Storie di case che si aprono nella notte

Il Teatro Stabile di Verona porterà in scena il reading tratto da libro di Aldo Cazzullo dedicato al Centenario della Grande Guerra “La Guerra dei nostri nonni. 1915-1918: storie di uomini, donne, famiglie” e dal nuovo libro dedicato alla Resistenza “Possa il mio sangue servire. Uomini e donne della Resistenza”.
[…] “Possa il sangue servire per ricostruire l’unità italiana e per riportare la nostra terra a essere onorata e stimata nel mondo intero.”
Capitano Franco Balbis, decorato a El Alamein fucilato dai fascisti il 5 aprile 1944.
La Resistenza a lungo è stata considerata solo una “cosa di sinistra”: fazzoletto rosso e Bella ciao.
Poi, negli ultimi anni, i partigiani sono stati presentati come carnefici sanguinari, che si accanirono su vittime innocenti, i “ragazzi di Salò”. Entrambe queste versioni sono parziali e false. La Resistenza non è il patrimonio di una fazione; è un patrimonio della nazione. Aldo Cazzullo lo dimostra raccontando la Resistenza che non si trova nei libri. Storie di case che si aprono nella notte, di feriti curati nei pagliai, di ricercati nascosti in cantina, di madri che fanno scudo con il proprio corpo ai figli. Le storie delle suore di Firenze, Giuste tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei; dei sacerdoti come don Ferrante Bagiardi, che sceglie di morire con i suoi parrocchiani dicendo “vi accompagno io davanti al Signore”; degli alpini della Val Chisone che rifiutano di arrendersi ai nazisti perché “le nostre montagne sono nostre”; dei tre carabinieri di Fiesole che si fanno uccidere per salvare gli ostaggi; dei 600 mila internati in Germania che come Giovanni Guareschi restano nei lager a patire la fame e le botte, pur di non andare a Salò a combattere altri italiani. La Resistenza fu fatta dai partigiani comunisti come Cino Moscatelli, ma anche da quelli cattolici come Paola Del Din, monarchici come Edgardo Sogno, giellisti come Beppe Fenoglio. E fu fatta dalle donne, dai fucilati di Cefalonia, dai bersaglieri che morirono combattendo al fianco degli Alleati. La Resistenza ha avuto le sue pagine nere, che vanno raccontate, come fa anche questo libro, da Porzûs a Codevigo; così come racconta le atrocità spesso dimenticate dei nazisti e dei fascisti: Boves e Marzabotto, le torture della X Mas e della banda Koch. La storia è scandita dalle voci dal lager e dalle lettere dei condannati a morte, che spesso chiedono la riconciliazione nazionale e si dicono certi che dal loro sacrificio nascerà un’Italia migliore.
Redazione, Presentazione multimediale dei libri di Aldo Cazzullo, Fondazione Atlantide, Teatro Stabile, Verona, maggio 2015

[…] Sono stati recentemente pubblicati due libri, diversi come impostazione ma accomunati dalla medesima scelta tematica: ricordare, nel 70° della ricorrenza (1945-2015), la Resistenza e la Liberazione dal nazifascismo in Italia.
Si tratta di Possa il mio sangue servire: Uomini e donne della Resistenza di Aldo Cazzullo, edito da Rizzoli, e La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna, edito da Feltrinelli.
Il primo, dal taglio giornalistico, prende il titolo da una lettera di un partigiano condannato a morte ed è una raccolta di storie che intendono descrivere le sfaccettature del fenomeno resistenziale. Una guerra di giovani che, per fuggire dalla leva imposta dalla Repubblica di Salò, scappavano sulle montagne; la resistenza quotidiana e bellica di donne; la scelta di uomini ideologicamente motivati che volevano la democrazia e la libertà; l’impegno di carabinieri e di militari dell’esercito regio; la presenza attiva di preti.
Cazzullo ha raccolto le diversità e lascia parlare i protagonisti attraverso i loro scritti, completando poi le informazioni su di loro.
