clandestino di Resistenza dei Carabinieri” comandato dal generale Filippo Caruso (v.) ed articolato in un “Raggruppamento territoriale” ed in un “Raggruppamento mobile” alimentarono infine in ogni regione la lotta senza quartiere contro il nazi-fascismo passando alle formazioni partigiane allorché il 7 ottobre il comando germanico decretò lo scioglimento dei reparti dell’Arma ed il loro trasferimento nel territorio del Reich.
L’opera dei Carabinieri nella Resistenza non conobbe mai sosta nell’autunno-inverno 1943, né in Italia (banda di “Bosco Martese” in Abruzzo, decisivo il loro intervento nelle gloriose 4 giornate dell’insurrezione di Napoli, tanto per citare i fatti salienti) né in Albania, Grecia e Jugoslavia, ma nel 1944 attinse via via l’estremo della partecipazione ed il vertice dell’olocausto. Allorché il 23 marzo di quell’anno l’esplosione di un ordigno fatto brillare a Roma in via Rasella da un elemento dei G.A.P. (Gruppo di Azione Partigiana) provocò la morte di 33 militari tedeschi, Hitler ordinò la facilazione di 10 italiani per ogni tedesco ucciso. L’eccidio ebbe luogo all’imbrunire del giorno successivo alle Fosse Ardeatine: tra le vittime ben dodici militari dell’Arma, tutti appartenenti al Fronte Clandestino della Resistenza e già arrestati dalle SS germaniche, che invano li avevano torturati perché rivelassero i piani ed i nomi dell’organizzazione partigiana dei Carabinieri. Essi furono: tenente colonnello Giovanni Frignani, tenente colonnello Manfredi Talamo, maggiore Ugo De Carolis, capitano Raffaele Aversa, tenente Genserico Fontana, tenente Romeo Rodriguez Pereira, maresciallo d’alloggio Francesco Pepicelli, brigadiere Candido Manca, brigadiere Gerardo Sergi, corazziere Calcedonio Giordano, carabiniere Augusto Renzini, carabiniere Gaetano Forte. Alla loro Memoria venne concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Intanto nel Nord, per merito del maggiore dei Carabinieri Ettore Giovannini si era costituita in Milano una formazione clandestina della Resistenza, che nell’aprile 1944, assunto il nome di “Carabinieri Patrioti Gerolamo” (dal nome di battaglia preso dallo stesso maggiore) contava già oltre 700 militari dell’Arma, inquadrata da numerosi ufficiali e ripartita in due Raggruppamenti. Strettamente collegata al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia ed in particolare alla formazione partigiana Carabinieri di Bergamo, comandata dal maggiore Giovanni Rusconi, la “Banda Gerolamo” svolse intensa e rischiosa attività operativa, oltre che preziosa opera informativa, diretta anche all’individuazione degli obiettivi militari tedeschi da parte dell’aviazione alleata.
In vista della liberazione di Roma da parte della V Armata americana, nel maggio 1944 l’azione del generale Caruso e del suo “Fronte Clandestino” di Carabinieri ebbe di mira anche la preparazione del ripristino delle Stazioni dell’Arma nella Capitale. Il generale, che era accompagnato dal capitano Giorgio Geniola, cadde però il 29 maggio in un agguato tesogli dalla polizia nazista, che sottopose i due ufficiali a gravi sevizie nell’inutile intento di strappare loro delle rivelazioni. Il 4 giugno, mentre le colonne americane convergevano sulla Capitale, il generale Caruso riuscì ad evadere dalle sinistre carceri di via Tasso, riassumendo al comando del “Fronte” la direzione delle azioni svolte dai Carabinieri in quella vigilia della Liberazione. Questa ebbe luogo il 4 giugno 1944. Alla testa delle truppe americane entrarono nella Capitale i Carabinieri del “Contingente R.” comandati dal tenente colonnello Carlo Perinetti, che si fusero con quelli del “Fronte” ripristinando in Roma i comandi territoriali dell’Arma. Per l’opera svolta come animatore del “Fronte” il generale Caruso venne poi decorato della Medaglia d’Oro al Valor Militare. Tra i pochi sopravvissuti delle prigioni di via Tasso, il brigadiere dei Carabinieri Angelo Joppi, gravemente menomato per le sevizie subite durante 90 giorni di detenzione, meritò la Medaglia d’Oro al Valor Militare anche per le ardue e rischiose imprese compiute come elemento del “Fronte” prima della cattura.
Redazione, I Carabinieri nella Resistenza e guerra di Liberazione, Arma dei Carabinieri, Ministero della Difesa

L’Arma dei Carabinieri ha collaborato in modo incisivo alla liberazione del territorio italiano dopo l’8 settembre su vari piani operativi: dall’intelligence attuata nella struttura dell’Ufficio’I’ (Ufficio Informazioni), del Comando Supremo e poi del Regio Esercito , a quegli elementi che andarono alla macchia e fecero parte di altre compagini che, mettendo in sinergia le forze, riuscirono a vincere, seppur con molte dolorose perdite, il nazifascismo, ivi inclusi coloro che, operando ufficialmente in strutture nemiche (il Servizio Informazioni Difesa della RSI, SID), furono ‘talpe’ utilissime per i colleghi del Servizio Informazioni Militari (SIM) del Governo Badoglio.
[…] Nonostante una particolare e documentata diffidenza degli anglo-americani verso la struttura d’intelligence militare italiana che era ‘risorta’ con il Governo legittimo il 1° ottobre 1943 a Brindisi, sotto la direzione del colonnello Pompeo Agrifoglio, i Comandi Alleati, di fronte alla professionalità e ai risultati conseguiti dal Battalion nel settore del controspionaggio, compresero che non potevano fare a meno di continuare a servirsi degli uomini del Battaglione, tutti provenienti dalle file di Carabinieri Reali. E per questo imposero al SIM- Ufficio ‘I’ che la Sezione rimanesse nella loro dipendenza d’impiego, anche se amministrata, dal punto di vista disciplinare e finanziario, dal Comando Generale dell’Arma.
Curiosamente, poi, per gli anglo-americani la Sezione Bonsignore/Seconda Sezione mantenerono sempre ufficialmente il nome di Battaglione 808 CS.
[…] La lettera di trasmissione da parte degli Uffici alleati al Comando del Mediterraneo, in data gennaio 1947, aveva come oggetto: disbandement of the 808 Battalion CS…il controspionaggio italiano era rimasto presente nella mente e nei carteggi, con quel nome, anche per i risultati che aveva dato. Preferivano chiamarlo in quel modo piuttosto che con la sua denominazione ‘interna’. Cambiamenti di nome, indicazioni diverse ma la sostanza rimase sempre la stessa: un lavoro svolto con sicura tradizionale professionalità.