[…] La Resistenza ha avuto vari aspetti e l’autore ritiene riduttivo considerarla solo appartenente alla sinistra comunista e solo come un movimento sanguinario; per questo la narrazione cerca di superare visioni parziali o faziose e dà ampio spazio, per esempio, a storie di militari che combattono per ridare al Paese-Italia la sua perduta dignità civile. Oppure si ricordano i militari internati poiché “preferirono” il lavoro nei campi di concentramento piuttosto che il ritorno e combattere per i repubblichini e i nazisti; furono circa seicentomila e molti morirono, appunto, nei campi.
Oltre alle storie di partigiani aderenti al Partito comunista clandestino, emergono storie di liberali aderenti a Giustizia e Libertà, di suore che hanno salvato centinaia di ebrei, di preti morti durante stragi di civili come quella a Sant’Anna di Stazzema in Toscana.
[…] Nello stesso filone resistenziale ma di ben altro spessore è il secondo libro che commentiamo, quello dello storico torinese De Luna. Questo è un saggio che segue il filo dei diari di Leletta d’Isola, la figlia adolescente della contessa Malingri, rifugiatasi nel palas in Piemonte occidentale dopo l’8 settembre 1943. Nel castello dei conti, luogo di supporto e spazio di dialogo, si mette in moto, come in altri luoghi, “il laboratorio della resistenza”.
“Tutti gli attori, protagonisti come le comparse, che abbiamo visto agire sul grande palcoscenico della guerra, li ritroviamo ora nel Diario di Leletta. Nel passare però dallo scenario della grande storia al piccolo mondo racchiuso tra le mura della casa del Villar è come se i loro contorni diventassero più definiti, quasi che lo spessore delle persone e degli eventi si dilatasse, rendendo più “conoscibile” e quindi più “raccontabile” la storia di quei venti mesi. È questa la magia della scrittura di Leletta, il segreto che rende il suo sguardo assolutamente originale nel contesto della memorialistica della Resistenza […].
Fascisti, partigiani, tedeschi, studenti e professori, banditi, contadini, preti, eroi, traditori: tutti passarono per quell’enclave partigiana, per il cortile di quella villa patrizia; ognuno lasciò una traccia, di ognuno Leletta catturò un particolare, un elemento che le sue pagine restituiscono oggi allo storico che studia quel periodo” (pp. 100 e 101).
Dopo il ’45 Leletta si laurea, prenderà i voti divenendo suora e compiendo in seguito attività sociale sul territorio (fra l’altro nel 2012 si è aperta la causa per la sua beatificazione), rivedrà il suo diario, facendone un libro che verrà pubblicato nel 1993. In questo modo ritorna, anni dopo, alla lotta partigiana, rivivendola come un’esperienza in cui era possibile riconoscere il bene e il male direttamente negli uomini e negli eventi.
[…] De Luna dimostra come la “perfezione” della Resistenza coincide con una rinascita individuale e sociale. Non solo una scelta militare poiché contrariamente al nemico la scelta delle armi e della violenza da parte dei partigiani – salvo casi marginali – è stata sempre e solo dura necessità.
Usiamo per meglio comprendere le parole dello storico:
“La “Resistenza perfetta” c’è stata. Ed è quella che queste pagine raccontano. Un dato colpisce negli uomini e nelle donne che ne sono protagonisti: discutono, progettano, amano, con le armi in pugno. E questo ci obbliga ad una riflessione che ci porta nel cuore dell’”uso pubblico della storia”. Tra le tante catastrofi provocate dal terrorismo degli anni settanta c’è, infatti, anche una sorta di “interdetto culturale” che oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti […]il terrorismo degli anni settanta non è più stato visto come un fenomeno politico, circoscritto nel tempo e legato a irripetibili condizioni storiche, ma è diventato una categoria generica e onnicompresiva…fino ad un giudizio liquidatorio che ha implicato la condanna di qualsiasi comportamento politico che abbia avuto a che fare con la violenza armata, indipendentemente dalle sue motivazioni e dagli esiti” (p. 14).
Ed ancora in riferimento agli studi che hanno privilegiato “la Resistenza civile” e riguardante, ad esempio, le donne prodigatesi in gesti di abnegazione e solidarietà, i “giusti” che hanno rischiato per salvare gli ebrei, i militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre, De Luna scrive: “Bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere, oggi, che senza i partigiani in armi la “Resistenza civile” non avrebbe avuto ragione di esistere. Soccorrere gli inermi, aiutare i feriti, prodigarsi per nascondere i prigionieri sono iniziative che acquistano un senso compiuto solo se le si guarda come elementi fondamentali del contesto propizio e generoso in cui operarono gli uomini che decisero di sfidare in campo aperto i tedeschi e i fascisti (p. 15)”. […]
Maurizia Morini, “Possa il mio sangue servire: Uomini e donne della Resistenza di Aldo Cazzullo e La Resistenza perfetta di Giovanni De Luna”, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), septembre 2015. URL: http://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/bibliotheque/possa-il-mio-sangue-servire-uomini-e-donne-della-resistenza-di-aldo-cazzullo-e-la-resistenza-perfetta-di-giovanni-de-luna

Piemonte occidentale, 1943-1945. Dopo l’8 settembre, attorno al palas dei conti Malingri si affollano le prime formazioni partigiane: il laboratorio della resistenza, qui come altrove, si mette in moto e trova in quel castello un luogo di supporto e insieme uno spazio di dialogo su quanto sta accadendo. Tra le molte figure che vi ruotano attorno, ne emergono due: Pompeo Colajanni, il comandante “Barbato” della prima divisione Garibaldi, e Leletta, la figlia adolescente della contessa Malingri. Ed è proprio seguendo il filo dei diari della ragazza che Giovanni De Luna ripercorre con passione e dettaglio i venti mesi di La Resistenza perfetta, il suo nuovo saggio appena edito da Feltrinelli.
Venti mesi di durissime lotte, di grande smarrimento di fronte a un’Italia a pezzi, di spaventosi eccidi compiuti dai nazifascisti, di necessità (di Barbato come di altri comandanti) di unire i poli dello spontaneismo e dell’organizzazione per rendere più efficace l’azione partigiana e conquistare la fiducia dei contadini; ma anche venti mesi di coraggio e abnegazione, di fortissima politicizzazione del ceto operaio, di conversazioni pacate sulla vita e la letteratura tenute in un clima di serenità quasi irreale, nel palas.
Venti mesi durante i quali il tema di come amministrare la giustizia partigiana divenne una necessità primaria e anche un tormento (come testimoniano le ferme ma inquiete riflessioni del commissario politico Emanuele Artom). Quasi due anni di passioni, di amori, di esperimenti di democrazia diretta, di strutture antiautoritarie, di faticosa e a volte incostante elaborazione dell’identità femminile delle partigiane; venti mesi di fusione tra guerriglia, responsabilizzazione, amicizia.
Tutto questo potrà apparire un facile stereotipo, un’oleografia che rischia di sommergere la carne e il sangue dell’esperienza partigiana in un’immagine che le rende scarso servizio. L’autore ne è cosciente, e anzi affronta il problema fin dalle prime pagine: parlare di “Resistenza perfetta” non significa nascondere le imperfezioni che attraversarono quei mesi, i litigi interni, le difficoltà di gestione della lotta, o gli omicidi di “spie” che invece non lo erano (e qui occorre ricordare due vittime come Caterina Re e Lucia Beltramo).
Significa, una volta per tutte, impedire che degli episodi isolati siano ingigantiti e usati come prove contro il valore etico e politico del movimento resistenziale. E confutare il bieco revisionismo di chi vede in quel periodo una guerra civile tra parti ideologicamente e politicamente uguali, una sorta di carneficina dove fascisti e partigiani si ammazzavano a vicenda come in una battaglia tra bande.
La “perfezione” della resistenza fu invece ben altra, e De Luna la mostra in tutta la sua chiarezza: l’ingresso in un gruppo partigiano non era solo una scelta militare, tutt’altro; coincideva con una rinascita individuale e sociale. Barbato tracciava una linea sul suolo piemontese, invitando a oltrepassarla solo chi oltre a essere convinto della bontà della causa, lo era anche della sua volontà di spogliarsi di un intero passato. In quel piccolo gesto c’era molto più di un simbolo, e molto più di una semplice azione di reclutamento. Di certo non si trattava di aderire a un’esaltazione delle armi, a una violenza paritetica a quella fascista: all’esatto opposto del nemico, la violenza non era considerata dai partigiani (salvo alcuni casi marginali) come un elemento fondante, ma sempre e solo come una dura necessità.