[…] Vi è da chiarire che, per quanto riguarda il controspionaggio, gli Alleati non si avvalsero solamente del Battaglione, ma diedero istruzioni e chiesero informazioni direttamente anche ai Centri e Sottocentri CS che a mano a mano si stavano ricostituendo, quasi tutti solamente con personale dei Carabinieri Reali: i rapporti ufficiali tra personale dei Centri CS e i Servizi alleati non furono sempre molto buoni, a causa anche di molti giovani ufficiali inglesi e americani che non conoscevano bene le dinamiche dell’Arma e la realtà sociale della popolazione italiana, ma ritenevano, in quanto ‘vincitori’, di poter dettare loro modi di operare e di saper giudicare, a volte con sufficienza e arroganza, tradizioni e metodi operativi a loro non molto familiari.
Sostanzialmente queste erano le competenze/direttive, cogenti, indicate dagli Alleati per il controspionaggio italiano; erano aumentate sensibilmente rispetto ai primi di ottobre 1943, con il passar del tempo, quando gli anglo-americani avevano iniziato a comprendere l’importanza della collaborazione portata avanti con gli italiani, che potevano conoscere e controllare il territorio, essendo già professionalmente preparati a questo, grazie anche alla struttura capillare dell’organizzazione dell’Arma : investigare attentamente qualsiasi attività sovversiva e reprimerla; trovare e fermare possibili spie nemiche o individui sospetti di tale azione sul territorio, eventualmente interrogarli, però tassativamente dopo l’interrogatorio effettuato dalle Autorità d’intelligence anglo americane (peraltro non sempre quest’ultimo ‘diktat’ alleato fu ‘rispettato’ dai membri del Battaglione…); prendere misure atte a mantenere la sicurezza delle truppe italiane e alleate; analizzare la situazione politica sul territorio in modo analitico e sintetico, con particolare riguardo alle simpatie della popolazione verso partiti non considerati ‘democratici’ dagli Alleati (cioè i comunisti e socialisti).
Per comprendere meglio quale fosse il modus operandi degli uomini del Battaglione è interessante ad esempio leggere in dettaglio uno dei tanti rapporti mensili redatti dal Centro CS di Catania, quello del mese di aprile 1944, anche sull’operato dei nuclei di Cosenza, Reggio Calabria, Augusta e Siracusa e le sottosezioni di Agrigento e Messina. La loro attività si era concentrata soprattutto sulle persone che arrivavano nei rispetti territori di competenza, come rifugiati dalle aree ancora in guerra, perché era logico pensare che il nemico potesse avvantaggiarsi di tali opportunità per inviare agenti sabotatori o eventuali spie nell’Italia ormai sottratta al loro controllo, come in effetti stava tentando di fare, non sempre con successo.
In quell’aprile 1944 erano stati fermati, tra gli altri, un disertore dell’esercito tedesco di nazionalità italiana che proveniva dall’altopiano della Bainsizza e un sottufficiale tedesco proveniente dalla stessa zona. Era stato fermato anche un sedicente tedesco, in realtà un italiano che, sotto nome di copertura, aveva fatto parte di una rete spionistica con centrale a Melito Porto Salvo (Reggio Calabria). Altri elementi erano stati fermati e indagati perché molto probabilmente erano agenti al servizio di reti fasciste e/o naziste che avevano contatti con il nord. Da questi fermati occorreva avere notizie importanti su movimenti di truppe e di natanti e solo gli italiani, a conoscenza del territorio, sapevano ben interpretare anche solo alcuni frammenti di notizie.
In quel periodo l’attenzione del CS si concentrava molto su noti e meno noti personaggi del regime fascista che non avevano avuto il tempo di fuggire e passare le linee verso il nord d’Italia, al seguito delle truppe germaniche, e che tentavano tuttavia il viaggio, portando spesso con sé anche documenti compromettenti come disegni dei luoghi, dislocazione dei Comandi alleati etc… Veniva monitorato con molta cura molto anche il morale delle truppe italiane presenti e la situazione politica della Sicilia e della Calabria che ad una ricerca approfondita sembrava essersi ormai stabilizzata.
[…] Molti ufficiali dei Carabinieri si trovarono spesso costretti ad accettare di riaprire dei Centri CS, perché in servizio nell’Italia settentrionale. Un esempio fra i tanti è Biagio Argenziano: nell’ottobre 1942 da Bari, Capo Centro CS, era stato trasferito a Verona e lì si trovava al momento dell’armistizio. Il Ministero della Difesa Nazione (RSI) gli ordinò di continuare il suo servizio nel SID, così come aveva fatto per tutti gli altri Centri CS. Dopo due mesi, fu trasferito a Bologna, sempre come responsabile di quel Centro sul territorio: come tutti gli altri Carabinieri fu obbligato a entrare nella GNR e come molti altri, riuscì ad avere un congedo illimitato:’non idoneo al servizio’. Non ci sono documenti specifici al riguardo ma ricordando l’ “Appunto al Maresciallo” sopra citato, si può comprendere che forse non era più giudicato di sicura ‘fedeltà’ verso la RSI: in realtà, da altri documenti si evince come la casa del maggiore Argenziano a Bologna fosse stata un sicuro rifugio momentaneo per altri suoi colleghi in fuga o infiltrati… liberata Bologna, Argenziano si presentò al Centro Raccolta Carabinieri e fu reintegrato in servizio immediatamente. Così come il giudizio della ‘discriminazione’ (cioè l’indagine sul comportamento dopo l’8 settembre, che ogni militare subì) gli fu favorevole, perché fu riconosciuto il suo aiuto alla Resistenza e alla liberazione del territorio italiano, in terreno ostile e in posizione rischiosa per il suo lavoro presso il SID.
Maria Gabriella Pasqualini, L’opera di controspionaggio dell’Arma dei Carabinieri dopo l’8 settembre 1943 in Carte Segrete dell’intelligence italiana. Vol.II 1919-1949, Roma, RUD, 2007

È del 24 marzo il tragico eccidio delle Fosse Ardeatine in cui vengono trucidati dodici militari dell’Arma. A seguito di un attacco dei GAP (Gruppo di Azione Partigiana) a una compagnia di SS il pomeriggio del 23 marzo muoiono 33 nazisti. Hitler ordina la fucilazione di 10 italiani per ogni tedesco ucciso. Così la sera del 24 marzo 335 italiani vengono fucilati nelle gallerie della vecchia cava di pozzolana. Il 26 marzo, sempre a Roma, viene catturato dai nazisti il carabiniere Fortunato Caccamo del Fronte Clandestino, autore di numerose azioni di sabotaggio. “Sebbene sottoposto, per lunghi mesi, a feroci torture” <54 mantiene il silenzio evitando di far scoprire gli appartenenti all’organizzazione clandestina. Viene fucilato il 3 giugno 1944 alla vigilia della liberazione di Roma (4 giugno 1944) in cui il contributo degli appartenenti all’Arma, del Fronte Clandestino come delle altre formazioni partigiane, è fondamentale. Durante l’entrata nella Capitale delle truppe alleate vengono liberati i prigionieri del carcere di via Tasso tra i quali spicca la figura del brigadiere Angelo Joppi. Membro del Fronte Clandestino ha resistito per novanta giorni ad indicibili torture e a ventotto martorianti interrogatori. L’unica risposta data ai suoi aguzzini è: “Sono un carabiniere del re, non parlo” <55. Esce dal carcere sorretto da due compagni in condizioni indicibili. Le atrocità subite da Joppi danno la misura del grande valore della sua scelta di non piegarsi nemmeno di fronte alle barbarie subite. Dopo la liberazione della Capitale il Fronte Clandestino si unisce in data 8 giugno con il Contingente R (contingente di carabinieri combattenti al fianco delle truppe alleate). Le forze dell’Arma così riunite riprendono possesso delle caserme e delle stazioni lasciate nel passaggio alla clandestinità.
54 Ferrara 1978: 72.
55 Casavola 2008: 139.
Nicola Raucci, La scelta dei Carabinieri. 1943-1945, Academia.edu

Candido Manca nacque a Dolianova (Cagliari), 31 gennaio 1907. Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri. Medaglia d’oro al Valor Militare. Ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944 a 37 anni.
Nipote del colonnello Giuseppe Manca Sciacca – cavaliere dei Santi Maurizio e Lazzaro e della Corona d’Italia, che combatté nelle guerre di indipendenza – si trasferì giovanissimo a Roma. Qui, nel 1925, all’età di 18 anni, frequentò il corso “Allievi Carabinieri a piedi volontari” presso la Legione Allievi per la ferma di tre anni. Più volte richiamato in servizio, prestò la propria attività presso la Legione Territoriale della città capitolina.
Il 25 luglio del 1943 fu coinvolto nelle operazioni di arresto del duce, volute dal re Vittorio Emanuele III, dopo che Mussolini, nella notte tra il 24 e il 25 luglio, era stato sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo.
All’alba del 7 ottobre 1943, quando le truppe della Wehrmacht e delle SS circondarono e assediarono le caserme dell’Arma dislocate in città, i Carabinieri passarono all’organizzazione clandestina, continuando la loro lotta contro i nazifascisti. Manca aderì alla Banda Caruso, comandata dal generale Filippo Caruso, che vantava una forza di più di 5 mila uomini tra ufficiali, sottufficiali e carabinieri di truppa e che divenne la maggiore e omogenea organizzazione dipendente dal Comando Supremo del Fronte Militare Clandestino. Il brigadiere fu il ragioniere generale della Banda.
Il 10 dicembre 1943, il sottufficiale sardo e i tenenti Romeo Rodriguez Pereira e Genserico Fontana caddero nel tranello teso loro dagli uomini della Gestapo nell’ufficio dell’industriale Realino Carboni, in via della Mercede 42, dove vennero arrestati e ristretti prima nel carcere di via Tasso e poi nel braccio tedesco di Regina Coeli. Dalla cella n. 253 di quest’ultimo carcere, Manca inviò, con lo stratagemma della gavetta (o pentolino), diverse lettere alla moglie Lavinia e ai suoi due bambini, scritte a matita su dei piccoli fogli, prima di finire trucidato, il 24 marzo 1944, a soli 37 anni, alle Fosse Ardeatine, con i giovani ufficiali Rodriguez e Fontana.
Martino Contu, Il carabiniere Candido Manca, www.carlofigari.it, 2018

Fausto Cossu – Fonte: Grac cit. infra

La grande maggioranza dei precettati non si presentava e le locali Stazioni dei carabinieri – incorporati, contro il loro volere, nella Guardia Nazionale Repubblicana assieme alla Milizia fascista – assolvevano di malavoglia al compito di prelevare di forza i renitenti ed anzi spesso facevano preavvertire le famiglie in modo che i ricercati non si facessero trovare. Le autorità fasciste iniziarono quindi a organizzare direttamente da Piacenza delle spedizioni alla caccia dei renitenti. Appunto in occasione di una di queste avvenne, nel territorio della Val Tidone, il primo episodio di resistenza armata popolare, con un esito funesto per gli incursori.
Era la mattina del 24 gennaio del 1944, un autobus militare, con 15 agenti della Gnr (tutti carabinieri perché i miliziani fascisti si erano sottratti alla spedizione), salendo da Piozzano stava raggiungendo la frazione di Vidiano per catturare i giovani di leva della zona, quando ad una curva fu investito da una nutrita scarica di fucileria che arrestò l’automezzo e colpì a morte due degli agenti mentre quattro rimasero feriti e gli altri nove si arresero. A tendere l’agguato erano stati abitanti della zona, una trentina, in gran parte genitori dei giovani di leva ricercati, muniti dei loro fucili da caccia, più alcuni ex militari a cui pure era arrivato il richiamo in servizio e che invece avevano cominciato a costituire un gruppo di resistenza, avevano reperito quattro moschetti e usavano ritrovarsi a La Sanese, un caseggiato posto in un punto strategico, al confine fra i comuni di Piozzano, di Pecorara, di Bobbio e di Travo.
L’agguato aveva peraltro un carattere di reazione improvvisata, tant’è che si incaricò l’autista dell’automezzo di ritornare subito a Piacenza con i due cadaveri ed i feriti da curare, e cosi le autorità fasciste e naziste, chiedendo aiuto anche a quelle della provincia di Pavia, poterono organizzare già in giornata un poderoso rastrellamento della val Luretta, inviando centinaia di armati. Un rastrellamento che si protrasse per quattro giorni ma che non portò all’individuazione né dei partecipanti all’agguato né alla cattura di renitenti alla leva, che avevano provveduto a nascondersi o al lasciare la zona, ma, dopo atti di intimidazioni verso tutta la popolazione ed i suoi sei parroci, si concluse con l’arresto ed il trasporto nel carcere di Piacenza di 20 persone fra cui i sacerdoti don Varesi di Groppo e don Tinelli di Vidiano, accusati di connivenza con i ribelli.