Non solo. La perfezione di quel periodo risiede anche e soprattutto nel modo in cui fu vissuto globalmente, e non solo da chi scelse di combattere: per quanto non sempre scontata e a volte attraversata da tensioni e rinunce più che comprensibili, la risposta da parte del popolo italiano fu univoca. Un lavacro purificatorio da tutte le tossine del fascismo.
Cito un episodio che potrebbe ben figurare come corollario al libro di De Luna. Nel terribile autunno del 1944, la zona libera di Varzi in Lombardia fu invasa dalla repressione nazifascista; i partigiani furono costretti a tornare clandestini e nascondersi nelle “buche” – tane di sei metri quadri mimetizzate con zolle di terra ed erba. “Ed è in questo momento”, scrive Nunzia Augeri nel suo Le repubbliche partigiane. Nascita di una democrazia (Spazio Tre 2010, fuori catalogo si può richiedere a spaziotresrl@tin.it) “che si realizza la vittoria più significativa dell’esercito partigiano: non contro i nazifascisti, ma contro le difficoltà immani, il freddo e la fame, la disperazione e la paura. Nascosti nei casolari e nelle ‘buche’ i partigiani non possono che affidarsi completamente al popolo. Ed è un intero popolo che li aiuta, li sfama, li protegge e con loro risorgerà e insorgerà nella primavera successiva”.
Perfezione come risveglio di energie a lungo frustrate, dunque. Come riscoperta della distinzione tra un male passato e presente – il fascismo e l’invasore tedesco – e un bene da costruire giorno per giorno, fatto di nuove libertà, di autodeterminazione, di bellezza.
“Questa lotta, proprio per questa sua nudità, per questo suo assoluto disinteresse, mi piace. Se ne usciremo vivi, ne usciremo migliori”, scrive Giorgio Agosti di Giustizia e libertà al compagno Dante Livio Bianco. “Ciò che colpisce oggi nel raccontare quella vicenda è infatti la constatazione di come tutti abbiano cercato di dare il meglio di se stessi, politicamente e umanamente”, chiosa De Luna.
Non sarebbe durata molto; di certo non con quello slancio. Dopo la liberazione le conseguenze si fecero sentire subito al palas e per i personaggi messi in scena da De Luna: le tensioni mai davvero risolte tra la famiglia conservatrice e cattolica di Leletta e i partigiani comunisti tornarono a farsi vive; il comandante Barbato diventò dirigente del Pci in Sicilia (testimoniando quanto la resistenza fu anche un momento di formazione della classe politica del dopoguerra), mentre Leletta si fece suora. I cammini intrecciati in una breve, dolorosa e folgorante stagione si separarono.
E l’Italia?
L’Italia soffrì spesso di smemoratezza. E si ammalò a volte di desistenza, come l’ebbe a definire Piero Calamandrei: l’esaurimento del moto politico e morale che attraversò quegli anni — “la facilità di oblio, il rifiuto di trarre le conseguenze logiche della esperienza sofferta, il riattaccarsi con pigra nostalgia alle comode e cieche viltà del passato”. L’evento-resistenza, con tutto il suo carico di idealità e sacrificio, non fu per intero conservato e trasmesso come pratica attiva nel nuovo presente: per molti versi – purtroppo – rimase appunto allo stato di evento.
E così la repubblica edificata su quei venti mesi (e su tutto il lavoro degli antifascisti negli anni precedenti, da Gobetti ai fratelli Rosselli alle migliaia di persone anonime che lottarono per tenere accesa la fiamma della libertà) ha mostrato, molte volte, di non esserne all’altezza: nelle sue istituzioni, ma anche e più banalmente nel suo popolo.
Scrive ancora De Luna: “I partigiani, teoricamente i vincitori, si riferivano agli esiti della loro lotta con il disincanto trasmessoci da Nuto Revelli e faticavano a riconoscersi nell’Italia venuta dopo il fascismo; i fascisti, gli sconfitti, non ci misero molto a ritrovare la baldanza di chi, oltre a essere sopravvissuto alla catastrofe delle proprie idee, si appresta a rilanciarle e a riproporle nel contesto inopinatamente favorevole dell’Italia nata dalla propria sconfitta”. […]
Giorgio Fontana, La resistenza perfetta, Internazionale, 25 aprile 2015