I ribelli della “Compagnia Carabinieri Patrioti”
Il clamoroso fatto di Vidiano accelerò il processo di formazione del movimento partigiano, facendo fra l’altro comprendere ai carabinieri della Gnr che rischiavano di essere le vittime prese di mezzo fra la funzione repressiva che gli assegnavano le autorità fasciste e la resistenza armata popolare che andava prendendo piede. Nello stesso mese di gennaio il gruppetto di resistenti di La Sanese fu raggiunto dal tenente Fausto Cossu con un primo gruppo di carabinieri che con lui, che aveva già conosciuto l’internamento in Germania, avevano abbandonato il corpo a Bologna. Per i primi mesi del ’44 l’attività di “Fausto” fu rivolta essenzialmente a provvedersi delle prime armi e a convincere i carabinieri della Stazioni della Val Tidone e della Val Trebbia a disertare dalla Repubblica di Salò per unirsi al suo gruppo. Cercava di evitare nel frattempo attacchi e scontri con le forze di Salò. Riuscì in tal modo a costituire, con sede a La Sanese, quella che denominò inizialmente la “Compagnia Carabinieri Patrioti”, una formazione partigiana che si distingueva dalle altre per le caratteristiche militari dell’addestramento e della disciplina
Romano Repetti, Gli inizi del movimento partigiano in Val Tidone, Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza

Si conclude la rievocazione dell’epopea dei Carabinieri nel libro di Gelasio Giardetti, “I carabinieri nella storia italiana. In memoria della loro deportazione nei lager nazisti”, edito dall’Associazione Nazionale Carabinieri e presentato l’11 ottobre 2018 presso la Legione Allievi Carabinieri di Roma da Umberto Broccoli, il gen. B. Vincenzo Pezzolet e l’autore Gelasio Giardetti.
[…] Ma i Carabinieri non hanno dovuto soltanto subire, dall’intollerabile pressione dell’illegalità e della violenza fascista e nazista con cui dovevano convivere nei territori della RSI fino alla deportazione. Alla reazione con le armi che abbiamo rievocato ricordando la loro resistenza a Roma e a Napoli nei drammatici giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, è seguita un’azione alle volte meno visibile ma quanto mai efficace nell’aiuto alla popolazione civile per il costante imperativo di tutelarla, riferendovi il giuramento – non più rivolto al Re e tanto meno al regime – culminata nel sacrificio supremo di Salvo D’Acquisto e in tanti altri episodi di dedizione e di abnegazione.
L’Autore li ricorda descrivendo le efferatezze tedesche cui hanno cercato di opporsi in tutti i modi possibili. I carabinieri combatterono armi in pugno sia nell’Italia settentrionale che nell’Italia centrale – rimaste sotto il tallone tedesco, mentre il Sud era stato liberato dagli anglo-americani che con lo sbarco a Salerno iniziarono a risalire troppo lentamente nella penisola – non solo subito dopo l’8 settembre ma anche dopo, come rievoca l’Autore nel libro.
Si è trattato di piccoli gruppi di carabinieri, a volte il loro eroismo è stato sfortunato, come per gli otto militari della “Compagnia Carabinieri Partigiani” del maresciallo Tarcisio Ballarini che nell’Italia Settentrionale, in Valsesia, furono torturati dai nazi-fascisti per conoscere la dislocazioni dei nuclei partigiani e fucilati con altri compagni per non aver voluto dare tali informazioni.
Sul Monte Grappa le formazioni partigiane di 1.400 uomini comprendevano 150 carabinieri; furono accerchiati da 20.000 nazi fascisti – tra Wermacht ed SS, Brigate Nere e Guardia Nazionale Repubblicana – 500 partigiani caddero nel conflitto o furono passati per le armi, i superstiti deportati in Germania. La stessa sorte per 18 carabinieri mentre il loro comandante, tenente Luigi Giarnieri, catturato ferito dalla Brigate nere e torturato, fu impiccato nella piazza di Crespano sul Grappa per non aver voluto svelare la posizione dei partigiani, come Tarcisio Ballarini.
Altrettanto nell’Italia centrale, si citano episodi a Città Ducale, San Severino Marche e Macerata dove il comandante, maggiore Pasquale Infelisi, accusato di sabotaggio e cospirazione, fu fucilato a Montirozzo il 14 giugno 1944, ha avuto la Medaglia di Bronzo al valor militare. In provincia di Arezzo furono fucilati, dopo torture cui avevano resistito senza parlare, Vittorio Tassi e un seguace giovanissimo, Renato Magi, che avrebbe voluto arruolarsi nei carabinieri a guerra finita, mentre Tassi aveva lasciato la stazione di Chiavaretto cui era assegnato per formare un gruppo partigiano, la “banda Tassi”.
La sua storia è toccante, ricorda Salvo D’Acquisto nell’essersi denunciato come unico responsabile delle azioni di guerriglia per salvare i 5 partigiani e altri civili arrestati, non riuscì a salvare soltanto Magi perché il giovane era stato trovato in possesso delle armi. Toccante l’ultima lettera di Tassi alla moglie e di Magi alla mamma, puntualmente riprodotte nel libro. Anche Carlo Alberto dalla Chiesa – di cui tutti ricordano l’atroce fine, ucciso dalla mafia a Palermo il 3 settembre 1982 con la moglie Elisabetta Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo – a San Benedetto del Tronto si schierò clandestinamente contro i tedeschi rifornendo i partigiani finché, scoperto, riuscì a sfuggire alla cattura raggiungendo incolume il governo legittimo al Sud.
L’Autore ricostruisce nei particolari le epiche vicende nel Bosco Martese, località nel teramano dove vi furono scontri a fuoco sanguinosi dei tedeschi con i partigiani di Mario Capuani, Ammazzalorso e Rodomonte, di cui facevano parte i carabinieri, con funzioni di comando al capitano Ettore Bianco, che sconfisse i tedeschi in campo aperto. Poi la formazione si frazionò ed Ettore Bianco radunò una banda di 200 uomini che schierò lungo la Salaria, per ostacolare i movimenti tedeschi sulla via di raccordo tra la litoranea adriatica e il fronte di Cassino.
Anche a Firenze i carabinieri parteciparono alla resistenza, il vicebrigadiere Giuseppe Amico, che comandava la stazione di Fiesole, coordinava clandestinamente una delle otto squadre d’azione della V^ Brigata partigiana: viene ricordato che il portaordini Rolando Lunari venne scoperto e arrestato con un carabiniere di scorta, Sebastiano Pandolfi, entrambi furono fucilati. Il comandante Amico, arrestato per complicità, evase e i carabinieri della sua stazione lo seguirono; intanto, si era nell’agosto 1944, entrarono in città le avanguardie dell’8^ Armata britannica con due compagnie di carabinieri comandate dai capitani Fausto Gradoli e Mariano Piazza. I tre carabinieri rimasti a presidiare la stazione, quando non fu più necessario la lasciarono per raggiungere il comandante rifugiandosi presso una confraternita e poi nella vicina zona archeologica.
[…] I carabinieri che ne facevano parte operavano sabotaggi con distruzione di ponti sulle vie consolari e agguati alle forze nazi-fasciste. Entrarono nella “Banda Caruso” più di 100 carabinieri che a Roma si erano battuti negli scontri di Porta San Paolo; 65 della stazione di Porta Cavalleggeri con il maresciallo Giuseppe Ventrella e il tenente Mario Filippi dopo la deportazione del maresciallo capo Sante Natali; 38 della stazione di Cinecittà con il maresciallo Vito Di Levo; altri della stazione di San Giovanni con il maresciallo Di Iorio, e tanti ancora: ben 572 furono i componenti del “Fronte Clandestino di Resistenza”.
[…] celle di Via Tasso ritroviamo anche il generale Caruso, che abbiamo visto capo e fondatore del “Fronte Clandestino”, arrestato il 30 maggio 1944 e interrogato nella caserma di Castro Pretorio dove lo avevano quasi strangolato per recuperare un documento compromettente da lui ingoiato per salvare i compagni. Resistette anch’egli alle feroci torture degli aguzzini nazisti e partecipò alla “valanga dei morituri” contro le guardie il 4 giugno 1944, riprendendo poi il comando dei carabinieri di Roma; anche lui ha avuto la Medaglia d’Oro al valor militare. Nell’Italia settentrionale operava un’altra banda, con a capo il maggiore dei carabinieri Ettore Giovannini, la “Banda Gerolamo” di 700 componenti, impegnata sia in frequenti azioni di sabotaggio e guerriglia sia in un importante lavoro di collegamento e segnalazione in Lombardia nel 1944 e 1945.
Oltre al braccio operativo costituito da ufficiali, sottufficiali e carabinieri semplici, la “banda” aveva una rete informativa segreta costituita da quelli che erano rimasti nelle caserme per il lavoro istituzionale su volere di Giovannini, che in tal modo poteva ricevere in incognito da loro informazioni preziose. Anche a questo riguardo l’Autore è prodigo di particolari, descrive le azioni di sabotaggio e di contrasto alle colonne nemiche operate dai carabinieri guidati dal brigadiere Antonio Basile e dal sottotenente Franco Alongi, dal maresciallo Antonio Carretto e dal capitano Silvio Cavanna, definito “il migliore incursore di Giovannini”. Il suo braccio destro, il tenente Antonio Cicerale che curava la rete informativa, arrestato in Svizzera e deportato a Dachau, riuscì a sopravvivere, mentre il sottoposto Giuseppe Andraoni, tradito dall’informatore, fu fucilato.
[…] L’Autore conclude il libro ricordando che il 1° settembre 1944 l’Arma aveva cessato di esistere per disposizione del comandante della Guardia Nazionale Repubblicana della RSI, e aggiunge: “Ma non tutto era perduto poiché, man mano che gli Alleati risalivano la penisola, l’Arma, grazie al radicamento su tutto il suolo italiano, risorgeva come un’araba fenice ripristinando la sua organizzazione e la sua missione istituzionale. Il tributo di sangue offerto dall’Arma dei carabinieri nei venti mesi di Resistenza e di lotta per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo ammontò a 2.735 caduti e 6.521 feriti”.
Romano Maria Levante, Giardetti. 4: I carabinieri nella deportazione e nella Resistenza fino alla Liberazione, arteculturaoggi.com

Bisognerebbe indagare atti e azioni nei particolari contesti. In ogni caso, quello che si è cercato di dimostrare in questa ricerca è che l’azione dei Carabinieri, al di là delle singole volontà, è stata in prima istanza a difesa del bene della popolazione. In un periodo in cui molti sono venuti meno ai loro doveri i carabinieri si sono mantenuti fedeli al giuramento prestato nei suoi termini base, vedendo nella patria i volti dei propri concittadini. Se facciamo nostra la definizione di Jacques Semelin riguardo alla Resistenza civile, possiamo affermare che la scelta della maggioranza dei carabinieri nel periodo 1943-1945 vi rientra appieno: “La Resistenza civile fu la Resistenza della sopravvivenza, salvò il salvabile senza attendere il rovesciamento del rapporto di forze militari. Si trattava di far sopravvivere persone perseguitate dalle forze occupanti e collaborazioniste; si trattava di far sopravvivere valori e modi di vita profondamente minacciati dal regime nazista. Scopo della Resistenza civile non fu tanto il vincere l’occupante – non c’erano i mezzi per questo – quanto il coesistere, suo malgrado, con questo senza attendere l’ora della liberazione.
Questa Resistenza della sopravvivenza si trasformò in Resistenza della liberazione, man mano che si faceva più realistica la speranza di farcela con il regime nazista” <84.
Come conclusione non si può non sottolineare l’importanza della Resistenza per la stessa Istituzione dell’Arma. Dice il generale Caruso “con le qualità che furono la gloria del carabiniere di ieri, dopo il martirio, la sofferenza,
l’umiliazione, la delusione e l’esperienza di questa tragedia, il carabiniere di domani non potrà, non dovrà essere il carabiniere di una casta ma il carabiniere del popolo” <85.
84 Parisella 1997: 24.
85 Casavola 2008: 157.
Nicola Raucci, Op. cit.

Liberazione di Piacenza: il tenente dei carabinieri Fausto Cossu alla testa della divisione partigiana da lui comandata – Fonte: arteculturaoggi.com

Arriviamo così al 1945, che per i carabinieri partigiani iniziò con dei furiosi combattimenti in Val d’Arda contro agguerrite unità tedesche. Nel gennaio di quell’anno il carabiniere Federico Salvestri, comandante col nome di battaglia “Richetto” delle Divisioni partigiane “Centocroci” e “Val di Taro”, venne catturato e condannato a morte. Ma durante la sua traduzione a Piacenza, per esservi fucilato, riuscì con estrema audacia a sfuggire ai nazisti insieme con cinque patrioti e a riprendere immediatamente la lotta, con azioni che sono rimaste leggendarie. Il 26 gennaio a Ciano d’Enza, in provincia di Reggio Emilia, il carabiniere Domenico Bondi, che aveva al suo attivo numerose imprese condotte contro i nazifascisti, prese parte all’attacco di una colonna tedesca insieme col 3° Battaglione della Brigata “Fiamme Verdi“. Accerchiato dagli avversari durante un’azione isolata, tenne loro testa per oltre due ore. Poi, esaurite le munizioni, fu costretto a cedere. Le torture cui fu sottoposto nei giorni successivi valsero ai tedeschi una sola frase, che il Bondi ripetè con impavida ostinazione: “Sono un carabiniere, da me non saprete altro”. Il 26 gennaio cadde davanti al plotone di esecuzione. Venne decorato della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria.
Fra i carabinieri comandanti di unità partigiane va ricordato il brigadiere Alberto Araldi, che col nome di battaglia “Paolo”, aveva il comando della 3^ Brigata della Divisione partigiana “Piacenza” del tenente dei Carabinieri Fausto Cossu. Dei suoi colpi di mano, delle sue azioni audaci ed improvvise, della sua indomabile energia e del suo coraggio scrisse Pietro Solari nel volume “Partigiani in Val Trebbia e Val Tidone”. Cadde anche lui nelle mani dei tedeschi mentre tentava di catturare un capo nazista di Piacenza, responsabile di rappresaglie e crimini di guerra. Dopo la sua fucilazione, che avvenne nel cimitero di Piacenza il 7 gennaio 1945, un sottufficiale dei plotone d’esecuzione esclamò: “E’ un peccato fucilare uomini di carattere come Paolo”. Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria.
Tra un’infinità di altri episodi che caratterizzarono l’azione patriottica dei Carabinieri fra il gennaio e il marzo dei 1945, sopravvenne la primavera di quell’anno, così importante per la Resistenza e per la Guerra di Liberazione. Anche sul piano militare i Carabinieri, inquadrati nei Gruppi di Combattimento Italiani (3 Sezioni nel Gruppo Friuli, la 95^, la 98^ e la 316^; 2 Sezioni nel Gruppo Legnano, la 39^ e la 51^; 2 anche nel Gruppo Cremona, la 94^ e 739^; infine 3 Sezioni nel Gruppo Folgore, la 314^, la 315^ e la 317^) parteciparono alle operazioni che portarono alla liberazione di numerose città dall’occupazione tedesca. L’ingresso dei Carabinieri nei centri liberati venne salutato ovunque con entusiasmo irrefrenabile.
Al momento dell’insurrezione generale, ordinata il 25 aprile 1945, i 700 carabinieri della “Banda Gerolamo” del maggiore Giovannini intensificarono la loro attività e parteciparono nei giorni 25, 26 e 27 alla liberazione di Milano. Secondo i piani prestabiliti e decisi in armonia col C.L.N. varie squadre di Carabinieri occuparono tempestivamente le caserme della città, assicurando i necessari servizi d’ordine e di difesa degli edifici pubblici e rastrellando ingente quantità di materiale e documenti. Fra gli episodi più importanti va ricordata l’occupazione della caserma del 205° Comando Regionale Repubblicano e l’attacco alla Caserma Medici, sede dei Comando nazista. Gli alleati, sopraggiunti dopo due giorni dalla liberazione, trovarono non solo a Milano, ma in tutta la Lombardia, l’Arma interamente ripristinata dalla “Gerolamo” nelle sue sedi e in piena attività istituzionale. Il 27 aprile anche Piacenza venne liberata da una Divisione partigiana: a comandarla era il tenente dei Carabinieri Fausto Cossu, che il 27 aprile sfilò alla testa della sua unità per le vie della città esultante. La formazione del tenente Cossu ebbe grandi meriti nella lotta ai nazifascisti.
Redazione, I Carabinieri nella Resistenza e guerra di Liberazione, Arma dei Carabinieri, Ministero della Difesa

Questa loro lunga lotta ebbe inizio l’8 settembre 1943 – il giorno stesso dell’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani – con l’impiego del II Battaglione Allievi Carabinieri, poi rimpiazzato dal Gruppo Squadroni Carabinieri “Pastrengo”, a sostengo delle altre truppe schierate per difendere la Capitale dall’attacco concentrico di due Divisioni tedesche all’alba del giorno successivo. Queste furono costrette a ripiegare. Contemporaneamente i Carabinieri si batterono in Balcania unendosi con alcune Sezioni mobilitate e con altri reparti dell’Arma alle truppe dell’Esercito (94 Carabinieri sopravvissuti su 500 dopo diciotto mesi di lotta); ripresero la lotta nella Capitale dopo la violazione da parte tedesca dell’accordo che aveva dichiarato Roma “città aperta” organizzandosi nel “Fronte Clandestino di Resistenza dei Carabinieri” comandato dal generale Filippo Caruso (v.) ed articolato in un “Raggruppamento territoriale” ed in un “Raggruppamento mobile” alimentarono infine in ogni regione la lotta senza quartiere contro il nazi-fascismo passando alle formazioni partigiane allorché il 7 ottobre il comando germanico decretò lo scioglimento dei reparti dell’Arma ed il loro trasferimento nel territorio del Reich.
L’opera dei Carabinieri nella Resistenza non conobbe mai sosta nell’autunno-inverno 1943, né in Italia (banda di “Bosco Martese” in Abruzzo, decisivo il loro intervento nelle gloriose 4 giornate dell’insurrezione di Napoli, tanto per citare i fatti salienti) né in Albania, Grecia e Jugoslavia, ma nel 1944 attinse via via l’estremo della partecipazione ed il vertice dell’olocausto. Allorché il 23 marzo di quell’anno l’esplosione di un ordigno fatto brillare a Roma in via Rasella da un elemento dei G.A.P. (Gruppo di Azione Partigiana) provocò la morte di 33 militari tedeschi, Hitler ordinò la facilazione di 10 italiani per ogni tedesco ucciso. L’eccidio ebbe luogo all’imbrunire del giorno successivo alle Fosse Ardeatine: tra le vittime ben dodici militari dell’Arma, tutti appartenenti al Fronte Clandestino della Resistenza e già arrestati dalle SS germaniche, che invano li avevano torturati perché rivelassero i piani ed i nomi dell’organizzazione partigiana dei Carabinieri. Essi furono: tenente colonnello Giovanni Frignani, tenente colonnello Manfredi Talamo, maggiore Ugo De Carolis, capitano Raffaele Aversa, tenente Genserico Fontana, tenente Romeo Rodriguez Pereira, maresciallo d’alloggio Francesco Pepicelli, brigadiere Candido Manca, brigadiere Gerardo Sergi, corazziere Calcedonio Giordano, carabiniere Augusto Renzini, carabiniere Gaetano Forte. Alla loro Memoria venne concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
[…] In vista della liberazione di Roma da parte della V Armata americana, nel maggio 1944 l’azione del generale Caruso e del suo “Fronte Clandestino” di Carabinieri ebbe di mira anche la preparazione del ripristino delle Stazioni dell’Arma nella Capitale. Il generale, che era accompagnato dal capitano Giorgio Geniola, cadde però il 29 maggio in un agguato tesogli dalla polizia nazista, che sottopose i due ufficiali a gravi sevizie nell’inutile intento di strappare loro delle rivelazioni. Il 4 giugno, mentre le colonne americane convergevano sulla Capitale, il generale Caruso riuscì ad evadere dalle sinistre carceri di via Tasso, riassumendo al comando del “Fronte” la direzione delle azioni svolte dai Carabinieri in quella vigilia della Liberazione. Questa ebbe luogo il 4 giugno 1944. Alla testa delle truppe americane entrarono nella Capitale i Carabinieri del “Contingente R.” comandati dal tenente colonnello Carlo Perinetti, che si fusero con quelli del “Fronte” ripristinando in Roma i comandi territoriali dell’Arma. Per l’opera svolta come animatore del “Fronte” il generale Caruso venne poi decorato della Medaglia d’Oro al Valor Militare. Tra i pochi sopravvissuti delle prigioni di via Tasso, il brigadiere dei Carabinieri Angelo Joppi, gravemente menomato per le sevizie subite durante 90 giorni di detenzione, meritò la Medaglia d’Oro al Valor Militare anche per le ardue e rischiose imprese compiute come elemento del “Fronte” prima della cattura.
[…] L’estate del 1944 fu assai dura per i Carabinieri impegnati nella Resistenza, alla quale sacrificarono arditamente la vita anche il tenente Tito Livio Stagni a Siena, il carabiniere Angiolo Valentini a Talla (provincia di Arezzo), il carabiniere Giuseppe Alfonso a Cuneo il carabiniere Remo Raviol a Roreto Chisone (provincia di Torino), il carabiniere Enio Serra a Jesi, otto carabinieri della “Compagnia Carabinieri Partigiani” in Valsesia, ai quali si aggiunse il 13 luglio 1944 a Sarsina il carabiniere Fosco Montini, definito “partigiano di leggendaria audacia” nella motivazione della Medaglia d’Oro al Valor Militare a lui concessa.
Un episodio che ricorda da vicino l’olocausto del vicebrigadiere Salvo D’Acquisto fu quello che si concluse il 12 agosto 1944 a Fiesole con la fucilazione da parte nazista dei carabinieri Fulvio Sbarretti, Vittorio Marandola e Alberto La Rocca, passati alla storia dell’Arma come “martiri di Fiesole”. Essi affrontarono il plotone d’esecuzione nazista per salvare la vita a dieci ostaggi innocenti.
Nel Veneto l’azione dei patrioti della Brigata “Giacomo Matteotti” si avvalse del prezioso contributo apportato dalla “Compagnia Carabinieri Partigiani”, forte di 100 uomini comandati dal tenente Luigi Giarnieri e posta alle dipendenze dirette della stessa Brigata avente il suo Comando Unico sulla cima del Grappa. Di fronte all’intensissima attività dei partigiani del Monte Grappa, i tedeschi decisero di reagire.
Nella notte tra il 19 e il 20 settembre 1944 quattro Divisioni tedesche, due “Brigate nere” due Battaglioni della Divisione “Monterosa” e altre unità minori mossero contro il Grappa: oltre ventimila uomini, armati ed equipaggiati, che attaccavano mille patrioti, posti a difesa di un massiccio il cui centro era presidiato dalla “Compagnia Carabinieri Partigiani” del tenente Giarnieri. Negli aspri e cruenti combattimenti caddero 18 carabinieri. Nella notte fra il 21 e il 22 settembre il tenente Giarnieri venne fatto prigioniero dai tedeschi. Condotto nel collegio “Filippini” in Pademo del Grappa (Treviso), sede del comando nazista, per due lunghe giornate subì inaudite indescrivibili torture. Fiero e sprezzante, non conobbe momenti di cedimento neppure di fronte alla minaccia di morte. I suoi aguzzini, visto inutile ogni ulteriore tentativo di estorcergli delle informazioni, decisero di impiccarlo pubblicamente affinché la sua esecuzione servisse di monito a tutti i patrioti.
Rilevante fu all’inizio dell’autunno 1944 l’attività dei carabinieri partigiani a Castiglione Chiavarese, in provincia di Genova, a Fivizzano, vicino Massa Carrara, in provincia di Varese, nel Pistoiese e a Lecco. Il Comando Unico Parmense ebbe anche dei carabinieri fra le vittime dell’attacco in forze sferrato dai tedeschi a metà ottobre a Bosco di Comiglio per annientare lo Stato Maggiore dell’importante unità partigiana e durante il quale caddero l’eroico comandante Giacorno di Crollalanza e il comandante della Piazza di Parma, Gino Meconi.
Memorabili sono rimaste nelle valli di Lanzo e del Canavese le azioni dei giovanissimi carabinieri, appena usciti dalla Scuola di Torino, inquadrati nella 46^ e 47^ Brigata garibaldina, comandate rispettivamente dal carabiniere Luigi Trivero e dal vice brigadiere Ferdinando Giambi. Quindici di essi, insieme con altri ventuno partigiani, non poterono purtroppo sottrarsi all’accerchiamento di una soverchiante unità tedesca e vennero fucilati sull’aia di una cascina nei pressi di Cudine di Corio. Era il 18 novembre 1944.
Qualche settimana più tardi, l’8 dicembre a Branova, in Slovacchia, il carabiniere Filippo Bonavitacola affrontò il plotone di esecuzione per non aver voluto calpestare gli alamari strappatigli dai nazisti. All’ufficiale che comandava il plotone di esecuzione e che gli si era avvicinato per bendargli gli occhi, sferrò un violento pugno ed esclamò: “Non occorre che mi bendiate gli occhi. Sparate”. Venne decorato alla Memoria con la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Arriviamo così al 1945, che per i carabinieri partigiani iniziò con dei furiosi combattimenti in Val d’Arda contro agguerrite unità tedesche. Nel gennaio di quell’anno il carabiniere Federico Salvestri, comandante col nome di battaglia “Richetto” delle Divisioni partigiane “Centocroci” e “Val di Taro”, venne catturato e condannato a morte. Ma durante la sua traduzione a Piacenza, per esservi fucilato, riuscì con estrema audacia a sfuggire ai nazisti insieme con cinque patrioti e a riprendere immediatamente la lotta, con azioni che sono rimaste leggendarie. Il 26 gennaio a Ciano d’Enza, in provincia di Reggio Emilia, il carabiniere Domenico Bondi, che aveva al suo attivo numerose imprese condotte contro i nazifascisti, prese parte all’attacco di una colonna tedesca insieme col 3° Battaglione della Brigata “Fiamme Verdi”. Accerchiato dagli avversari durante un’azione isolata, tenne loro testa per oltre due ore. Poi, esaurite le munizioni, fu costretto a cedere. Le torture cui fu sottoposto nei giorni successivi valsero ai tedeschi una sola frase, che il Bondi ripetè con impavida ostinazione: “Sono un carabiniere, da me non saprete altro”. Il 26 gennaio cadde davanti al plotone di esecuzione. Venne decorato della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria.
Fra i carabinieri comandanti di unità partigiane va ricordato il brigadiere Alberto Araldi, che col nome di battaglia “Paolo”, aveva il comando della 3^ Brigata della Divisione partigiana “Piacenza” del tenente dei Carabinieri Fausto Cossu. Dei suoi colpi di mano, delle sue azioni audaci ed improvvise, della sua indomabile energia e del suo coraggio scrisse Pietro Solari nel volume “Partigiani in Val Trebbia e Val Tidone”. Cadde anche lui nelle mani dei tedeschi mentre tentava di catturare un capo nazista di Piacenza, responsabile di rappresaglie e crimini di guerra. Dopo la sua fucilazione, che avvenne nel cimitero di Piacenza il 7 gennaio 1945, un sottufficiale dei plotone d’esecuzione esclamò: “E’ un peccato fucilare uomini di carattere come Paolo”. Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Memoria.
Tra un’infinità di altri episodi che caratterizzarono l’azione patriottica dei Carabinieri fra il gennaio e il marzo dei 1945, sopravvenne la primavera di quell’anno, così importante per la Resistenza e per la Guerra di Liberazione. Anche sul piano militare i Carabinieri, inquadrati nei Gruppi di Combattimento Italiani (3 Sezioni nel Gruppo Friuli, la 95^, la 98^ e la 316^; 2 Sezioni nel Gruppo Legnano, la 39^ e la 51^; 2 anche nel Gruppo Cremona, la 94^ e 739^; infine 3 Sezioni nel Gruppo Folgore, la 314^, la 315^ e la 317^) parteciparono alle operazioni che portarono alla liberazione di numerose città dall’occupazione tedesca. L’ingresso dei Carabinieri nei centri liberati venne salutato ovunque con entusiasmo irrefrenabile.
Al momento dell’insurrezione generale, ordinata il 25 aprile 1945, i 700 carabinieri della “Banda Gerolamo” del maggiore Giovannini intensificarono la loro attività e parteciparono nei giorni 25, 26 e 27 alla liberazione di Milano. Secondo i piani prestabiliti e decisi in armonia col C.L.N. varie squadre di Carabinieri occuparono tempestivamente le caserme della città, assicurando i necessari servizi d’ordine e di difesa degli edifici pubblici e rastrellando ingente quantità di materiale e documenti. Fra gli episodi più importanti va ricordata l’occupazione della caserma del 205° Comando Regionale Repubblicano e l’attacco alla Caserma Medici, sede dei Comando nazista. Gli alleati, sopraggiunti dopo due giorni dalla liberazione, trovarono non solo a Milano, ma in tutta la Lombardia, l’Arma interamente ripristinata dalla “Gerolamo” nelle sue sedi e in piena attività istituzionale. Il 27 aprile anche Piacenza venne liberata da una Divisione partigiana: a comandarla era il tenente dei Carabinieri Fausto Cossu, che il 27 aprile sfilò alla testa della sua unità per le vie della città esultante. La formazione del tenente Cossu ebbe grandi meriti nella lotta ai nazifascisti.
Ultimata l’epica stagione della Resistenza, venne il momento di fare l’appello. Dalle file dell’Arma non risposero 2.735 militari, caduti in soli venti mesi di lotta partigiana; 6.521 risultarono i feriti.
Un così alto tributo di sangue ha avuto i seguenti riconoscimenti:
alla Bandiera dell’Arma:1 Medaglia d’Oro al Valor Militare;
ad ufficiali, sottufficiali, appuntati e carabinieri:
2 Croci di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia;
32 Medaglie d’Oro al Valor Militare;
122 Medaglie d’Argento al Valor Militare;
208 Medaglie di Bronzo al Valor Militare;
354 Croci di Guerra al Valor Militare
Redazione, I Carabinieri nella Resistenza e nella guerra di Liberazione, Sezione ANPI Monforte – Porta Venezia “Poldo Gasparotto”, Milano

Qualche anno fa hanno collocato il busto di Salvo D’Acquisto ai giardini Rosario di Imperia, con una cerimonia alla presenza delle massime autorità provinciali. Ma c’è un altro carabiniere eroe che, invece, è stato dimenticato pur avendo vissuto a Bordighera, dove è morto nel 1974. Si tratta di Angelo Cicerale, origini salernitane, i cui genitori emigrarono negli States, nello specifico a Bridgeport, città costiera non lontana da New York, per poi ritornare in Italia. Il tenente Cicerale, durante la Seconda Guerra mondiale, guidò la tenenza Duomo a Milano e fece parte del gruppo di carabinieri-partigiani diretti dal maggiore Ettore Giovannini, a capo del XIV Battaglione mobilitato. Cicerale fu il braccio destro di Giovannini. Superò almeno venti volte il confine svizzero per andare nella villa del duca Marcello Visconti di Modrone, che ospitava una radio trasmittente con cui si mandavano messaggi agli Alleati. Dopo l’ennesimo viaggio, i tedeschi sorpresero Cicerale e, dopo averlo torturato per strappargli informazioni – ma lui stoicamente non parlò – lo deportarono in un lager, nel famigerato campo di Dachau.
Il tenente Cicerale, che aveva conosciuto il suo superiore a Lubiana, durante l’occupazione italiana della Slovenia, sopravvisse allo sterminio ma le sofferenze gli minarono il fisico in modo irrimediabile. Come detto, morì a Bordighera nel 1974, dimenticato. Eppure, si legge nel documento protocollato 138/129 e conservato nell’Ufficio storico dei carabinieri, in cui Giovannini specificava compiti ed elencava gli uomini della cosiddetta «Banda Gerolamo», il gruppo partigiano da lui formato: «Cicerale è corriere clandestino di eccezionale coraggio, mio primo coadiutore nella costituzione della formazione, pagò l’abnegazione con atroci torture e con il lungo martirio a Dachau». Cicerale fu considerato uno degli elementi di spicco della Banda Gerolamo, alla stregua del capitano Silvio Cavanna, che occultò materiali bellici dirottandoli verso magazzini segreti. Il gruppo fu costituito il 1° maggio del 1944. Operò soprattutto a Milano, Como, Varese e province. Una parte dei carabinieri si diede alla macchia, un’altra, per volontà del maggiore Giovannini, rimase in servizio conservando i propri posti in seno alla Guardia nazionale fascista per carpire notizie e compiere atti di sabotaggio. Peccato che di quegli uomini pochi oggi si ricordino. Come di Cicerale, dimenticato e ora sepolto nel cimitero di Bordighera, nel loculo 295, campo D, ampliamento 71, sezione C-cappella. Tanti riferimenti, nessun fiore.
D. BorghiM. Vezzaro, Sepolto a Bordighera (e dimenticato), il carabiniere-eroe, La Stampa, 18 gennaio 2016